Lettori fissi

30/01/20

Romeo



Romeo | 2000

… E ora erano arrivati anche loro.

Era appena finita la stagione del grande freddo ed era finita la pace. Stava per sparire anche una delle ultime oasi di tranquillità e fertilissimo terreno di caccia. Sotto le travi crollate o nella stanza buia si poteva cacciare. Il bottino della giornata era facilmente assicurato. I piccoli volatili cinquettanti o gli abitanti delle fogne erano facile preda del cacciatore dagli occhi gialli e dagli artigli affilati. Sopra ai vecchi materassi si poteva amoreggiare con le occasionali compagne raccattate in piazza o banchettare con gli amici.

Adesso tutto questo bengodi stava per terminare.

Erano arrivati i demolitori con le loro tute marroni. Con martelli e picconi, con ruspe e pale. E rumore. Un grande rumore che spaventava le prede e vanificava gli sforzi del nostro eroe. L’agibilità del luogo era consentita solo durante le ore notturne quando gli operai tornavano alle loro case.

Poi erano venuti i rifinitori con le loro tute bianche e i loro pennelli.

Tutto quanto faceva presagire l’ennesimo sfratto e la ricerca dell’ennesimo rifugio nei soliti vicoli. Ma il nostro cacciatore non si voleva rassegnare e periodicamente operava spedizioni di controllo in quello che era stato il suo regno. Le cose, in verità, si misero male quando arrivarono i montatori con le loro tute blu. Con le saldatrici e i cacciaviti, con gli infissi e i vetri. Stavano chiudendo gli accessi.

Un altro padrone stava per soppiantare il comodatario precedente.

Intanto però i lavoratori avevano iniziato le finiture esterne. Muretti in pietrame faccia a vista e pavimenti in selciato. Scalette e rampe. Aiuole e alberelli. Una piccola fontina era stata posizionata in un angolo della piazzetta sotto la strada.

E poi montarono una colonna al centro.

Dal tetto si poteva facilmente saltarvi in sommità. Un piccolo divertimento che sicuramente avevano voluto offrire a scusarsi dei disagi che avevano procurato all’abitante precedente. Infine un giorno, ad estate inoltrata, giunse una signora vestita con un semplice completino. Giacca e gonna grigia, camicetta bianca e scarpe nere.  Le lunghe gambe abbronzate non portavano collants. Un nastro arancione le legava i capelli corvini. Con pochi gesti salì una scaletta e posizionò qualcosa sulla cima della colonna. Si trattava di uno strano oggetto a forma di tempietto. Quattro piccole colonnette  affusolate sorreggevano un tetto a capanna. Tutto di metallo giallo e luccicante.

Non era male.

Era sicuramente la casa del re.

Almeno così pensò Romeo [il gatto del mattatoio] spiccando il salto per prendere possesso della sua nuova abitazione.


Un mattatoio si trasforma nella “casa del re”.
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23/01/20

L'appuntamento



L’appuntamento | 2003

Il canto del gallo destò Filippo che rimase alcuni minuti a riflettere e rimuginare sul nuovo giorno di lavoro che lo attendeva. C’era da gestire il cantiere della fabbrica con i cento e passa operai che vi lavoravano e con l’inverno ormai alle porte. Tredici giorni soltanto mancavano al solstizio del 21 e all’inaugurazione ormai fissata.

Il nostro uomo si convinse che era ormai l’ora.

Era l’ora di levarsi dal caldo tepore delle coperte e dal piacevole contatto con il corpo della giovane moglie. Aprì gli scuri e si affacciò alla piccola finestra intravedendo, tra la fitta trama di costruzioni, un pezzetto di cielo e la nuova alba. Il sole era appena spuntato rischiarando fievolmente una città appena sveglia. L’aria tersa e il freddo pungente lo destarono del tutto.
Sicuramente i lavoratori erano ormai in cantiere e adesso toccava a lui. Si lavò e si vestì con eleganti vestiti colorati come si conviene alle persone importanti.

La colazione fu consumata in fretta che si era ormai fatto tardi.

In cantiere lo attendeva con impazienza il signor Gilberto; capomastro e responsabile dei muratori e degli scalpellini extracomunitari. Una pacca sulla spalla e un sorriso bastarono a rinnovare il saluto mattutino che, ormai da quasi vent’anni, i due amici si scambiavano.  Insieme misero a punto i dettagli delle ultime fasi dell’opera.

Ordini e imprecazioni si mischiavano ai rumori del luogo di lavoro.

Mazzuoli e cazzuole; tegole e mattoni; corde e montacarichi; solide impalcature e complicati macchinari. Si costruiva la grande fabbrica che avrebbe dato lustro alla città e consolidato il potere della Famiglia. Le ore passarono in fretta fino al mezzogiorno.

Oggi era un giorno speciale.

Si mangiava tutti insieme. Muratori e fabbri, marmisti e falegnami, lattonieri e imbianchini, tecnici e dirigenti. Tutti insieme alla stessa tavola; i locali e quelli che venivano da fuori. Una specie di festa per la posa del tetto che da lì a poco sarebbe stato completato. I rintocchi della campana sovrastarono i rumori e la confusione del cantiere.

La pausa del pranzo era arrivata.

Gli operai scesero le impalcature e si avviarono all’interno della fabbrica riunendosi all’improvvisato tavolo realizzato dai carpentieri con gli avanzi del legname. I camerieri fecero il loro mestiere servendo abbondanti dosi che riscaldarono il corpo e lo spirito dei commensali. Al desco di fortuna vennero apprezzati soprattutto i due piatti che si contesero la palma del vincitore fino all’ultimo boccone: la zuppa lombarda e il peposo alla fornacina. La ciotola di coccio li contenne tutte e due in compagnia degli innumerevoli gotti di rosso vino delle vicine colline. La pancia dei commensali accolse di buon grado tutto questo ben di Dio. Il direttore dei lavori mangiò di buon appetito e bissò più volte il desinare fino a sentirsi un po’ più che sazio.

Poi, nel mentre che la festa giungeva al termine, un rapido battito di ali annunciò l’arrivo del piccione viaggiatore con l’ennesima missiva del Padrone che ricordava al nostro eroe il consueto appuntamento del pomeriggio. C’era da definire gli ultimi dettagli relativi all’inaugurazione dell’opera e da stilare la lista definitiva delle personalità da accogliere sul palco d’onore.

Alla lettura dell’epistola Filippo si alzò e comunicò che la sua presenza era richiesta in altro luogo per importanti questioni di lavoro. Ringrazio amici, collaboratori e operai e si congedò da tutti con un leggero cenno della testa.

Con passi incerti e traballanti sparì dalla vista del cantiere e del suo progetto: “Struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con (la) sua ombra tutti e’ popoli toscani”.

Era il giorno dell’Immacolata, 8 dicembre dell’anno 1436 in Firenze e Filippo Brunelleschi architettore si recò alla sua dimora. Informò la famiglia di sentirsi alquanto aggravato e si approssimò in camera. Chiuse gli scuri e si spogliò. Si coricò a letto e lì rimase russando sonoramente tutto il pomeriggio bucando il rilevante appuntamento con il suo committente.


Resoconto della festa per la fine della costruzione di una cupola.
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16/01/20

Percorsi



Percorsi | 2005

Sono arrivato a Firenze con il treno da Roma.

Arrivo da lontano. Per arrivare in Italia ho dovuto prendere l’aereo. Il viaggio sono di quelli che non ti scordi specialmente se, come me, non sei mai uscito dal paese degli Incas. Volo intercontinentale da Quito fino alla città del Papa e poi in treno fino alla stazione di Michelucci. Esco fuori e ti vedo il sedere di Santa Maria Novella insieme a quello di una certa signora bionda tutta agghindata con minigonna, tacchi alti e camicetta trasparente colore arancione.

Notevoli tutti e due
.
I denari sono pochi e allora mi decido di saltare il taxi e prendere alla pedona. Devo arrivare in Oltrarno e secondo la planimetria che mi sono portato dall’altra parte del mondo saranno solo due chilometri e ventidue metri fino all’Istituto. Mi trascino la valigia di cartone lungo via de’ Panzani  e via de’ Cerretani fino a piazza più bella del mondo.

Qui c’è la basilica di Santa Maria del Fiore  e la Cupola di Filippo.

C’è il battistero ottagono; rivestito a strisce bianco e verde; e poi la torre di Giotto. Ma non ho tempo di stare ad osservare ‘ste bellezze. Lo farò nei prossimi giorni con tutta calma. Percorro in fretta la via degli scarpai fino alla piazza dei signori. Il palazzo è Vecchio ma lo spazio è stupendo. Mi infilo nel corridoio degli Uffizi e sbuco al fiume. L’Arno è lì che scorre placido in questa fine giornata di inizio estate. Oggi è il ventidue del mese dei gemelli e mi pare che tra due giorni sarà la festa del patrono della città e la sera ci saranno i fuochi lungo il fiume. Ma non ho tempo per ‘sti pensieri che mi devo ancora sistemare. Il portico sotto il  percorso Vasariano mi conduce verso il ponte antico.

Ponte Vecchio varca il fiume con tre arcate  e nel mezzo ci si può affacciare.

Nel mentre passo sopra al ponte mi viene in mente una filastrocca/indovinello che mi raccontava la nonna materna che proveniva da un paesello qui vicino: “… O nini ascolta questa. Sotto il ponte c’è tre conche. Passa il lupo e non le rompe. Passa il cane e ne rompe due. Chi è il più bravo di questi due?”. E io invariabilmente cascavo nel tranello. Se rispondevo il lupo lei diceva il cane e viceversa. Giochino innocente di tempi innocenti.

Ma ora penso all’arte. Vivo per l’arte.

Ho vinto la borsa di studio del Pio Istituto de’ Bardi e ora vado a riscuotere il premio che vuol dire sei mesi a Firenze a studiar l’arte. Via Guicciardini e poi la piazza e il palazzo de’ Pitti. Via veloce fino alla via degli antiquari che prende il nome da un mese dell’anno. Ora sono vicino.

Ecco la strada. Ecco il palazzo.

Entro dalla grande porta ad arco sul fronte. Il corridoio è buio e sul fondo si percepisce la presenza del cortile interno. A destra intravedo le scale che salgono ai piani di sopra e magari le scendo dopo essermi sistemato nella stanza. Sulla sinistra una serie di varchi sulla spessa parete mi conducono verso la stanza della segreteria. Qui mi posso informare sulle attività dell’Istituto e più nel dettaglio di quello che succede all’interno del palazzo. Mi riceve una gentile signora che mi fa accomodare e mi racconta in breve degli antefatti storici e  del conte Girolamo Bardi appassionato cultore di scienze, illuminista e liberale. Della sua volontà di favorire l’istruzione e la preparazione tecnica degli artigiani. Della storia della scuola e poi del palazzo. E infine delle ultime vicende che hanno portato alla creazione del centro per l’arte in cui mi trovo. Sono naturalmente un visitatore interessato perché vi abiterò per i prossimi sei mesi. Lascio le valigie in un angolo e chiedo di poter effettuare un giro da solo. A sinistra della ricezione trovo alcuni locali destinati a sala mostre temporanee. Ho la segreta speranza che alla fine del mio soggiorno potrò esporvi anche le mie opere. Nel locale principale c’è un piccolo banco-bar di modo che gli spazi per mostre diventano una specie di “caffè degli artisti”; un soggiorno comune tra artisti di tutte le parti del mondo. Un caffè globale. Adesso vado a destra verso la piccola e fornitissima biblioteca dell’arte. Sono quattro locali, alcuni voltati, pieni di libri e scaffali e tavoli. Ci sono anche i collegamenti alla rete internet e tutto quanto occorre alle mie ricerche. La biblioteca è a disposizione del quartiere e della città e in generale a chi ne fa richiesta. Mi pare una bella idea. Adesso è ora di salire sopra. Mi riprendo le valigie e mi viene data la chiave numero ventidue. Accedo al cortile interno. Mi trovo in uno spazio aperto-coperto. Una serie di orizzontamenti fatti a griglia mi fa vedere il cielo arrossato di un fine pomeriggio fiorentino. Un blocco di scale in metallo ma tutte aeree e trasparenti mi potrebbe condurre di sopra. Ma ho le valigie e sono stanco per la scarpinata di poco fa. Vado all’ascensore che è grande e anch’esso con pareti grigliate. Una specie di montacarichi evoluto come quello che si vede in certi film “made in USA” dove gli artisti abitano vecchi opifici. Sono sicuro che potrà trasportare anche le opere che ho in mente di fare durante questo soggiorno. L’ascensore arriva al primo. Esco dalla macchina per salire e entro nell’edificio. Mi oriento nei meandri del palazzo e percorro il corridoio in destra e poi in sinistra. I numeri vanno dall’uno al dieci.

Evidentemente mi sono perso di nuovo.

Come spesso mi accade. Mi decido per suonare al campanello numero otto. Alla porta mi accoglie un giovane di colore. Si chiama Manimba e viene dalla Nigeria. E’ arrivato ieri ed è qui con una borsa di studio dell’Istituto. Come me. Lui conosce già il posto e nel mio francese stentato gli chiedo se ha voglia di accompagnarmi fino al numero ventidue. Per prima cosa si fa dapparte e mi invita dentro al suo. E’ un alloggio su due livelli soppalcati. Con tre grande finestre di cui una affaccia su via Maggio. Bagno, cucina e spazio per lavoro al piano di ingresso. La scala a chiocciola conduce sopra il soppalco dove si trova il posto per dormire e un altro piccolo locale igienico. Veramente bello e funzionale. Spero che il mio lo sia altrettanto. Manimba mi informa che quasi tutti gli alloggi a questo piano sono soppalcati mente quelli ai piani sopra sono su un unico livello. Dopo aver gustato un bicchiere di rosso ci si avvia al secondo piano. Ora si prende le scale interne che si avvitano per due rampe fino al mezzanino e per altre due fino al piano successivo. Qui il solito meandro di corridoi conduce ad altri numeri: dal quindici al ventuno. Il mio non c’è ancora. Che sia uno scherzo questa chiave numero ventidue che mi porto in tasca? Manimba mi conduce per una stretta rampa di scale e suona al quindici. Una bellissima meticcia di circa venticinque anni, con capelli corvini e denti bianchi, apre la porta.

Proviene da Rio in Brasile e si chiama Eva.

E’ qui con il compagno e il piccolo Oscar per un soggiorno ”full immersion” nell’arte del trecento fiorentino. E’ qui per ritrovar la vena dell’arte che ha smarrito nella spiaggia di Copacabana. Paga una quota per l’alloggio e per l’uso dei servizi comuni ed è felice. Glielo si legge dentro gli splendidi occhi verde smeraldo. Il compagno Danilo insieme al piccino di tre anni sono in giro per mercatini e lei ci fa entrare.  L’appartamento è spettacolare. Con finestre  che si affacciano sui tetti di Firenze e poi dalla camera si vede la facciata di Santo Spirito. Il soggiorno ha il soffitto in pendenza e un grande camino a tutta parete. Splendido. Ma ora si deve uscire per cercare il numero ventidue. Al piano di sopra l’ascensore non arriva e allora si prende l’ennesima scala dalla parte opposta al quindici. Una piccola freccia ci informa che siamo vicini. Salgo i gradini due a due fino alla fine della scala. In cima alla rampa la targhetta in acciaio corten; che porta  inciso  due – due; è a sinistra della porta. Provo la chiave e appoggio le valigie.

Mi guardo intorno.

Mi trovo dentro un monolocale che affaccia sul cortile. Una stanza unica dove mangiare, stare, lavorare, dormire. Mi sento alquanto deluso dal trattamento riservatomi: all’ultimo piano e all’ultimo alloggio. Il più brutto. Ma poi sento un rumore. Lo sento sopra di me. Lo sento sopra il solaio. Un battito leggero. Ma talmente leggero che quasi non si sente. Come un piede che batte il tip-tap a tempo di jazz. Lascio di stucco il mio cicerone e mi sparo fuori dell’uscio. Il corridoio si strettisce ancora e finalmente, fatti pochi passi, la trovo. Trovo la scala che si inerpica verso il fuori.

Verso l’altana.

Si tratta di una stanza coperta ma aperta di circa metri sei e ventidue per sei e ventidue di forma circa quadrata con copertura a padiglione e capriate in legno. Dai parapetti c’è una vista mozzafiato sui tetti della città. Dirimpetto alla scala;  ad una distanza di ventidue più ventidue metri; c’è il fianco  alto e snello del Santo Spirito di Brunello. In un angolo c’è un giovane dai capelli lunghi e scuri; seduto su una piccola sedia davanti a un cavalletto di legno di ciliegio; intento a dipingere una piccola tela di centimetri ventidue per ventidue nel mentre che batte i piedi al ritmo di una musica immaginaria. Evidentemente il  nostro arrivo lo distoglie dal sacro fuoco delle arti perché si gira verso di noi e con l’idioma del posto fa: “… Buongiorno … permettete che mi presenti. Sono il fratello minore di Tommaso Cassai ma tutti mi chiamano, chissà perché, lo Scheggia”.


C’è un tipo che arriva “dalle Ande agli Appennini” e fa un incontro improbabile.
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09/01/20

Cangrande



Cangrande | 2005

Sono stato una volta  Verona. Anzi mi è capitato di esserci andato almeno sette e poi un paio di volte o tre l’ho sfiorata.

Prima le sfiorate.

Le sfiorate dipendono dalla vicinanza della città con varie attrazioni turistiche che non hanno niente a che vedere con l’arte. Per esempio il Parco zoo o anche il lago di Garda oppure Gardaland. E poi l’appellativo sfiorate dipende dal fatto che il corpo era turistico e giocava con i figli ma il cuore pensava all’arte della città di Romeo & Giulietta.

Ora le visite.

Un paio ricordo di averle fatte nella prima metà dei settanta. Di una ricordo un pullman pieno di adolescenti felici per la gita a prescindere del luogo che c’era da visitare. In cinquanta ci recammo alla Fiera dell’agricoltura a vedere mucche e cavalli; macchine agricole e sementi. Dell’altra non ricordo niente.
Ce ne sono poi almeno tre in un posto vicino all’uscita dell’Autostrada. Qui si trova il Centro fiere della città. Un agglomerato di capannoni dove si svolge, da almeno venti anni, una mostra di arredamento tutta particolare. Una mostra del mobile e della memoria che hanno battezzato Abitare il tempo. Ricordo di un progetto di concorso per un mobile di affezione e di un paio di oggetti per la casa che mi è capitato di esporci. Uno di questi; Lucignolò, aveva il nome che scimmiottava l’amico di Pinocchio ed era dedicato a mia figlia che da piccola dipingeva con gli acquarelli.

Le altre volte sono stato nel cuore della città.

In compagnia di amici e parenti ho visitato la piazza delle Erbe e l’Anfiteatro; il lungo fiume e le mura; la casa dei due amanti e le pietre delle sue strade. Un paio di volte ho percorso il ponte Scaligero e mi sono fermato a riposare sulle panche di pietra sotto i merli di mattoni. Ricordo una campagna fotografica con una macchinetta di cartone, di quelle usa e getta, con la Giulia e Guido che facevano i modelli davanti allo scalone di un palazzo storico mentre il sole rendeva drammatiche le ombre. Poi ho visitato il vecchio Castello e il suo museo. Sempre in compagnia e a più riprese dalla fine dei settanta.

Di tutte ricordo qualcosa.

Un particolare o una faccia; una persona oppure un pezzo di sasso. Mi piace però raccontare l’ultima. L’ultima che per me è sempre come se fosse la prima.
Correva circa l’estate dell’anno duemila, poco più o poco meno, e mi trovo in città con la famiglia completa delle sue quattro unità. I ragazzi sono piccoli e il giorno prima la visita al parco vicino al lago è stata obbligatoria. Tutti quei giochi con l’acqua hanno divertito anche me. Ma oggi andiamo per Arte.

Andiamo a trovare Carlo Scarpa.

Il cortile di ingresso è splendido come al solito. Qui convivono antichi muri di pietra con stucco veneziano insieme a lastre di marmo bianco. Le lastre sono messe per terra e individuano percorsi o soste e anche discrete vasche d’acqua. E poi ci sono sculture e fiori. Bello. Ce ne stiamo un poco a bighellonare indecisi se entrare oppure metterci in macchina alla volta della città del Leone dove siamo attesi in serata. Prima del museo siamo andati in giro per la città a fare il solito giro turistico e i ragazzi cominciano ad essere stanchi. Ma la promessa di un gigantesco cono con tre palle li convince. Io assicuro che la visita vale il prezzo del biglietto e ci si avvia verso l’ingresso. Non senza la promessa del piccino che vuole essere trattato da grande e spergiura che seguirà tranquillamente il genitore passo per passo. E infatti nel mentre si staccano i biglietti dal controllore la coda dell’occhio intravede sfrecciare una piccola sagoma gialla. È Guido che, incurante delle urla della mamma, si avvia verso il fondo delle sale del piano terra. E mentre prosegue la folle corsa scansa, per miracolo, tutte quelle testine sorrette da eleganti strutture di acciaio che stanno su per miracolo. Quindi le prime sale le facciamo a passo veloce. Lui è laggiù in fondo tranquillo e intento a studiare una piccola statua di pietra bianca. Stavolta non ci frega. Lo agguanto per la mano e saliamo di sopra.

La visita è un supplizio con lui che tira.

Tira con la mano e con il corpo. Adesso vuole uscire per il gelato promesso. Ma io duro. Voglio almeno andare trovare il guerriero. L’ho visto almeno tre volte ed ogni volta è una scoperta che avrei piacere di condividere con  gli altri. La promessa è riscritta con il sudore. Stavolta le palle sono quattro e dopo anche la coca.

Il piccino si placa e si mette a far l’omino.

Giulia canzona il fratello e Silvia è incavolata nera con me che mi ostino a far girate d’arte invece di portare i ragazzi al parco. Comunque si prosegue. Uno stretto corridoio con feritoie verso il fiume ci conduce verso il fuori. Apro la porta e ci troviamo in un piccolo cortile coperto. Un percorso in diagonale ci conduce verso una piccola scala e poi una passerella di cemento armato ci avvicina al guerriero da sotto. Lui se ne sta solitario sopra ad un esile basamento di calcestruzzo e cavalca un destriero bianco.

Anche lui è bianco.

Sono tutti e due bardati da guerra. Lui è vestito con elmo e armatura; lancia e spada. Il cavallo e il guerriero sono sospesi nell’aere. Pronti a spiccare il volo verso la gloria.
Adesso faccio lo splendido e racconto dell’architetto che ha piazzato in quel punto il guerriero: “… Scarpa odiava la simmetria e pensava che la dislocazione delle forze, i nuclei di concentrazione delle forme, andassero sempre non secondo la legge di un centro , ma secondo dei punti di tensione.”
E i ragazzi in coro: ”… Babbo non ci si capisce niente. Che ci importa della simmetria e dei nuclei.  Invece dicci chi è?”

E io:  “Cangrande della Scala.”

E loro: “… Ovvia che ora ci tocca il gelato.”


A Verona ci siete mai stati? Non per Giulietta e neppure per Romeo: per Carlo!
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03/01/20

Direttamente



Direttamente | 2019

Ricordo bene l’ultimo giorno dell’ottobre settantotto.

Non per la vigilia di Ognissanti con la solita rumba di streghe, mostri, travestimenti e fantasmi; neanche per le zucche svuotate di semi e ripiene di candele accese e di sicuro non per la processione di ragazzini vestiti da spiritelli canterini che attaccano con “ … dolcetto o scherzetto” e finiscono porgendo un cestino da riempire. No! Niente di tutto questo. Piuttosto per un fatto inconsueto che non mi accadeva da una decina d’anni.

Improvvisamente mi si accesero alcune lampadine.

Come un novello Archimede che se n’esce dalle strisce di Topolino quando fa una scoperta fantasmagorica anch’io m’illuminai. Non a giorno per carità. Ma piuttosto a caso in quanto non immaginavo di averne ancora di operative: due stanze di sotto, l’ingresso a terra, il corridoio e il bagno al primo e quella del fienile dirimpetto all’aia. Illuminazione a macchia di leopardo si potrebbe definire. La luce era bella, calda, giallina e sporca di polvere secondo le regole. Intanto le domande mi s’affollavano in alto; vicino al soffitto della piccionaia: “perché?, chi?, a che pro?”. Intenta ad elaborare questi basici pensieri, a tutta prima, non mi accorsi del buio che era tornato a comandare sulla luce.

Era successo tutto all’improvviso e altrettanto fulmineamente se n’andò.

Scoprii poi dopo che tutto questo era una prova e che l’operazione sarebbe stata ripetuta varie volte quella sera. Attivai tutte le connessioni possibili; animali, vegetali e sintetiche con il resto del mondo e rimasi in attesa. A seguire quanto, per sommi capi, appresi.

Una brigata di ragazzacci, età intorno ai venti, mi aveva avuto in uso.

Il comodato, durata anni uno rinnovabile tacitamente, cominciava dall’indomani ma la chiave in possesso era stata un occasione troppo ghiotta per non tentare l’esplorazione della proprietà durante la notte della magia.  Con la firma del contratto ancora calda e trecentosessantacinquemila lire in meno si erano dati appuntamento al bar del paese per le nove della sera. Poi con tre macchine, tre vespe e un’ape mi erano venuti a occupare. Parcheggiarono i mezzi nel piazzale della tabaccaia e spensero i fari. Al buio più completo, fidando della splendida luna piena di quella sera, s’inerpicarono lungo il viottolo fino all’aia. Qui accesero tre torce e una decina di sigarette. Il più anziano, titolare del contratto, cavò di tasca la chiave e provò la serratura. Il meccanismo era inceppato per mancanza d’uso e manutenzione. Allora il fabbro si avvicinò con una bottiglietta d’evo, un fazzoletto e un temperino. Trafficò alcuni secondi nei dintorni della porta e poi, con fare sornione, sorrise mentre la chiave girava perfettamente su se stessa. Con un cigolio la porta si aprì.

Il gruppo entrò furtivo.

Le torce affettarono il buio decennale e si soffermarono su alcuni particolari come la maniglia della porta della stalla,  la pala per il pane accatastata nell’angolo buio vicino al forno, il primo scalino con il bastone sbrecciato, il soffitto voltato di mezzane in terracotta. E la chiave di volta con incisa la mia data di nascita: “millesettecentonovantatre”. Il cerchio di luce si soffermò sul numero ad ammirarne la vetusta evidenza.

Poi le luci si accesero.

La sorpresa fu evidente. Alcuni si lanciarono verso l’ingresso mentre altri aprirono a tentoni la porta della stanza del segato, due provarono la salita su per le scale e i rimanenti si nascosero sotto il piano del forno. A quel punto si aprì la porta del ripostiglio e se ne uscì l’elettricista con il sorriso di soddisfazione di colui che ha appena risolto il caso del giorno. Come un novello Hercule Poirot si lisciò il baffo, che non aveva, e si accinse al racconto della “ … e luce fu”.

Era successo che mentre il grosso degli occupanti, considerate le oggettive difficoltà, si perdeva in chiacchiere e discorsi sull’opportunità o meno di continuare l’esplorazione, il nostro eroe aveva agito. Equipaggiato di accendino anti vento Zippo aveva scoperto il posto dell’energia e aveva fatto il suo mestiere. Ora che ci ripenso  gli operai che mi staccarono l’energia non fecero un lavoro accurato piombando il contatore e quanto altro necessario ma si limitarono ad un veloce “ … stacca il filo e andiamo via che stasera c’è la finale della coppa Rimet”. E così il nostro eroe, senza all’apparenza commettere infrazioni, non fece altro che attaccare un filo che uno schiocco aveva staccato.

E io godei come un riccio femmina.

Non ricordo di esser stata così bene come quella sera. Nemmeno il giorno della festa della copertura. In quegl’anni; correva la fine del settecento: era ancora in uso organizzare una grande festa per la posa dell’ultima tegola del tetto. Il banchetto, che gli operai definivano rialto, fu quanto mai abbondante e sostanzioso mentre la festa da ballo che seguì si trasformò in una gara allo sputo. Vinse il Bernaschi di Greve che durante l’orario di lavoro era il sottomanovale del capomastro ma quando si trattava di lanciar saliva non lo batteva nessuno.

Questa la vinse con nove passi e novantanove. Misura certificata dal figlio del fattore; notorio pezzo di merda; che studiava da agrimensore a Rovigo ed era infallibile nella stima delle distanze. Misura, tra le altre, assai ragguardevole considerato che il gesto atletico era stato eseguito senza l’ausilio del nocciolo, variante introdotta da poco, che a volte aumentava la distanza anche del cinquanta per cento e anche di più.

Il giorno dopo i bagordi cambiarono le maestranze.

Rimase il capomastro col suo fedele sputatore. Gli altri furono sostituiti, per un normale e preventivato avvicendamento, dagli operai delle finiture: pavimentatori, intonacatori, falegnami, tinteggiatori e via di seguito. Le squadre lavorarono di buona lena per tutta l’estate e la domenica del Perdono di Terranuova mi bagnarono tutta. Con un bel fiasco, anzi vorrei correggermi  … una damigiana, di rosso della vicina collina m’innaffiarono le parti basse dei piedritti  della porta d’ingresso.

E se guardate bene, nonostante il tempo, ancora si vede qualche macchiolina.

Comunque sia il giorno dopo arrivò la prima famiglia: una quindicina di persone con due gatti, tre cani oltre a vari animali da cortile e bestiame vario. Diventar mezzadri della fattoria, a quel tempo, composta da alcune decine di poderi dislocati dal Pratomagno alle rive dell’Arno, era cosa ambitissima. Figurarsi poi abitare una dimora appena costruita senza muffe, sudiciumi e olezzi vari. Il fattore mi aveva fatto capire; tra le righe di una chiacchiera col  bifolco; che ero la costruzione di punta dell’azienda edificata secondo le ultime e più moderne regole agronomiche seguendo le regole dettate dal Morozzi nel suo trattato “Delle case de' contadini”. Mi avevano dotato di: grande fienile a due piani, aia dirimpetto all’ingresso, recinto per l’allevamento suini, grotta scavata sotto l’aia per la stagionatura dei prosciutti, orto esposto a sud – est e pollaio recintato. Le stalle occupavano tutto il piano terreno mentre un filare di Gelsi abbelliva il fronte e dava da mangiare ai bombi che mi abitavano la soffitta.

Ma torniamo a bomba.

Facciamo un salto nel tempo fino a quella notte di fine anni settanta anzi alla mattina dopo. È un giorno di festa e da tempo i ragazzi disertano le funzioni religiose standard figurarsi oggi. Alcuni, per l’eccitazione accumulata, non hanno neanche preso sonno e si son presentati un’ora prima del fissato. Eccoli quindi di buon ora armati di attrezzi, arnesi e materiali. Ognuno per le proprie capacità si mette al lavoro. I lavori si protraggono nelle sere successive per alcune settimane. Smontano e saldano, collegano e giuntano, dipingono e tappano e via fino al sette dicembre dopo cena quando il tenutario del contratto di locazione dichiara la fine dei lavori.

Per l’Immacolata m’accendono il camino per cucinare polenta e ribollita.

Tutti ingredienti a “chilometro zero” compreso condimenti e beveraggi. Rammento che fu il desinare più alcolico a cui mi sia mai capitato di assistere anche a paragone di battesimi, sposalizi, comunioni e battiture degli anni d’oro del podere. Per molti dei commensali quella festa sembrava il massimo cui poteva aspirare il gruppo che era pur sempre formato da gente di campagna anche se diversi travagliavano in fondovalle in varie manifatture e un paio studiavano ancora. Quindi al brindisi finale proposero la data, il trentuno del mese, della prossima cena con i soliti amici.

Ma non andò così.

Non ricordo chi fu ma uno dei soci aveva appena veduto una pellicola demenziale dove ad un certo punto un pazzo scatenato; tale Bluto Blutarsky; se n’esce con una battuta che poi diventerà un culto tra i ragazzi della casa. La riporto fedelmente perché l’ho ascoltata tante di quelle volte che la so tutta per filo e segno: (BB | JB | Animal House, 1978) “Cosa? È finita? Hai detto finita? Non finisce proprio niente se non l'abbiamo deciso noi. È forse finita quando i tedeschi hanno bombardato Pearl Harbour? Col cazzo che è finita! E qui non finisce, perché quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”.

Organizzarono quindi una fantasmagorica festa per la fine dell’anno settantotto

La prima di molte altre nei tre anni che mi abitarono. Questa fu ricordata come “la 300” perché richiamò più di duecentoottanta persone in un luogo in mezzo al niente: sperduto, buio, con strada sterrata e infangata e senza parcheggio. Magari il grande successo fu dovuto a due o tre fattori che vado ad elencare: aperta a tutti, dotata di buffet imperiale con cibi e bevande a go-go, musica con “resident dj”, luci effetto sala da ballo e ingresso (presentato come offerta libera) ad un terzo rispetto a quanto richiesto nelle discoteche in valle. E poi, “dulcis in fundo”, c’erano due stanze buie, dotate di tutti gli agi, adibite a “privè”.

La nascita, nove mesi dopo, di AB confermò la bontà dell’idea.

Solo un fatto macchiò la serenità di quel giorno per il resto campale. Fidando del mestiere di tipografo di uno del gruppo fu affidata a lui la comunicazione pubblicitaria dell’evento. In un mondo senza “social e telefonini” furono disegnati e stampati un paio di cento biglietti d’invito su carta In quell’occasione, considerate le pruderie dei conduttori e le chiacchiere delle comari del paese, fui anche battezzata con un appellativo che mi porto addosso ancora adesso: “la Casa del peccato” preceduto dal disegno di un diavoletto che porge un mazzo di fiori. L’invito circolò in tutto il Valdarno e forse anche più in la. Fu talmente efficace che il pomeriggio della festa un signore suonò alla porta d’ingresso. L’imbianchino che si affacciò dichiarò di conoscerlo come Benescutti Giano, grandissima testina di quiz e buon amico di suo fratello sposato. Alcuni ragazzi erano intenti agli ultimi ritocchi tecnologici per sistemare il banco dei giradischi e il controllo luci mentre altri stavano spazzando e tirando a lucido i locali. La musica andava a tutto volume sui “ … Floyd at Pompei”. Il tipo;  grassottello e tracagnotto con i capelli brizzolati e unti di brillantina aveva per sovra più un paio di baffetti da sparviero che me lo fecero apparire subito molto antipatico; dichiarò di non voler entrare in casa in quanto pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.

Anzi fece scendere il gruppo di ragazzi.

Qui cavò di tasca una tessera plastificata che raccontava la sua seconda professione; durante la settimana inchiodava suole; di controllore o ispettore o simile per conto di una fantomatica società di autori.  Subito attaccò una filippica sul fatto che stavamo organizzando una festa abusiva che avrebbe coinvolto mezzo Valdarno con il rischio di far chiudere i locali regolari ed altro sciorinando. I ragazzi erano basiti. Nessuno ebbe il coraggio di ribattere o fiatare. Tutti erano intenti a pensare come se la potevano cavare contro questo losco figuro che era arrivato appositamente per scassare le uova nel paniere. Intanto il nostro eroe difensore della musica calò il settebello con: ”…. E poi c’è il fatto delle canzoni …”. “Che centrano le canzoni” – ribatté il disc jockey stringendo minaccioso il microfono gelato che gli era spuntato in mano. E l’ispettore: “ C’entrano … c’entrano … e come se c’entrano. Prima di tutto qui conto più di dieci persone, ma ho notizia che ne sono attese almeno altre duecento. Poi dovete sapere quando si suona in pubblico c’è da pagare i diritti agli autori delle canzoni …”.  E via continuando per altri dieci minuti sull’etica e sul lavoro intellettuale e artistico.

Poi all’improvviso smise di blaterare e sorrise sotto i baffoni.

Come se fosse Kaa il serpente di Mowgli cambio voce. Passò in modalità “strisciante” e disse: “ Comunque ci si pole accordare  – altro risolino accompagnato da occhiolino destro che lampeggia sotto e sopra - … vi lascio questo stampato che voi riempite con i titoli delle canzoni che pensate di suonare.  Mi raccomando scrivetene almeno un centinaio e anche di più ché la notte del trentuno è lunga e dovete essere credibili. Poi il due tuo fratello - rivolto all’imbianchino -  me lo porta e lo metto agli atti. Intanto saldate i diritti. Dunque … dunque … - comincia a scrivere su un taccuino da investigatore che aveva in tasca -   tre per due più duecento a stima meno centoventi diviso tre uguale … ecco … ci siamo. Fanno centoventimila esatte. In contanti prego”.

Dodici erano i mie eroi. Con altrettanti deca, serbati per la festa, oblarono.

Nei tre anni che mi usarono non mi fecero mai violenza. Anzi per quanto possibile, viste le loro esigue finanze di ragazzi poco più che maggiorenni, mi sistemarono alcune magagne come tegole rotte, angoli sbrecciati, crepe varie, riprese d’intonaco, mattonelle smurate e su iniziativa del falegname perfino la porta del bagno. Nella primavera del settantanove m’imbellettarono, per la verità solo le stanze che usavano, con una mano di bianco burro bella densa. Quell’estate poi uno degli studenti che aveva alcune, devo dire ingiustificate, pruderie artistiche mi fece compagnia per un paio di giorni dalla mattina alla sera. Si era messo in testa di riprodurre il marchio di un gruppo rock nato a Londra nei  primi del sessanta. E lo voleva disegnare nella nicchia del lavello in pietra della mia cucina. E lo fece. Ci mise in realtà più di una settimana compreso il tempo adoprato per ripensamenti, cancellature e dipinture a coprire la prima versione. Poi si ricordò del sistema della griglia che aveva imparato in gioventù con i primi rudimenti di disegno tecnico.

Se n’andò per mezz’ora e quando ritornò era raggiante.

Aprì a pagina trenta il libro; educazione artistica delle medie; che si era portato e lesse a voce alta: “Il Reticolo. Ingrandire un disegno: Per eseguire una copia esatta di un disegno è facile basta ricalcarlo. Ma se occorre una copia in scala maggiore o minore, il metodo della griglia è il più semplice e garantisce un disegno accurato e di proporzioni esatte”. Quindi col lapis morbido disegnò la griglia sopra al disegno originale e subito a seguire, ingrandita di un tot, sulla parete. Dopo di ché fu facile e veloce. Alla fine del terzo pomeriggio il disegno al tratto era completato. Il quarto e quinto bastarono a dipingere la boccaccia di MJ su fondo giallo con cerchio bianco.

Pulire schizzi e macchie fu più dura.


In ritardo di uno (giorno) per raccontar la storia dalla parte della casa.
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01/01/20

Sassi



Sassi | 2003

L’appuntamento era per le seietrenta precise al parcheggio del Bianconi, il bar all’uscita est della città del vetro. C’era da andare in fabbrica di prima mattina. C’era da soffiare. Si facevano i vetri. Il nostro eroe era un tipo ansioso e razzolò nel letto tutta la notte. Un fastidioso male di pancia lo costrinse ad anticipare la sveglia, puntata per le cinque, di una buona mezzora. Alle quattroetrenta è ancora buio anche se siamo in giugno. Pian piano giù dal letto che la Silvia si sveglia; in bagno per i riti della mattina compreso la lettura delle solite venti pagine dell’ultimo Camilleri. La storia è intrigante come al solito; tratta di sbarchi e bambini trattati come pezzi di ricambio. Grande.

Adesso in cucina a preparare la macchinetta del caffè. Ancora il fastidioso dolore di pancia. Ancora in bagno. Il tempo necessario per arrivare alla fine del romanzo. Basta.

Sono le cinque. Il sole fa capolino dalle colline della città della giostra e dipinge l’aria di un bel giallo-rosso-arancione. Inizia un’altra giornata di fine primavera. Il caffè è pronto. Via che si parte.

Gli ottanta e passa chilometri servono al nostro per ripassare, per l’ennesima volta, il compitino che si era dato. Aveva già disegnato altri oggetti in passato; legno, cotto, ceramica. Tutto roba soda. Mai però qualcosa che lascia attraversare la luce. Mai vetri. “Cristalli… sono cristalli… non vetri…” si apostrofò nel mentre giungeva nelle vicinanze del casello e si dava; al solito; dell’incapace. Ma ecco l’uscita. Il bar è aperto e la colazione è assicurata. E’ pronto. I compagni di avventura stanno arrivando.

Per prima lei, la Stefania promotrice del lavoro. Sveglia, simpatica e solare come al solito. In tenuta da lavoro e con la macchina delle foto in stand-by.  Poi i due artisti. I due maestri. I due soffiatori. Ricordano vagamente due grande attori americani degli anni cinquanta quando si andava al cinema alla sala parrocchiale la domenica sera. Simpaticissimi. Si commentano i risultati delle ultime elezioni locali e si scoprono comuni interessi. Si parte per l’opificio.

Il dentro della fabbrica è come se lo immaginava. La piazza è contornata dai forni e le maestranze sono già all’opera. Caldo e afa; vapore e sudore. Si comincia.

“Vorrei un serpente… anzi una biscia… e dei sassi vuoti dentro…” inizia il nostro svoltando i disegni che si è portato.

“Ci penso io… tu stammi vicino … che ti accomodo…” lo interrompe maestro soffiatore; il più piccolo dei due  che chiameremo Francesco. Antonio, il più grosso, prende la canna e la inzuppa nel forno grande dove bolle la sabbia. “Questo te lo faccio pieno; con le squami e tutto… te lo passo in questa polvere gialla che poi diventa ambra… tu stammi vicino… ci penso io…” continua l’artista. La canna viene roteata come la mazza del giocoliere. La pasta si allunga e prende forma. Viene stesa e modellata. La testa si alza. La bocca si apre. La biscia è fatta. “Adesso passala nella tempera…” riprende il maestro rivolto al collega mentre comincia a pensare al facimento del sasso. “Ma te… che sasso vuoi…?” se ne esce, dopo la pensata, rivolgendosi al nostro eroe.

Il nostro è indeciso. Molto indeciso. Come al solito. Come sempre. “Vorrei un sasso cavo… che sta dentro la mano chiusa a pugno…” prova a dire il disegnatore.

“Ho capito… te lo faccio come quelli dell’Arno… ma finito come quelli della cava…” termina il soffiatore.

Canna.
Sabbia plastica.
Passo di mano.
Soffio.
Acqua e … (roba segreta).
Passaggio nel liquido.
Il magma scoppia in superficie.
Il sasso prende forma.
Ripetere. Ancora. Ancora. Ancora.

“Adesso penso che basti… che ne dici…?” fa l‘artista rivolto al pensatore che ne frattempo si era assentato mentalmente e rifletteva, tra sé, delle possibilità espressive di questo nuovo materiale che stava, or ora scoprendo. “Bello… è come lo immaginavo…” risponde il nostro.

“Ora ti fò una serpe acquaiola… vuota dentro…trasparente e squamata fuori… che dentro ci puoi mettere il rosso delle tue parti…” fa il maestro rivolto al nostro.

Detto. Fatto.
E’ l’ora della fresca. La tempera è fatta. Gli oggetti imballati. Il lavoro è finito. E’ora di tornare.

Il viaggio è piacevole. Il nostro eroe non vede l’ora di passare da casa a sentire il giudizio dei suoi critici preferiti: Giulia e Guido; anni venti in due.

Arriva. Scarica la macchina e chiama i figli. “Ragazzi… venite giù… che vi faccio vedere i vetri che ho fatto…” fa il nostro mentre apre la porta. I critici sono occupati nei passatempi preferiti durante le vacanze scolastiche: lei disegna e lui aggeggia con i mostri.

Eccoli. La biscia piena passa quasi inosservata ma gli altri vetri ricevono la seguente stroncatura.

Giulia: “In questo serpente vuoto … ci metto la cocacola…!”
Guido: “Ma babbo… che roba brutta che hai fatto…questi son solo sassi…!”
L’aspirante artista:  “Sassi… solo sassi… e allora…?”          

Questo vale per il post (e relativa novella) del 261219 (tras)curato(a) per manifesta negligenza di chi scrive e si scusa con i temerari lettori.
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