In viaggio (2) | 2017
… continua
La
cattolicissima Francia della fine dei settanta onorava la giornata con “digiuno e preghiera” oltre al rispetto
letterale di tutti gli altri comandamenti e consuetudini. Insomma, mentre le
campane della vicina Cappella suonavano a rintocchi invitando i fedeli alla
funzione, circumnavigammo l’insieme sparando i soliti click click verso tutti quei muri di beton brut senza poter scoprirne gli interni. Salimmo alcune scale
esterne e percorremmo un lungo
porticato. dopo di ché venne l’ora di provare la visita all’Unitè. La collina non era lontana e
decidemmo per una bella passeggiata tra gli alberi del parco che si inerpicava
verso il condominio.
C’erano ancora
poco meno di un paio d’ore di luce. Anzi per essere precisi tra un oretta
sarebbe cominciata quella che i professionisti dello scatto fotografico
riconoscono come l’ora doro. Quei
trenta barra quaranta minuti, dopo l’alba o prima del tramonto, dove tutto si
fa magico con luce morbida, colori caldi, ombre lunghe e contrasti come
piacciono a me anche se professionista non sono. Insomma sfruttammo quella
mezz’ora per girare intorno al palazzone di cemento e saggiarne le tozze
colonne del pilotis fino all’ingresso.
Qui ci fermammo in attesa del nostro capo gita che si era soffermato a ragionar
con un vecchino con basco e bastone. Eccoli in lontananza. Il nostro compagno,
dopo le sconfitte linguistiche dei giorni passati, pareva aver ripreso vigore e
discorreva animatamente con l’omino con i baffi scuri e la pelle olivastra. Poi
a cinquanta metri da noi si staccarono: lo sconosciuto ritornò sui propri passi e Giorgio si avvicinò a noi.
Era visibilmente
incazzato. Evidentemente le risposte avute non erano pari alle aspettative. Il
suo mandato era quello di cercare una famiglia disposta ad ospitarci per la
visita di un modulo d’abitazione e magari poter accedere al tetto. Ma niente di
questo era possibile. Il grande palazzo era abitato, per la gran parte, da famiglie
di emigrati dal nord Africa da poco arrivati in Francia. Erano quasi tutti di
religione musulmana e di certo nessuno si era recato alla Via Crucis. Naturalmente diffidenti non facevano gruppo con gli
occidentali e tanto più con quelli non francesi. Ergo ci potevamo scordare la
visita interna copertura compresa. E punto a capo.
Alla macchina ci
tornammo veramente imbestialiti. La vacanza dell’architettura rischiava di
trasformarsi in una gita della domenica. Ci mancava solo il pullman e
l’imbonitore che vendeva le pentole. E noi naturalmente eravamo i pensionati.
Poi mentre si accomodavano le borse e gli zaini per la prossima tappa arrivò la
prima gocciola. Poi la seconda e la terza. La quarta era gigante mentre la
sesta e la settima erano grandi come biglie da spiaggia. Dopo di ché il
diluvio. Grandine e tuoni e fulmini. Un fortunale in piena regola. Riuscimmo a
malapena a partire per ritornare verso Lione e poi oltre.
E poi
improvvisamente, senza annunci o proclami, si fece buio. Si preannunciava una
Pasqua di merda. Intanto il guidatore faceva il suo mestiere e sicuro ci
conduceva verso la meta. Aveva acceso la ventola dell’aria e noi le sigarette
gialle. L’abitacolo era diventato l’interno di una fornace. In questa scenetta
da commedia all’italiana anni cinquanta il nostro capo guida fece la sua
confessione sul pensionato francese che in realtà era un siciliano di Trapani
che non parlava neanche la lingua del luogo. In circostanze normali l’avremmo
quantomeno riempito di frontini e non solo ma con quelle condizioni
atmosferiche abbozzammo.
Dopo Lione un
grande cartello ci si parò davanti. Eravamo sulla circonvallazione est che
aggirava la città e la tempesta, se possibile, invece che diminuire aumentava.
L’indicazione stradale invitava alla svolta a
mano manca verso il vicino Couvent Sainte Marie de La Tourette distante appena una trentina i chilometri.
Che sarebbe stato un baleno percorrere con un mezzo in condizioni normali. Ma
non con la mitica Erre cinque verde mela del
nostro buon capo scout. Non lo sapevamo e lo scoprimmo cinque chilometri dopo
la svolta, al buio più totale e in aperta campagna. L’automobile aveva un
difettuccio congenito che si era manifestato sin dalla fabbricazione e non era
stato risolto nonostante garanzia del costruttore e incazzature del
proprietario. Eccolo qua: quando pioveva tanto e l’aria si faceva umida
andavano in tilt le puntine e s’impallava il solenoide. In un mondo senza
elettronica e in vicinanza all’elettrauto di fiducia l’inconveniente era
superabile con una seduta di mezz’ora e una quindicina di mila lire. Un
moccolo, un proponimento di non uscire più fuori dai gangheri e la coscienza
era in pace. E la macchina tornava in strada.
Ma qui si era in terra straniera. C’erano
anche altre duemilacinquecento difficoltà e inconvenienti. Facciamo che basta
ricordare che era la sera del venerdì
santo e non esistevano sistemi di teletrasporto funzionanti e attendibili.
Quindi appena il motore si spense di colpo l’autista accostò sulla banchina.
Saranno state le nove pi emme e la
pioggia cessò d’un tratto. Il vento forte aveva spazzato le nuvolaglie e il
cielo si era fatto terso. Le stelle fecero capolino e la luna si prese il suo
posto sotto la volta celeste. Eravamo vicino ad una radura appena rialzata
dalla strada. C’era anche una piazzola di terra battuta non troppo fangosa.
Cosa potevamo fare? Il paese di Éveux
distava almeno un decina di chilometri e le prime case di Lione stavano dietro
cinque o anche di più. Eravamo cotti: il viaggio della mattina, la scarpinata
del pomeriggio, l’accoglienza dei francesi e la burrasca della sera ci avevano
asfaltati. Nello stomaco avevamo solo la mezza baquette al prosciutto e formaggio divorata nel primo pomeriggio.
Le scorte di biscotti e gallette, che di solito albergano nelle auto degli
italiani all’estero, erano terminate. L’acqua nelle borracce anche.
Con la forza della disperazione ci
apprestammo per la notte. Aprendo il portello di dietro ci fece un saluto a
trentadue denti la tenda canadese che fu malamente montata alla luce della
lampada da campeggio a gas. Il montaggio ci tenne occupati una buona mezzora
tra chiodi che non entravano, martelli che si scapavano e paletti che si
incastravano. Un dramma. Poi alla fine fu teso il secondo telo e il rifugio per
la notte sembrò pronto. I sacchi a mummia volarono dentro e noi con loro. La
tenda era dotata di catino a protezione dell’umidità di risalita dal terreno.
Quell’accorgimento tecnologico ci parve bastevole e sicuro. Eravamo stanchi e
sudati e mezzo molli dell’acqua di prima. Senza levarci i panni di dosso ci
infilammo nel sacco e subito ci accolse
le monsieur Morfeo.
Se ripenso ora alla nottata ricordo solo un
rumore di fondo. Come se tanti sassolini cadessero sull’incerata della tenda.
Io e gli altri dormivamo some sassi; letterale; e non sentivamo neanche i
tuoni. Che a un certo punto, sul far dell’alba, si fecero potenti e si
moltiplicarono insieme a grandine e
fulmini. Era, o gli assomigliava da vicino, il diluvio; la piazzola diventò un
acquitrino, il livello dell’acqua si alzo sopra al catino della tenda, il
liquido tracimò dentro. Parve un poco come essere sul Titanic. Fatto sta che il
sacco si bagnò subito. E io con lui. E i compagni anche. Qualcuno anche
imprecando senza ritegno. Sotto le catinelle e l’acqua si smontò la tenda e si
riposero i sacchi. Il solenoide e le
puntine avevano ripreso a fare il proprio dovere. Il motore andò subito in moto
con un brummm brummm. E via “ … verso l’infinito e oltre".
In realtà verso il paese più vicino. Un pugno
di case lungo la strada con la chiesa preparata e pronta per la messa del
sabato notte quando campane, campanelle e batacchi, a un certo punto, suonano a
festa all’unisono. Proprio di rimpetto alla facciata dell’edificio c’era
l’emporio che fungeva anche da bar e ristorante e vendeva sali e tabacchi.
L’esercente stava aprendo in quel preciso momento. Il locale era freddo ma la
macchine del caffè espresso era stata, saggiamente, lasciata accesa dalla sera
prima. Ergo la prima ordinazione fu per cinque brodaglie scure e fumanti dal
sapore di candeggina e dall’odore anche. Ma tant’è. Erano comunque calde e ci
rimisero in sesto. Il secondo passaggio ci condusse ad usare, lungamente devo
dire, il cesso dell’esercizio pubblico. Dopo di ché una ricca colazione, che per decenza chiamerò alla francese ma che per consistenza e
svolgimento assomigliava più ai banchetti di Bluto Blutarsky alias Jake
Blues alias John Belushi.
Naturalmente ivi comprese nefandezze, sporcizie, rutti e inciviltà degli
avventori. Poi se dio vuole il pasto finì. Anche perché entrarono, chiamati
dall’oste, cinque energumeni; forse i figli perché si somigliavano; che ci
cacciarono fuori in malo modo dopo che ci cuccarono il corrispondente in franchi francesi di circa lire
cinquantamila. Una fortuna che di solito ci bastava abbondante per i tre pasti
del giorno.
Chiesi cinque minuti per una sosta di
preghiera, retaggio delle mie frequentazioni pasquali da chierichetto, nella
chiesetta del paese, e di nuovo in viaggio. Sgommando e ruggendo, dopo la
figura da idioti fatta al bar del villaggio, ci avviammo verso il convento dei
Domenicani. L’aria fredda dell’alba e la nebbiolina del primo mattino lasciò il
passo a quella più calda delle nove. Il sole scaldava le cose e le persone.
Anche l’animo si riscaldò: “… magari si riusciva finalmente a vedere,
per benino, un’architettura dal di dentro e dal di fuori, fare foto e disegni e
ragionar con gli occupanti … Magari”.
Con questi confusi pensieri giungemmo infine
nelle vicinanze del Couvent Santa Maria
de de la Tourette. Seguimmo le indicazioni per il parcheggio di lato
all’edificio. La fabbrica stava accoccolata in alto sopra un modesto rilievo
che definirlo collina non si poteva. Un grande prato da tutti i lati e poi un
boschetto di querce nelle varietà di: leccio, farnia e rovere. In realtà i
quattro edifici che componevano il monastero; di cui tre uniti a formare una “C” e l’altro leggermente staccato ma
unito con passerelle aeree; erano posizionati proprio sul bordo del colle così
che una parte del cortile interno si affacciava sulle prime pendenze del
terreno. A livello funzionale questo comportava che il chiostro era chiuso per
quattro lati ma accessibile da sotto dove una parte della costruzione era
sollevata da terra con i famigerati
pilotis. L’effetto dalla strada era sorprendentemente spettacolare e
semplice al tempo. Così come era monastico e coerente con il tema disegnare un’abbazia l’uso
indiscriminato del cemento armato in vista. Senza raccontare altro.
Anche perché, al solito e questo solito era
diventato una regola del viaggio, scoprimmo ben presto; dopo la prima
circumnavigazione del periplo edificato; che l’edificio era; alla faccia della
permeabilità dal di sotto; completamente non accessibile per la presenza di
muri, porte chiuse e recinzioni varie. Saranno state le dieci del mattino e
stranamente il parcheggio dei visitatori era occupato solo da una vecchia Renault targata RSM C725. Ops era
la nostra. Questo ci insospettì non poco. Come al solito si fece avanti il
nostro capo popolo, nonché conoscitore finissimo della lingua locale, che si
avvicinò a quello che pareva essere l’ingresso principale e mosse il batacchio
della campana li vicino. A tutta prima non ci su risposta e manco reazione.
Allora insistette con veemenza e stizza: “
… din don dan … din don dan …” . Ma anche questa tattica non funzionò. Il
terzo tentativo di attirare l’attenzione di qualche frate all’interno lo
tentammo tutti insieme. E vi assicuro che il rumore si fece assodante. Pareva
impossibile che dal dentro non giungesse risposta. Come se fossero tutti morti
oppure come se fossero tutti in chiesa. E magari in preghiera.
La conferma del sospetto; anche se non era
difficile immaginarlo come realtà; ci arrivò da una fiammante motoretta rossa
comandata da un frate rubizzo che si fermò sgommando proprio di li fronte. La
motoretta era, in questo gioco di sospetti e doppi, un Ape cinquanta cc marca Piaggio che scoprimmo essere in proprietà
della fraternità conventuale. Il nostro traduttore prese da parte il nuovo
arrivato, che intanto aveva recuperato dal cassone un sacco di iuta pieno di
baguette ancora calde, e con lui confabulò lungamente. Il succo di tutti quei
discorsi in lingua straniera fu: “Oggi,
come sapete, è sabato Santo. Per i cattolici, e voi che siete italiani di
sicuro lo siete, è una giornata speciale e molto importante. È il giorno che
precede la Pasqua che a sua volta ricorda la resurrezione di Gesù. E non a caso
la notte del sabato si celebra la messa di mezzanotte. Questo è un giorno di
silenzio, raccoglimento e meditazione. I domenicani: Ordine religioso
mendicante dei Frati predicatori; è particolarmente devoto e intransigente al
rispetto di questi tre consigli. Ergo che allora in questa giornata, da mane a
sera, il monastero è chiuso per visitatori e avventori e fotografi e
architetti. Serrato.”.
La sinossi del discorso tra l’italo
sammarinese e il frate vivandiere fu devastante per noi altri quattro. Se
possibile ci inalberammo ancora di più del giorno prima. Qualcuno cominciò a
dare in escandescenze e qualcun altro a imprecare apertamente. Poi la
circostanza del fatto che eravamo in prossimità di un luogo di culto e di
preghiera spense i nostri animi bellicosi. I fumatori, io con loro, si accesero
una paglia gialla e puzzolente e gli altri scattarono l’ultima fotografia alle
vetrate all’ingresso. Anche a questo giro le
Corbù, o meglio il suo spirito guida, non era stato benevolo con i suoi
seguaci. Col nostro magro bottino di alcune immagini dell’esterno e la coda tra
le gambe ci avviammo al parcheggio per la prossima tappa.
La sosta del pranzo servi a riempire il
serbatoio dell’auto e a svuotare la rabbia delle persone. Visto la
pantagruelica colazione del mattino nessuno aveva fame. Solo tanta sete. Un
paio si fecero un doppio Pernod e
altri due Kronenbourg alla spina. A
me bastò un bicchiere di vino bianco della valle
della Loira. Il tutto accompagnato da schifezze e troiai come patatine
fritte, noccioline da sguscio e semi di zucca. Tutta roba da veri buongustai.
Durante la sosta realizzammo comunque che “
… per oggi basta architettura e tutto quanto collegato”. Quindi
l’imperativo diventò: “ … attrezzarsi per
la notte e passare una buona serata.”.
La realtà superò la richiesta quando,
percorrendo a bassa velocità una strada interna che ci avrebbe portato alla
prossima visita, incappammo dentro una cittadina con le case dai tetti aguzzi e
i muri a graticcio. Dopo tutto quel cemento armato e vetro sentivamo proprio
l’esigenza di un pochino di calore. Roba da toccare. Muri di muro e magari
armati con tronchi di legno e tetti abitabili. Allora ci fermammo in sosta
nella piazza del paese dove si ergeva l’albergo principale. L’insegna sul
palazzo: in verità moderno e tutto
vetro; recitava: Albergo Italia e il
nome fu bastevole. Dopo tutto quel francese finalmente ci si poteva intendere.
Ci intendemmo. Ma non con la famiglia italiana come avevamo presupposto dal
cartello attaccato all’ingresso. Bensì con una di emigrati dal Marocco che
l’italiano dell’insegna non lo sapevano nemmeno leggere. Allora con i bagagli e
i resto scendemmo al primo hotel dopo l’angolo a destra. Eravamo nella città
vecchia e questo era come lo avevamo sognato nei giorni della tenda.
Accogliente e caldo, con i solai che scricchiolavano, i muti intonacati in
giallino mai, i mobili di legno massello e i letti di piume d’oca talmente
soffici che più non si può. Uno spettacolo insomma. La pensione era dotata di
cucina e sala da pranzo e la sera lungamente ne approfittammo.
La notte, in cinque in una camera con un
matrimoniale e tre singoli abbarcati dove stavano, fu splendida. Puzzo di
piedi, rutti e ronfamenti e sudore a palla. E però fu una roba da ricordare per
gli anni a venire. Il mattino partimmo senza fretta: Pasqua è un giorno solenne
anche in un piccolo abitato fra i boschi fuori Lione. La gente passeggiata
lungo il corso principale e si soffermava ai bar. La giornata soleggiata
invitava a socializzare e gli indigeni profittavano dell’offerta di dolci e
uova di cioccolato. E noi con loro. A tavolini del caffè de la Gare ci parve giusto festeggiare con una tradizionale
colazione francese: baguette, una serie di piattini colmi di burro marmellate e
miele, croissants, crema di cioccolata , brioches, frutta fresca, spremute
varie, caffè e latte e thè. E infine per
chiudere: “ … garcon l’addition s’il vous
plait.”.
In attesa del conto, che tanto per la cronaca
fu ancora più salato della mattina precedente, ci occupammo della
pianificazione del percorso per arrivare alle Saline, poco su al nord, di cui
non avevamo altre informazioni se non il nome dell’architetto, un trafiletto
fotocopiato dal libro di “Storia
dell’architettura uno” di G Spagnesi e l’assicurazione di un amico grande
viaggiatore che il posto valeva il viaggio. A un certo punto, mentre il
conduttore svoltava la mappa per individuare il pallino blu della meta, Mauro
si frugò nella tasca sinistra posteriore dei jeans e tirò fuori un piccolo
pezzo di carta piegato più volte su se stessa. Lo svoltò pian piano e
l’appoggio sulla cartina. Era una pagina di grande formato, ci disse poi, di un
libro sull’architettura dell’illuminismo che aveva recuperato in biblioteca. Sorvolò con eleganza sul
significato del termine “recuperato”
e ci fece godere della bella veduta “a
volo d’uccello” del luogo che ci aspettava.
Occorsero circa duecento chilometri per
arrivarci. Ce le prendemmo veramente comoda per via che quella domenica il sito
museale sarebbe stato chiuso di sicuro.
Facemmo sosta in una piazzola nel mezzo del niente e ci sparammo Coca e
Fanta da un distributore di bibite gassate e freddissime. E poi finalmente
arrivammo. Una mezzora prima del tramonto, quando il sole comincia ad arrossire
il cielo “ … che sia per vergogna?”,
ecco davanti a noi aprirsi la Saline
royale di Arc-et-Senans.
Appena scesi dalla macchina ci girammo
intorno a piedi. Senza oggetti per disegnare o fotografare. Un po’ come se
volessimo studiare un nemico prima della battaglia che si sarebbe svolta
all’alba del giorno dopo. Un periplo da lontano giusto per saggiarne le sue
forze e per osmosi le nostre possibilità di vittoria. E dopo ce ne andammo a
cercare l’alloggio per la notte.
Il sedici di aprile di quell’anno, precisi
per essere i primi all’apertura del cancello, ci presentammo belli e speranzosi
all’ingresso del monumento nazionale. La visita fu entusiasmante fra muri in
bugnato, colonne a rocchi, prati curatissimi e slanciati porticati. Il disegno
nel foglietto spiegazzato raccontava di un complesso circolare che fungeva da
centro per un nuovo paese e forse una città. La realtà riferiva invece di una
serie di edifici disposti a formare un semicerchio e organizzati lungo i due
assi principali. Finalmente il fuori era visitabile e il dentro anche. Ne
approfittammo per tutta la mattina e ci facemmo sosta per pranzo. All’uscita ci
aspettava una porticina aperta che prima non avevamo notato. Qui il custode
aveva organizzato una piccola vendita di libri, cartoline, ninnoli e stampe.
Una di queste; la riproduzione della veduta a volo d’uccello; me la feci
arrotolare dentro un tubo di cartone.
Quel vecchio leone di C N Ledoux, a poco più
di trentacinque anni, aveva dato veramente una bella zampata all’architettura
della fine del settecento. Notevolissimo.
E ora ci mancava solo l’omaggio alla Madonna
in cima al poggio. Il giorno conosciuto dalle mie parti come il lunedì dell’Angelo era quello
programmato per la visita. Nonostante tutti gli inconvenienti, diverse
avversità e molteplici accadimenti eravamo in viaggio verso la Chapelle de Notre-Dame du Haut a Ronchamp.
Durante l’inverno si erano prese diverse informazioni sull’edificio e una di
queste: l’articolo di un settimanale di costume, pettegolezzi e altre amenità
riportava il consiglio di “… visitare la
chiesa in primavera. Arrivarci verso le cinque del pomeriggio e ciondolare
dentro e fuori fino al tramonto.”.
Seguimmo il consiglio alla lettera.
Facemmo due giri: uno interno e l’altro lungo
perimetro esterno. Poi, come i cercatori di funghi, allargammo il cerchio
esterno di una cinquantina di metri e incappammo in una specie di mini piramide
in cemento armato grezzo alta una cinquina di metri in sommità. Non era male.
Dal gradino finale si godeva di un punto di vista insospettato e splendido ad
un tempo. E poi via con la rumba dello studente viaggiatore: chiacchiere e
disegni, foto e lunghi sorsi di scadente rosso francese, sigarette e
architettura. Tre ore da rammentare tra trent’anni. A tramonto inoltrato, quasi a buio, salutammo
la nostra dama e ci mettemmo in
viaggio verso casa.
Occorrevano circa ottocento chilometri e
spiccioli per tornare in riva all’Arno. Con i primi centottanta arrivammo ai
sobborghi di Berna. L’orologio da polso, lo ricordo bene come fosse ora,
appoggiato dentro al portacenere segnava le undici e cinquantanove notturne.
Era il momento di fermarci. C’era un piazzale con distributore di benzina, bar
tavola calda aperto ventiquattrore e una batteria di bagni lustri e lindi.
Usammo tutto. Lungamente. Poi un bel sonno abbarcati in macchina fino all’alba
del giorno dopo.
Per il resto del viaggio di ritorno bastano
quindici parole e anche meno.
La sera a bruzzico arrivammo infine. Sei giorni
e cinque notti. Come previsto dal capo macchia. Tremiladuecentoventicinque
chilometri. Questo segnava il tachimetro azzerato il giorno della partenza. Il
bilancio finale raccontava: diciotto rotolini bianco nero da trentasei e otto
dia a colori; tre quadernetti pieni di disegni e appunti; sette locandine di
varia natura; un sacco a pelo dimenticato sulla piramide a Ronchamp;
la mappa stradale con le macchie di caffè bruciata alla piazzola di
Roncobilaccio.
Per chiudere ho fatto un bilancio personale
aggiornato a stamani. Di quel viaggio mi son rimaste: tre foto bianco nero di
grande formato che da anni appendo negli studi che ho abitato; una stampa
anastatica a volo d’uccello delle Saline reali come dovevano essere nelle
intenzioni del progettista; una piccola immagine b/n di una maniglia di ottone
lucido che riporta in bassorilievo la
mano aperta qui usata come specchio ove si riflette l’immagine del
fotografo; il sacco a pelo a mummia. E basta.
Chissà se riesco a trovare il carrello delle
dia?
PRECISAZIONE
La precisazione è dovuta. Mi son
veduto con Mauro stamani a Rapolano. Isso era li per passare le acque termali e
ci siamo visti al bar per un caffè e un succo alla pesca e tre ore di ricordi e
seghe mentali come non ne facevo da un pezzo. Grazie Tarsetti.
Il succo della precisazione
eccolo: al viaggio non c’erano Simone Meniconi e Luciano Fioranelli che invece
avevo introdotto a forza; viceversa c’era Paolo (al momento non ricordo il
cognome ma solo che veniva da Montevarchi ed era il figlio di un vigile del
fuoco della locale stazione) e Giorgio Bertozzi ( di cui nel racconto non c’è
cognome per via della demenza senile cha avanza).
Ci sono, a ricordo del suddetto
Mauro da Ancona, una barca di altre cazzate e sprecisioni ma tant’è.
Buoni giorni a chi legge.
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