Il ditino infuocato | 2006
Ricordo
il nonno che mi raccontava di quando, poco più che ragazzo, se ne stava nel
“Carso” a scavar trincee. Per ore me ne stavo sulle sue ginocchia con la bocca
aperta a sentire storie di guerra. Storie di pallottole che fischiavano e di
baionette che brillavano alla prima luce dell’alba. Mi pareva di sentire le
urla dei compagni colpiti.
Ero
lì con loro.
E
poi, com’è e come non è, si finiva sempre a parlar del rancio e del mangiare in
genere. Il nonno ha patito la fame e gli stenti come gran parte della sua
generazione: la “classe di ferro dei ragazzi del novantanove”. A diciotto anni
ha fatto la guerra e poi a quaranta è finito a costruir bombe per i tedeschi.
Ha mangiato pastoni che manco i nostri animali da cortile si sognerebbero di
sorbire adesso.
Patate
e cavoli e, quando c’era, pane.
E
magari solo quello. Il nonno era un bravo raccontatore di storie e io, per
parte mia, ero e sono un discreto ascoltatore. Nasco in campagna e appartengo
alla generazione di quelli che; per un pelo; hanno perso il Sessantotto. Si son
sorbiti i primi omogeneizzati, il latte dai triangoli di cartone e i biscotti
dell’omino con la mazza. Ma anche la merenda con il pane e il vino e lo
zucchero.
E
a proposito di pane sentite questa.
Ricordo
bene la prima volta che l’ho sentita. Si era a cena ed era estate. Una calda
estate dei primi anni sessanta e io dovevo avere quattro o cinque anni.
Mangiavo; come si dice dalla mie parti; come un tribunale. Finivo in fretta il
mio piatto e poi in “collo” al nonno a finire il suo.
E
li sopra mi raccontava la storia del ditino infuocato.
“C’era una volta un bambino che si
chiamava Massimino. Era sciatto e svogliato e non finiva mai il mangiare nel
suo piatto. Scansava i semi dei pomodori e faceva i buchi nelle fette di
salame; lasciava la pelle del pollo lesso e i nervetti della braciola. E poi
l’intorno del piatto pareva un campo di battaglia. Molliche di pane e schizzi
d’olio da tutte le parti. E allora Gesù bambino si metteva a piangere per tutto
quel ben di Dio sprecato. E poi quando quel bambino è morto e si è presentato a
San Pietro gli Angioli gli hanno acceso il ditino indice della mancina e
l’hanno spedito sulla terra a cercare tutte le molliche e i nervetti e i grasselli e le pellicine che
lasciava nei piatti che non finiva mai”. E io che facevo di no
con la testa.
E
ancora pulisco i miei piatti come fossero gli ultimi. A costo di passar per
cafone e campagnolo finisco tutto quello che ho nel piatto e raccolgo le
molliche intorno. Che mi frega del galateo che impone di lasciar l’ultimo
boccone della buona creanza.
Spazzolo
tutto come se il nonno fosse ancora a capotavola a raccontar la storia.
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