Arrivo subito | 2006
Drin … drin … drin … drin …
Il suonino “hold telephone” del connettore
satellitare tedesco interrompe il discorso appena avviato con Bruno. Si
ragiona, tanto per cambiare, di architettura. Chiodo fisso dei nostri discorsi
quando si attraversa la Piazza
dopo il Consiglio. La piazza è quella Grande disegnata dallo stesso (grande)
artista che ha delineato le Logge e il Palazzo e che perciò è stata battezzata
col suo nome. Si tratta di un invaso in pendenza bordato da corselli di pietra
macigno che porta al centro una figura irregolare di quattro lati. Tutta
ammattonata con bordi e ricorsi in travertino di Rapolano. C’è il pozzo (falso)
medioevale e la colonna (vera) dell’infame. Ci sono palazzi (falso)
trecenteschi e (veri) rinascimentali. C’è insomma tutto l’ambaradan che
individua un luogo della storia di queste parti.
Bellissima.
E poi ci siamo noi che la si percorre,
uscendo dal civico trentacinque, sempre in diagonale per recarci alle nostre
carrozze motorizzate. Sono le ventiezeroquattro di una sera di fine maggio e
l’estate è vicina. Il cielo è terso e l’aria è stata appena rinfrescata dalla
burrasca di poco fa. Si sta bene a chiacchiera. Ma il drin … drin … si fa
insistente e allora mi tocca fermarmi. L’aggeggio elettronico si trova nello
zainetto a spalla e allora mi tocca armeggiare con la cerniera che
(perdindirindina) si incastra sempre. Finalmente al nono e ultimo drin … riesco
a pigiare il simbolo verde.
Sono in linea col resto del mondo. Sono in
linea con “casa”.
E’ la Silvia che mi richiama all’ordine e mi interroga
sul mio ritorno alla magione: “Dove sei?
… Quando torni? ...” E io: “Arrivo
subito … Accompagno Bruno a casa e arrivo. Ci metto mezz’ora o poco più. Fai
mangiare i ragazzi e magari anche te. Basta che mi metti l’acqua sul fuoco che
poi mi arrangio. Ciao”.
E pigio il rosso.
E si ripiglia il discorso su quando le”cattedrali erano bianche” e la gente
viveva la città come una roba di tutti. Un sentimento comune che si è perso in
questi ultimi anni dove l’interesse privato la fa da padrone. Si ragiona delle
ultime elezioni in città e della nuova giunta e delle speranze e dei figlioli.
Della vita insomma. E intanto, piano piano e senza fretta, siamo al Prato e poi
al Duomo e poi alle Rampe meccaniche.
La macchina è laggiù in fondo.
E’ l’ora di partire per casa che sono già le
8e15 e il sole comincia a pensare di andare a dormire. Le montagne del
Casentino sono rosse e noi sudati. Siamo pari. Accompagno Bruno per via di un
suo passo falso in piazza Guido Monaco circa un mese or sono. Il passo ha
causato una caduta sul marciapiede e il braccio rotto è la conseguenza. Le auto
non si guidano con il gesso e io sono di strada.
Lo porto a casa.
Ci si avvia per la Setteponti in direzione
di Quarata. E poi verso il ponte di Buriano e verso l’Arno. Vi si giunge che
saranno le otto e trenta poco più o poco
meno. Una scritta a mano sopra un cartello di ferro scrostato ci ricorda che il
ponte è romano ed è pure servito da sfondo per un famoso dipinto che ragiona di
una signora gioviale e molto gioconda. Ultimamente la scena del quadro è finita
sulla copertina di un best seller planetario che è pure diventato un film di
successo. Ma non divaghiamo. Attraversiamo il fiume e torniamo a noi che si
procede verso la Pieve
che sta in comune di Capolona. E’ per me un posto sconosciuto come spesso lo
sono i luoghi troppo vicini a noi. Nel delirio del villaggio globale si fanno
viaggi in posti esotici e sempre più lontani e non ci si immagina che qui
vicino esistano posti come questo. Il nonno che girava alla pedona e poi col
carretto e infine, da vecchio, su due ruote di sicuro c’era stato. Io che
viaggio sopra carretti spinti da cento e più cavalli non conosco il paese
dietro l’angolo.
E voi con me.
Son riflessioni solitarie che faccio spesso e
che mi portano a rifiutare l’ultima offerta speciale del villaggio vacanze a
Santo Domingo o la crociera alle isole Figi. Con sommo dispiacere dei familiari
e degli amici ho deciso, tempo fa, di impiegare i miei ultimi quarantasette
anni alla scoperta di posti qui vicino. Diciamo la Toscana al massimo
l’Italia e, se proprio si vuole esagerare, forse il vecchio continente. Il
resto del mondo lo giro con la fantasia e le letture e la tecnologia
satellitare. Ma ora basta che sono passate le otto e quaranta e comincia a
bruzzicare. L’auto procede veloce guidata dalle indicazioni del passeggero. “Ora gira a destra … poi laggiù in fondo …
al cartello blu … vai a sinistra … continua per questa strada fino alla curva …
e poi ancora dritto … a quella casa ci
sono le indicazioni …”. E io vado tranquillo mentre si ragiona. Intanto
Bruno mi racconta che il suo paese è una roba speciale abitata da gente
tranquilla. “Pensa – mi dice – che l’anno passato il Comune, in occasione
del nuovo Piano, aveva individuato un campo dove si potevano costruire tre o
quattro nuove case. Una piccola lottizzazione a mezza costa che magari
rovinava, ma pochino pochino, il paesaggio. E il paese è insorto chiedendo che
si potesse posticipare la decisione urbanistica. E le case sono rimaste nella
penna dell’architetto mentre i paesani sono rimasti contenti”.
Siamo arrivati all’ultima curva.
L’abitato è li sopra in cima alla collina e
la casa anche. Ci siamo. Bruno mi invita in casa ma io ringrazio e giro la
macchina. “Cribbio – dico – sono già le nove meno 14 e sono veramente in
ritardo … devo scappare di corsa … vado subito via … sarà per un'altra volta”.
Saluto con un cenno della testa e me ne esco con la battuta: “Piuttosto spiegami come faccio a tornare
al Ponte”. “E’ facile – dice lui
– scendi la collina e poi in fondo a
destra … vai dritto fino alla casa gialla … e poi a sinistra … dritto per
tremila metri o poco più e sei al bivio … poi la strada la conosci”.
E io, pieno di dubbi sulle facili (troppo
facili) indicazioni, riparto veloce.
Vado a memoria: cerco il bivio e poi la casa
gialla e la strada dritta. E, come spesso mi succede, mi perdo. Magari ho
padellato un indicazione oppure ho saltato un bivio. Ma ho il sospetto che la
casa blu laggiù in fondo alla via mica l’ho vista prima. Per fortuna che a
quella arancione ci sono fuori due omini. Accosto e chiedo. E intanto il buio è
arrivato e mi tocca accendere i fari mezzani.
Le indicazioni degli abitatori della casa arancione
sono chiare.
“E
un pochino fuori strada ma comunque vada in fondo a questa via … dopo la curva
c’è un bivio e lei prenda verso sinistra … poi si trova un cartello e dopo
ancora una casa marrone … a sinistra e poi a sinistra in fondo al dirittone a destra e ci arriva”. Grazie e via che sono le nove secche e il
ritardo diventa grande. Via per strade strette e sconosciute.
Asfalto davanti e dietro. Boschi a sinistra e
destra.
E poi la casa marrone non la trovo mica. Anzi
a certo punto trovo un ponticino che attraversa un fiumicino. Sul cartello c’è
scritto Arno. Arno???? L’Arno che devo attraversare al Ponte è una roba grande
e placida con l’acqua quasi ferma dell’invaso della Pennuccia. E questo invece
è un torrente tumultuoso con le sponde irte e macchie incolte. Ma che cavolo.
Allora ho sbagliato di nuovo. Vado avanti comunque verso la notte. E non posso
manco chiamare il Benci che neanche il telefonino da segnale di funzionare.
Mi sono perso. Veramente.
E giro e giro nella campagna per minuti
quindici e passa e sono le 21 e venti. E
intanto ho il sospetto che qualcuno mi abbia fato uno scherzo gigantesco.
Magari fra un poco incontro un cartello con la scritta “Frittole” e sono a
posto. Ma che devo fare? Vado avanti sulla stradella che adesso diventa di terra
battuta e sempre più stretta.
Poi in fondo in fondo (come Pollicino) vedo
una lucina e ci vado incontro.
La lucina è in realtà l’insegna di una
manifattura. C’è scritto che qui si fanno porte e finestre di legno massello
come quelle di una volta. La lucina non è un lume a olio ma una roba della
tecnologia dei tempi nostri. Tutta blu e di neon a stampatello carattere
futura. E finalmente riconosco la strada. Sono al Ponte. Non quello di Buriano
ma magari quello della Chiassa. Son fuori strada solo una ventina di
chilometri. I numerini verdi dell’orologio elettronico della macchina segnalano
che sono le ventuno e trenta precise. Le tacche del telefonino segnano il
massimo. Il sudore freddo, piano piano, se ne và via. Sono tornato da
“Frittole”. E nel mentre penso che sia l’ora che chiami “casa” per avvisare del
ritardo l’aggeggio nero che tengo in mano prende a squillare.
Drin… drin… drin … drin…
Col pollice destro tocco il disegno verde e
connetto “casa”. E’ la Silvia
che mi attacca con un fiume di parole alcune delle quali non posso, per decenza,
ripetere. “Ma dove sei infilato … è più
di un’ora che provo a chiamarti … se questo ti sembra il modo …”. E io che
balbetto puerili scuse tipo : “… Se ti
racconto quello che mi è successo non ci credi mica …”. E lei,
interrompendomi con forza: “… Che mi
frega dei tuoi racconti e delle tue novelle … sono le 9e mezzo … è notte …i
ragazzi e io siamo preoccupati … magari ti sei messo a parlare di architettura.
Sei sempre il solito s…..o … mai una volta che provi ad avvisare … mai una
volta che ti preoccupi di noi che siamo in pensiero”. E io allora; rotto di
tutto quanto; nel mentre che mi accingo a pigiare il bottoncino rosso faccio:
“Arrivo
subito”.
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