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Terrae, 2017 |
Territorio | 2017 -18
Una figura
classica, vagamente somigliante ad una dea greca, mi guarda di fronte. Essa è
in piedi quasi sull’attenti. Nell’avverbio c’è il resto. Uno dei due piedi, il
sinistro per la precisione, è alzato fino al ginocchio della gamba gemella. E
poi, il piede voglio dire, si allunga verso destra così che le due gambe
formano una specie di “quattro”. La vestale è ammantata con un panno che le
copre corpo e membra fino a ginocchia e gomiti lasciando libero e scoperto il
capo dove i capelli sono acconciati a cipolla. Non una cipolla normale, tipo
quella delle nonne degli anni cinquanta, ma piuttosto modello “Marge Simpson”.
Delle prescritte due braccia una, sempre la destra, è statica e penzola
tristemente lungo il fianco.
L’altra invece è
veramente uno spettacolo.
Si slancia verso
l’aere sinistro con la mano rivolta verso l’alto a sorreggere un piatto-vassoio
di metallo pregiato, facciamo oro, su cui è posata una manciata di semplice e
banale terra di campo grassa e verminosa e quanto altro vi viene in mente. Il
piede sinistro dell’unica gamba che poggia a terra sta in precario equilibrio
sopra ad una palla di pietra intarsiata che vuol rappresentare il mondo per
come lo disegniamo da quando i grandi esploratori lo hanno navigato.
Questa almeno è
l’immagine che avrei voluto rappresentare.
Non sono un
grande disegnatore ma ci metto un certo impegno. Ci provo da oltre trent’anni e
anche di più anche se devo dire senza grandi miglioramenti. Della serie molto spesso non basta la
diligenza ma piuttosto è il mazzo quello che conta. Nello specifico il
disegnino è vergato, con mano incerta e tremolante, per mezzo di una penna
“Bic” inchiostro nero su un quaderno a quadretti formato A5. Ero in treno tra
Firenze e San Giovanni ed era un caldo assassino. Saranno state le sette di
sera di un giorno di luglio dell’anno ottantasei del secolo scorso. Sono
passati più di trent’anni e rammento bene tutto. Anche che il quaderno è andato
perso durante uno degli innumerevoli traslochi dello studio.
Non era bello.
Anzi lo possiamo definire decisamente inadeguato alla bisogna.
E comunque,
tornando a bomba o meglio alla vestale, sotto alla palla di granito c’è una
scritta che recitava: TERRAE. Il significato è evidente e banale. Il tema del
disegno è declinato al femminile anche se il disegnatore ambisce, con quel
logotipo abbozzato, a ragionare di territorio e ambiente e architettura. Il
testo voleva essere il nome dello studio associato che poi scelse altro
nomignolo.
Ho la fissa con
la terra e tutto il collegato con sinonimi e contrari compresi.
Alcuni anni dopo
ci riprovo e con una brigata di amici e colleghi fondiamo un circolo culturale
che dichiara espressamente nello statuto di volersi occupare di architettura e territorio e riassume tutto
quanto nell’acronimo AR.TE. Il circolo si autofinanzia con le quote sociali e
rimane attivo per tre anni durante i quali organizza una mostra di tesi di
laurea sul Valdarno e partecipa ad alcune pubblicazioni su temi simili. Le
riunioni si tenevano una volta ogni due mesi circa durante la pausa pranzo. Ci
si confortava con panini giganti del negozio limitrofo e birre da tre quarti
del bar dirimpetto. Rammento alcune cene sociali particolarmente alcoliche e
poco più altro.
Questo è quanto
e siamo agli inizi del millennio.
Il territorio
rimane nei pensieri, nelle parole e nelle opere del vostro. Ci riprovo appena
dopo proponendo all’ordine professionale la fondazione di un osservatorio
locale sull’urbanistica e sul territorio. Gli acronimi sono un po’ una mia
fissa e questo diventa OVA. Opera in prevalenza lungo la valle dell’Arno a
cavallo tra due provincie e con il lavoro volontario di una decina di colleghi
armati di volontà e buona creanza. Le riunioni, con la solita cadenza
bimestrale, agiscono sul territorio. E mentre ne parlano vogliono conoscerlo a
fondo. Per questo si scelgono tre locazioni pubbliche che ci accolgono ognuna
in anni diversi. Per tre anni si promuovono incontri e seminari. Alla fine di
tutti quei discorsi e paragoni si definisce una scaletta e si pubblica un volume
con tanto di convegno pubblico. La raccolta di scritti, documenti e immagini
prova a raccontare il pezzo di territorio in questione come se fosse un’unica
entità e non un’accozzaglia di dieci amministrazioni sgarrupate che
interloquiscono come se fossero sessanta.
Questioni è per
l’appunto il titolo dell’opera.
Il libro ha un
certo successo editoriale tra gli addetti ai lavori ma non ha un seguito
immediato. I compagni di lavoro rallentano il loro impegno e comunque si
occupano di altro. Lo zoccolo duro resiste e si riconosce sotto un nuovo
acronimo CTV. La commissione, sempre espressione politica dell’ordine
professionale, si occupa di molteplici temi che riguardano il territorio. Temi
che poi saranno continuati per diversi anni a seguire. Argomenti come: esame
degli strumenti urbanistici e considerazioni migliorative, tentativi ricerca e
organizzazione di mostre su architettura e territorio, rapporti con i politici
candidati a guidare le varie realtà
locali. E altro.
Tra cui lo
studio grafico per tutte le commissioni territoriali della provincia.
I marchi sono
disegnati da una carissima amica dotata di buone regole progettuali e di ottimo
gusto per l’immagine grafica. Usammo i suoi servigi poco tempo dopo per un
volume che raccontava un laboratorio progettuale su una piccola città giardino
lungo l’Arno alle porte del Casentino. Quella fu anche l’occasione per lavorare
con architetti conosciuti provenienti da altre realtà e colleghi locali intrisi
di buoni propositi. Il lavoro
preparatorio fu svolto da un gruppo di sociologi alla parola d’ordine del
momento: “progettazione partecipata”. Prima durante e dopo il laboratorio
furono esposte, e lungamente discusse, immagini e ricerche urbane sul luogo. Al
convegno finale ci fece onore di presenza l’assessore al territorio regionale e
alcuni personaggi di spicco dell’urbanistica nazionale. Gli anni seguenti poi,
per una serie di eventi particolarmente sfavorevoli, gli studi rimasero lettera
morta.
Ho la fissa per
la terra. Forse per via del nonno bracciante di fattoria.
Verso la fine
dei dieci anni dall’inizio del millennio divento socio attivo dell’ennesimo
circolo culturale di cui non si sentiva certo la mancanza visto i risultati.
L’associazione si riconosce sotto l’egida di “Stazione Ceramica” e il marchio di
un rinoceronte del colore dell’arcobaleno. La combriccola si compone di una
trentina di artisti oltre ad operatori culturali indipendenti e non, creativi,
grafici e fotografici e via con simili occupazioni. Viene anche stilato, con
l’aiuto dell’amico del conoscente avvocato,
l’atto costitutivo che resta in
un cassetto in attesa di firme e fondi di adesione al progetto.
La sede trova
posto in certi locali che mi era capitato di sistemare anni prima.
Qui c’era un
tempo la cosi detta Fabbrica della ceramica con produzione di piatti e
vasellame in terraglia. Dai primi anni ottanta, causa ennesima crisi del
settore, l’attività cessa e dopo poco i fabbricati sono riattati ad altro uso.
Per lo più commerciale e residenziale. Uno di questi; quello storico con archi
e volte in mattoni e muraglione di pietrame accapezzato; diventa la casa del
rinoceronte.
È senza dubbio
la sede più bella dove ho avuto ventura di soggiornare.
Qui l’animale,
leggi il circolo, organizza diverse iniziative come mostre d’arte, cineforum,
reading di poesia, concerti, feste da ballo, manifestazioni e allestimenti in genere. Ne ricordo uno del 2012:
“Mangiarte 3, arte da mangiare” dove ogni espositore proponeva il suo personale
concetto di cibo, consumo, arte, critica sociale e quanto altro viene in mente.
Accompagnatemi
dentro l’ installazione leggendo un estratto del progetto.
OPS. Quello scelto. Mette a frutto le due
robe (ipotesi) predette e posiziona il pasto a terra. Un rettangolo di
centimetri 105 per 275; par pari le misure del tavolo di casa che a sua volta
deriva le proporzioni dal rettangolo aureo classico; serve ad accogliere del
terreno di coltivo proveniente dall’orto. Sul cumulo di terriccio son sparsi
tre virgola tre chilogrammi di granoturco e una moltitudine di piccoli
contenitori in “pet” riciclato. I bicchierini son monoporzioni da mangiare con
le mani; all’inglese “finger food”. Dentro ci potranno essere: uovo sodo,
verdure a pinzimonio, olio pepe e sale, tocchetti di pane cotto a legna, zuppa di pane e cavolo nero
ribollita, pappa col pomodoro, patata lessa e altre robe di sostanza tipo fagioli lessati, fresche
fave etc. Sottotitolo: “Tutti giù per terra”.
Pochi mesi dopo
il bolide con il corno parcheggiò e ciao.
Intanto, in
difetto a tutte le previsioni, uno degli acronimi di poco sopra improvvisamente
si rianima. Una serie di personaggi si riconosco nella sigla e lavorano a un
paio d’iniziative importanti organizzando convegni e discussioni e riuscendo a
produrre alcuni volumi a stampa. Il primo si occupa dei territori di bordo o di
confine e l’altro del rapporto che si instaura tra materiali tradizionali e
l’architettura contemporanea. La commissione territoriale produce cultura e
collegati similari ormai da oltre dieci anni. Ergo possiamo affermare di essere in attività da più tempo dei
Beatles.
E tutto questo che ci combina con
il territorio? Niente!
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