Lettori fissi

27/02/20



Ampelmann, 1 | 2014

060714
Verso la metà del mese scorso mi arriva il seguente messaggio di piccione elettronico, spedito per la precisione lunedì 16/06/2014 ore12:27, che riporto par pari qui a seguire. “Gentili in indirizzo, vi inoltro l'operativo dei voli per la visita a Berlino: partenza domenica  6 luglio da Pisa per berl.schoenefeld ore 09.30 arrivo 11.20; ritorno sabato 12 luglio da berl.schoenefeld ore 06.00 arrivo a Pisa ore 7.55. Bagaglio da spedire KG 20 + bagaglio a mano. Vi giro anche elenco dei partecipanti con relativi contatti. Seguirà nei prossimi giorni il programma di dettaglio delle visite. Buona giornata. Monica” . Lo stesso dispaccio, lo leggo dall’indirizzario, arriva a dodici persone me compreso.
Di questi individui ne conosco meno della metà della metà. In pratica son sicuro per due e incerto, al trenta per cento, per un terzo. Gli altri mi son sconosciuti e, presuppongo io a loro. Per un momento son tentato di attaccare la ricerca in rete dei compagni di viaggio ma poi vince la curiosità di chi ama alla morte la sorpresa dell’uovo. Quello di Pasqua e in generale tutte le sorprese. Ancora oggi, che ho da poco passato gli anta, mi trovo a litigare con Guido o Giulia per il pezzetto di plastica dentro l’ovino Kinder.
Ricordo ancora con precisione il tono di voce della solerte infermiera dell’istituto privato che gestiva l’esame clinico Amniocentesi quando al telefono cercavo notizie su malattie genetiche o ereditarie del secondo nostro figlio.
“Ha un bel pisello”, disse.
Ed io: “Scusi Dottoressa, ma non avevo mica chiesto il sesso”.
E lei: ”Scuse accettate. E poi non sono mica Dottoressa. Sono la sua assistente. E comunque tutti, e sottolineo tutti, i babbi chiamano per sapere quella cosa lì. Anzi le voglio dare un’altra bella notizia …”. Mentre i primi sintomi della febbre del gemello mi assalgono, continua cinguettando “… qui vedo che avete già pagato. Non si disturbi a venire a ritirare il certificato che lo spediamo per posta. Saluti e figli maschi” intanto che attacca con un click.
È inutile raccontare: rabbia, collera, odio e invettive che si beccò la maledetta che per l’appunto ci prese in pieno. Da diciannove anni ci sediamo a tavola in quattro e, per copiare una frase surreale che appare sempre più spesso sulla stampa o nei discorsi della gente: siamo di pari genere.
Il giorno stabilito siamo partiti di buon ora. Il ritrovo era alle sette e quarantacinque davanti al cheek in della compagnia Easy Jet per il volo delle nove e trenta. La compagine è composta di tredici persone quanto mai eterogenee per formazione e interessi come scoprirò durante la trasferta. Ci son donne e uomini, giovani e vecchie, belle e brutti e via a seguire. Va da sé che, non me ne vogliano gli interessati, ognuno dei partecipanti s’incasella per suo conto nel posto che gli pare. La caposquadra fa le presentazioni tra i tre sottogruppi della comitiva: 5 provengono da Grosseto, 3 da Siena e 4 da Arezzo. Non sono mai stato un drago in matematica ma fino a una somma a mente di difficoltà elementare ci arrivo.
E per questo sbotto: “Fermi un momento … 5+3+4 è uguale a 12 … manca il tredicesimo villeggiante”. E mentre lo spirito del commissario Montalbano si impossessa di me continuo: “Cari compagni di viaggio. Se vi ricordate alcuni giorni or sono un non meglio identificato signore di Prato comunicava di essere da solo e quindi disponibile a fare il viaggio insieme tanto lui poteva essere all’uscita di Montelupo Fiorentino della SGC FIPILI …”. La deduzione di Salvo poliziotto, a questo punto, diventa facile e posso concludere: “… E visto che non ho sentito tra di voi nessuno con spiccato accento pratese mi pare di poter affermare che il mancante è proprio il tecnico che aspetta sulla superstrada dalle parti di Empoli. E te Monica capocomitiva che dici?”.
E lei: “Effettivamente non vedo l’ingegnere”.
Oramai il personaggio di Camilleri sono io e allora posso finire l’indagine con il suo inconfondibile accento siciliano: “Secondo me il giovane con pochi capelli che sta arrivando in tutta fretta verso di noi col rischio di spaccare le gambine alla bambina di quel panzer tedesco a sedere qui vicino è il nostro uomo”. Era una sparata a caso ma la fortuna del principiante a volte funziona: ci ho preso in pieno.

070714
Ieri mattina alla stazione dell’aeroplano ci accoglie Cornelia; il nostro contatto organizzativo per tutta la settimana. Non sarà con noi che per quel primo pomeriggio e pare in buona conoscenza col nostro capobranco. Poi dopo in albergo incontriamo Monia; la nostra personale interprete e guida e consigliera fino alla fine del viaggio.
Siamo a Berlino. Che mi ricorda questa parola? A sentimento e senza attaccarmi alla rete o consultare libri o dossier: Berlin di LR, Heroes di DB, l’Angelo azzurro di MD, il Cielo sopra a … di WW e quello di FG, la Spia che venne dal freddo di JLC, la Guerra fredda tra USA vs URSS, i Nazi con le SS e il Grande dittatore di CC, Cristiane F e suoi ragazzi dello zoo di … e poco altro. E se vi pare poco, fateci un giro.

080714
Stamani ho deciso due o tre cose: 1 questo scritto diventa un Diario minimo che dura il tempo del viaggio; 2 il diario si scrive solo la mattina tra le sette e otto e trenta asseconda del tempo che posso dedicargli; 3 il testo è vergato sul quaderno dalla copertina blu navy formato A5, della serie “Bellezze d’Italia”, super bianco, bella copia, ditta Ceprat, cartiere  Ceprano e Atina; 4 solo dopo il rientro in patria il testo verrà dattiloscritto, su carta riciclata ottanta grammi su metro quadrato, cartiere Fabriano, con la Valentina 1 di rosso vestita; 5 Quando ho cominciato la lista numerata ho contato sulle dita di una mano ma adesso mi son perso il mignolo che ritrovo solo dopo alcuni minuti di riflessione. Il cinque è la decisione di scrivere sempre ed esclusivamente nella hall dell’albergo che ci ospita: Motel one di Tiergarten e più precisamente seduto sulla prima delle tre comodissime poltrone di tessuto celeste elettrico. Quelle che stanno davanti all’acquario virtuale con il pesce giallo che scheggia come un fulmine dentro il video Samsung da 54 pollici e 3/4 2.  La mia seduta è quella illuminata dall’Arco di Achille 3 e poggia sopra un tappeto di finta erba di lana multicolore sui toni del giallo verde marrone celeste. Punto a capo.
Uffa! La premessa stamani è stata davvero dura. Meno male che gli altri del gruppo stanno ancora in camera. Forse ce la faccio a raccontare qualcosa di ieri. Lo farò comunque per sommi capi quasi fosse una relazione tecnica da spedire al Comune per costruire una cuccia da cani o meglio un rifugio per il canarino.
Di buon’ora la nostra guida M da Cremona ci ha accompagnato c/o la Scuola edile che ci ospita e che ha organizzato gran parte delle visite dei prossimi giorni. L’ente di formazione professionale Lehrbauhof di Marienfielde è ospitato in luogo periferico appena usciti dall’omonima stazione del treno. Il suo direttore, con la faccia del simpatico raccontatore di barzellette che c’è sempre in ogni ente, ci accoglie e ci accompagna per i laboratori di arti e mestieri dentro capannoni tematici. La visita ci impegna fino al primo pomeriggio. Poi, dopo aver scansato per un pelo un viaggio sotto la pioggia, si ripiglia il treno per la Berlino dei quartieri orientali.
In città si percorrono le rive del fiume Spree in tangenza all’Isola dei Musei dove ci sono, per esempio, l’altare di Pergamo, la porta di Mileto e anche il busto di Nefertiti. E mi pare che in un paio di questi ci sia lo zampino di KFS 4. Tutto il lungo fiume è un unico e ininterrotto gigantesco cantiere che comprende la ricostruzione del Berliner Stadtschloss; il castello degli imperatori della Germania. Quest’edificio è una costruzione in calcestruzzo armato sulle tracce del demolito originale e si vocifera che sarà finito al grido del “dov’era e com’era”. Una puttanata galattica secondo il modestissimo parere di chi scrive.
Verso le cinque della sera la visita … è finita … gli amici se ne vanno … 5. Il gruppo si divide in due. Molti se ne tornano in albergo perché stanchi morti. Io e pochi altri temerari saliamo sul tetto del castello, anche se in realtà siamo al quarto piano di una specie di box prefabbricato attaccato al cantiere in corso d’opera. Il punto informativo sulla ricostruzione del castello della città di Berlino in lingua madre definito Humboldt Box Berlin dotato di terrazza calpestabile con bar ristorante e soprattutto veduta spettacolare sulla piazza antistante. A questo punto, dopo che ci han cuccato tre euro cadauno per l’ingresso all’altana, credo che ci meritiamo un bell’espresso. Io però non ci casco e, mentre i miei compagni d’avventura si sorbiscono il solito sciacquone marrone mascherato da caffè italiano, mi faccio un ottimo spritz con Aperol che almeno questo l’hanno imparato.
Poi via all’appuntamento con la comitiva in Alexanderplatz per la cena fissata alle ore diciotto. “Alle 18? …” – penso – “… qui cenano come i polli”. Ma questa battuta me la tengo per me e anzi, per non urtare la sensibilità dei nostri ospitanti casomai dovessero leggermi, magari la metto tra (parentesi). Per arrivare al posto del mangiare abbiamo come riferimento la torre della televisione alta ben oltre i trecento metri. Lo spillone porta, ai tre quarti da sotto, una palla rotante abitabile dove si pole andare a mangiare 6  . Comunque com’è e come non è la passeggiata della digestione cominciata verso le venti p.m. si è trasformata in trekking urbano di un paio d’ore abbondanti. C’era questa torre che sfuggiva continuamente. Un momento era lì e poi ti giravi e la vedevi chiaramente più in la. Era il gioco dei quattro cantoni. Secondo me qualcuno; magari l’architetto progettista; è stato ingaggiato della Mercedes che gli ha cacciato sotto quattro ruote adeguate.
Durante la camminata notturna il nostro dichiarato esperto in domotica ci racconta un fatto che gli è capitato di recente. Il tema è l’automazione degli spazi interni siano essi pubblici, ricettivi o domestici. Non ci penso neanche a tentare altre spiegazioni oltre queste e attacco con il suo resoconto in prima persona. “Ascoltate questa. L’inverno scorso sono stato impegnato a tenere un corso sulla casa intelligente a Bergamo. La sera ero alloggiato presso un hotel vicino alla scuola. Avete presente una di quelle strutture ricettive che sorgono vicino ai caselli dell’autostrada? Nuove di pacca, tutte colorate e un po’ fighette? Era una roba simile. La camera poi era dotata di una barca d’impianti tecnologici i più alla moda. E però ci mancava il sistema di controllo e gestione degli impianti interni alla stanza. Allora la mattina faccio un esperimento. Lascio tutto acceso e funzionante: luci, tv, aria condizionata, doccia, lavabo, finestra aperta e chiudo la porta. Riapro dopo alcuni minuti e tutto funziona alla perfezione. Scendo nell’atrio e racconto del mio esperimento alla cortese signorina che mi si para di fronte al bancone della ricezione: finestra, luci, impianti, rubinetti tutti aperti a tutta randa. Intanto, con  nonchalance, tiro fuori dalla giacca il mio biglietto da visita e, rivolto al direttore che somiglia in maniera impressionante a quel giocatore di palla ovale della pubblicità della FCA, esordisco: “Caro direttore. Secondo me voi avete un piccolo problema di consumi. E se volete io ho un idea della soluzione. La parola magica è domotica e si mi dà quindici minuti le spiego tutto”. Alla parola quindici l’energumeno comincia a gonfiarsi e gli si lacerano gli abiti. Alla le spiego è diventato due metri e settantacinque e la pelle cambia colore con molta evidenza. Al tutto lo vedo diventare di colore verde Hulk e lo sento grugnire come il mutante. Allora capisco che è l’ora di fare il Baglioni.”
La battuta mi esce spontanea ma evito di esprimerla alla comitiva. La serbo per questo scritto. Eccola come se l’avessi espressa al momento: “Cari camerati. Non male la storia. E secondo me ci potrebbe essere una buona morale applicata per esempio al campo della tettonica. Sappiamo tutti che OBL era un discreto ingegnere e apparteneva a una famosa famiglia di costruttori. Quello che non tutti sanno era la sua esperienza con le strutture di acciaio. E poco più di una dozzina di anni or sono la sua impresa era entrata in crisi. Il mercato immobiliare? La bolla dei prezzi? Le banche? E chi lo sa. Fatto sta che il lavoro se lo procura da solo. Se la montagna non va da Maometto ci pensa lui. Fitta un paio di velivoli e via”.
Pausa a effetto e poi: “Ho il sospetto che non abbia lasciato biglietti da visita”.

090714
Per raccontare dei fatti di ieri inizio da stamani. Solita levata, di anticipo sulla sveglia, verso le cinque e 48 e alle sei accendo il video e guardo il bollettino di guerra. I panzer tedeschi hanno umiliato la nazione organizzatrice dei mondiali di calcio in corso. Ieri sera, causa viaggio di rientro, ho solo avuto la notizia del risultato. Stamani ho visto le azioni dei gol racchiuse in un video di diciotto secondi netti. Pareva un tiro al bersaglio al luna Park o anche un allenamento tra titolari di serie A e riserve di lega prof o meglio ancora la classica sfida tra scapoli e ammogliati sul modello delle mitiche del Fantozzi rag. Ugo. 1 a 7. Impressionante la facilità di metterla dentro la porta del povero JC.
Ma per tornare a bomba ieri mattina abbiamo fatto un lungo giro in Potsdamer Platz in visita a edifici e spazi pubblici, centrali di recupero acque piovane e grigie. Era pure in programma la salita sul tetto del grattacielo Daimler Benz 9 ma poi i lavori di manutenzione della copertura ce l’hanno di fatto impedito. La giornata è scorsa in maniera noiosa tra sole e nuvole, temporali improvvisi e pioggerella finissima che ci ha inzuppato di brutto. Quindi alla fine del pomeriggio gran parte del gruppo è rientrato per docce e cambi. Solo alcuni stoici sono rimasti sul pezzo a chiacchiera in un bar davanti in vista della piazza. Non faccio nomi e manco cognomi; mi limito alle iniziali: MB MM AB BG MG FC anche se dopo poco un paio di monogrammi son fuggiti. La discussione davanti al caffè è stata molto intensa e a tratti ha assunto connotati psicologici di basso livello fino al gossip di gruppo.
Il pomeriggio è scivolato in sera e noi anche verso la Porta di Brandeburgo insieme a qualche centinaio di mila berlinesi che hanno spinto la loro squadra verso la finale del 13 prossimo venturo.

100714
Stamani si va in visita dell’ex aeroporto di Tempelhof. Quello ex militare che una società immobiliare aveva individuato come luogo per un nuovo quartiere di lusso. Quello che, in forza di un referendum civile e democratico promosso all’inizio da sparuti gruppi di cittadini che pian piano son diventati una maggioranza, è rimasto all’uso di parco pubblico. Un grande polmone verde inglobato dalla città che è già comunque molto green.
Ieri sera gli argentini del calcio si son guadagnati l’accesso alla finale di domenica prossima. La partita non l’ho vista per via che eravamo, come talpe, in giro per pubbliche linee sotterranee. Al ritorno in albergo son salito in camera ed ho acceso la televisione per i tempi supplementari. Che in realtà non ho visto per niente causa assopimento temporaneo fino al rigore sbagliato da WS che ha in pratica regalato il biglietto per Rio agli amici di Messi.
Ieri è stata una giornata campale. Il contapassi impiantato sotto il piede dx ha segnato, all’arrivo in camera, qualcosa come 19.166 10 passi divisi in: 5.022 durante la mattina fino al desinare, 2.527 per la visita al laboratorio statale di gessi dei musei di stato di Berlino e infine 11.617 alla ricerca del MVDR della nuova Galleria Nazionale. Totale undici chilometri e mezzo. Mi piace pensare che Mies sia un mio vecchio amico che se n’è andato prima che lo potessi incontrare. Una volta, era un secolo fa, ho disegnato un edificio davanti ad un suo celebre padiglione e gli ho anche dedicato una novella 11.
Mi pare riduttivo raccontare la visita. È un’esperienza da fare di persona e se qualcuno ha voglia di ragionarne sono a disposizione. 
Durante il pomeriggio, libero a disposizione per la visita della città, ho avuto modo di ragionar con FC sul tema rifiuti. Su questo ha testato una scoperta fatta per caso un paio di giorni fa sul reso delle bottiglie di plastica e vetro. Ha veduto alcuni ragazzi che passavano dalla cassa di un bar con alcune bottiglie e uscivano dal locale con spiccioli in mano. Poi ha notato una signora anziana, chiaramente senza tetto, che si affacciava sul bordo dei cassonetti a recuperar bottiglie che cacciava dentro un grande sacco di plastica. Ha fatto uno più uno e ha recuperato tutte le bottiglie della nostra sosta in birreria scoprendo che la plastica vale centesimi 25 mentre il vetro solo 5. Un pochino simile a quanto, ricordo, succedeva in Italia fin verso la metà degli ottanta con il recupero delle bottiglie di vetro.
Poi noi si è cominciato la raccolta differenziata, con i disastri che sappiamo, e loro hanno cominciato col vuoto a rendere. E se non ricordo male ho visto pochissimi cestini di rifiuti e nessun bottiglia per terra.
Hanno avuto ragione loro.

… Continua


In giro per Berlino …
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20/02/20

Ritardi



Ritardi | 2004

L’assassino torna sempre nel luogo del delitto.

Questo in sintesi è il pensiero del guidatore dell’auto che fila veloce sulla strada che costeggia la valle. E’ vicino al luogo. Ci torna dopo diciotto mesi esatti dall’ultima volta. Da quando i padroni di casa hanno messo mano ai lavori non è più tornato nel piccolo paese dominato dall’imponente sagoma del castello. Il progettista ricorda a mente la planimetria della casa che ha disegnato ma non conosce le scelte e i dettagli operati dagli esecutori.

Ha fatto fioretto di rivedere la casa solo al momento del suo battesimo.

Le note del sassofono del grande Duca si miscelano alla calda voce nera della magnifica Ella mentre si immagina i gesti compiuti dagli abitatori delle stanze in questo momento. I padroni di casa probabilmente accedono dall’ingresso supplementare al piano mansarda che è in diretto contatto con il giardino. Aperta la porta si trova a sinistra un locale igienico e a destra il ripostiglio-dispensa passante che da accesso alla lavanderia. Il disimpegno conduce direttamente alla scala per scendere al secondo.

Ma se voglio posso girare intorno a due muri.

Quello di sinistra segnala la cucina e quello di destra il posto per mangiare. In cucina si trova tutto l’occorrente per preparare il mangiare compreso la grande stufa a legna e il frigo gigante. Il tavolo in legno di quercia a destra sopporta agevolmente, in posizione di riposo, dodici persone a tavola. Se poi lo voglio ampliare pochi gesti consentono di portare a venti la capienza del desco. Il grande caminetto aperto su quattro lati serve per preparare il cibo ma anche per riscaldare le lunghe serate invernali. Due lati delle stanze principali sono vetrati e guardano di sotto sul vuoto del soggiorno. Il pavimento è di coccio pesto e il soffitto è dipinto di bianco come le pareti. La luce entra dalle piccole finestre di legno dipinto in grigio topo e dai grandi lucernari in copertura.

Intanto il veicolo è giunto al parcheggio vicino alle case nuove.

Il professionista spenge il motore, scende e si avvia sulla strada in pendenza. Magari in questo stesso momento il padrone di casa scende le scale fino al secondo piano. Io siccome sono un ospite suono il campanello sotto l’arcone. La grande vetrata individua un vero ingresso pieno di piante da casa. Una sorta di giardino d’inverno che da accesso al guardaroba e al locale igienico. Saluto e entro. Mi levo la giacca e percorro lo stretto corridoio con il pavimento di pietra bigia come quello dell’ingresso.

Ecco sono in casa.

A destra il grande soggiorno con i divani, la tecnologia e tutto quanto compreso il caminetto a tutta parete dove posso entrare sotto. Sul canto del fuoco il nonno è intento a raccontar novelle ai nipotini. Ma io che sono l’ospite e voglio scoprire la casa continuo il mio giro. Giro intorno ai muri del blocco scale e trovo il posto per i giochi dei grandi. Un grande tavolo che serve anche per le feste che sovente la casa bandisce. Gli scaffali sono addossati alle pareti laterali. Una parete scorrevole nasconde e accede allo studio biblioteca. Qui ci sono i libri; una barca di libri di tutti i generi; e le connessioni per la rete.

Qui sono in contatto con il villaggio globale.

Mi giro e traguardo la parete di fondo; quella con tre finestre; che è dipinta di rosso fuoco mentre le altre; tutte le altre; sono di un bel giallo ocra spento. Pavimento di legno di quercia e soffitti restaurati.  La cucina e il posto per mangiare le vedo dopo quando si mangia. Adesso continuo la mia visita e scendo le scale verso il primo piano accompagnato dal padrone di casa. La prima parete che trovo in fondo alla rampa, omologa a quella rossa del piano di sopra, è tinteggiata di un bel blu cobalto mentre le restanti sono di un tenue verde acqua. A destra la camera degli ospiti. A sinistra un locale di passo: una sorta di anticamera filtrata da uno scaffale con due porte scorrevoli che all’occorrenza diventa ulteriore stanza di riposo quando il divano diventa letto. Qui ritrovo la connessione alla rete internet. Continuo il mio percorso e trovo un altro locale igienico.

Poi il ripostiglio per le scarpe e per le borse.

Centocinquanta per adesso ma il numero  pare destinato a crescere nel corso del tempo. Che si voglia arrivare a battere il record delle cinquemila della Imelda delle Filippine? Ma io non ho questi pensieri e apro la porta della parte più privata della casa. La camera dei padroni. Sulla sinistra un grande scaffale che magari potrebbe contenere l’ampliamento della collezione di pelle da piedi ma per adesso porta un grande schermo tivù. Il letto è sul fondo della stanza. Due porte accedono ai rispettivi guardaroba uomo - donna.

Quello della padrona è finestrato; l’altro no.

Al bagno padronale si accede direttamente dalla camera. C’è il posto per il trucco e la cura del corpo, due lavandini, water e bidet come richiesto. Una vasca – doccia idromassaggio gigante si è fatta spazio occupando la nicchia in fondo. Esco dalla stanza e riprendo le scale a scendere. Mi sa che ho da vedere l’ultimo piano che in realtà sarebbe il piano di appoggio a terra dell’edificio. Strana casa che entra in alto e scende verso il basso. Ma ora pesto al terreno e sbatto la faccia nella parete delle tre porte tinteggiata di un bel verde menta mentre le restanti sono di un azzurro smorto. A sinistra la cantina con il pavimento di pietra grezza; come era e dove era; mi accoglie insieme alle damigiane e alle bottiglie disposte in bell’ordine sugli appositi scaffali fatti con morali e assi di recupero. Vorrei vedere l’altra stanza ma il padrone mi invita a posticipare perché adesso è occupata dalla famiglia tedesca. Risaliamo allora le scale fino in cima dove salutiamo velocemente la massaia intenta alla preparazione della cena. Crostini neri e salumi nostrali; ribollita e cipolla fresca; fritto misto e insalata di campo. Le patate fritte sono per i ragazzi. Una cena grassa e saporita come quelle di una volta. Vino rosso delle vicine colline e acqua di fonte. Il dolce lo portano gli altri invitati.

Io ho pensato al vinsanto e ai cantucci con le mandorle.

Ma adesso usciamo in giardino dove, su uno spiazzo inclinato, fa bella mostra di sé una vecchia “diesse”; lauto dell’ispettore che non riesce mai a imprigionare l’uomo dalla tuta nera e dalla macchina veloce. Marrone scuro metallizzato e cromature rimesse a nuovo. Bellissima. Una piccola rampa a scendere ci conduce verso la pergola. Sotto c’è il tavolo apparecchiato per la festa e vicino il fico dei verdini. Il pollaio è stato recuperato a serra e legnaia mentre la stanza sulla strada è attrezzata per i piccoli lavori domestici. Ripara una finestra; dipingi quella stanza; salda la cancellata.

Una stanza per gli hobby insomma.

Il sole settembrino è già calato e la sera è alle porte. A momenti dovrebbe arrivare la famiglia del progettista e gli altri ospiti. Proviamo a finire il giro e vedere se i tedeschi sono usciti. Ci avviamo lungo la strada pubblica fuori della casa. Adesso siamo di fronte al vecchio ingresso dell’edificio. Una porta al centro e due sporti laterali. Si entra da quello di destra con la chiave d’emergenza. I tedeschi sono usciti. Il tavolino  rotondo a destra con sopra uno spinotto denuncia altre connessioni globali e l’altra fissazione della padrona. Il monolocale è spartano: assoni di quercia per terra e mobili essenziali. Il bagno è sotto le scale e la cucina è nascosta dietro al pannello scorrevole. Usciamo dalla porta sulle scale e torniamo di sopra fino in cima.

Fino alla mansarda.

Ci accompagnano gli scalini di pietra scalpellata e gli intonaci arancio dei muri delle scale. Un segno forte che denuncia le scelte fondamentali del progetto. L’arrivo al secondo piano è salutato dal trillare del campanello della porta di ingresso. Mi sa che sono arrivati gli altri ospiti. In ritardo ma sono arrivati. La festa ha inizio.

Si bagna la casa.


Lungo i tornanti del passo della Scheggia Ginko insegue Diabolik. E spara anche.
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13/02/20

Lucignolà



Lucignolà | 1999

Il rumore del tuono destò il signor Dino.

La pioggia cadeva copiosa  e ticchettava sopra alla gelosia della vicina persiana [... accidenti … la lasciano sempre aperta ...]. Il debole chiarore dell’umida  notte marzolina illuminò la stanza. Erano le una di una notte come le altre. La famiglia giaceva addormentata sui divani. Il piccolo Dario sulle sue braccia. La di lui sorella Daria stava accartocciata vicino alla  signora Dina sull’altra poltrona. La televisione, di solito a quell’ora illuminante una famiglia in letargo, era piacevolmente [...molto piacevolmente...] spenta.

 La corrente elettrica era  venuta a mancare di nuovo.

Succedeva spesso quando alla pioggia si accompagnavano tuoni, fulmini e anche  saette. Il piacere di abitare in campagna [...lontano dalla città e dalla sua tecnologia elettronica e satellitare. Lontano dalla folle rincorsa all’ultimo telefonino o all’ultimo programma di disegno assistito dal computer...] era ricambiato [...dall’entenazionaleperlenergiaelettrica...] con siffatto servizio.

Le considerazioni sul suo stile di vita lasciarono il passo al problema più urgente perché c’erano i ragazzi da mettere a letto.

Con una carezza svegliò la moglie che a tutta prima lo apostrofò in malo modo e subito dopo si scusò [...si è scusata … domani piove...] per le maleparole. La casa era costruita su diversi livelli con le camere individuate al piano di sopra. Le scale di accesso erano irte e ingannevoli con pianerella di rigiro a ventaglio. Non era assolutamente consigliabile percorrerle al buio con in braccio i  bambini che, [...accidenti come pesano...] nonostante la tenera età, si davano il loro daffare quando c’era da mangiare.

Il problema era ormai posto.

La luce si accese nella testa dell’uomo ripensando ad una frase ricorrente nel vocabolario del nonno [...che ormai non c’è più...] quanto era piccino e abitava [...con tutta la famiglia...]  nella grande casa piena di spifferi lassù sulla collina. “Nini... passami i fulminanti che è andata via la luce”.
 Scontò quindi il figlio e lo appoggiò sulla poltrona. A memoria percorse la distanza che lo separava dalla cucina dove sapeva essere la soluzione del suo problema.  L’oggetto era disposto al centro della tavola ed aveva la forma approssimativa di un vaso da fiori. Tutto arancio con un piattino alla base, un cilindro con piccoli fori circolari ed un cono rovesciato in sommità.

Sul piattino c’era una piccola candela e sul tavolo i fiammiferi.

Accese la candela e rimise il coperchio al piatto. Subito una debole luce , proveniente dalle feritoie del cilindro, illuminò la stanza. Con quella specie di lucignolo si diresse verso la stanza buia. L’oggetto passò sulle mani della donna che prontamente si alzò. I bambini furono faticosamente trasportati di sopra e deposti nei rispettivi letti. I due genitori si approssimarono alla camera da letto e si prepararono per la notte. Lo scambio di battute che segue è fedelmente riportato così come ci è pervenuto.

Dino    Non ho sonno e non ho voglia della televisione ... che si fa ? [attaccò con voce languida e speranzosa avvicinandosi alla donna e tentando l’approccio]
Dina    Che vuoi che facciamo. ... Cosa ???? Alle unaequindici di notte. Io domattina mi alzo alle cinqueecinquantacinque. … Ricordi ? ... [ribatté la donna che nel frattempo si era girata nel letto con la faccia verso il muro]… Non so tu. Io dormo. Buonanotte.

Il povero signor Dino, sconfitto al primo debole attacco, si ritirò nel suo angolo e soffiò sull’oggetto luminoso. La candela si spense e il buio si riappropriò della notte.

La famiglia Lampa dormiva.


Una notte la casa lassù sulla collina rimane isolata. È andata via la corrente elettrica.
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06/02/20

La giostra



La giostra | 2005

                                                       (ovvero modesta novella sul crudele destino di un povero infedele)

La giostra.
Da piccino la giostra era per me quell’affare a forma di punta di lapis scavato. Con un piano sotto e un soffitto a punta sopra. Un palo nel mezzo  e dentro i cavallini che girano. Come tutti i bambini avrei passato ore  e ore e magari pomeriggi interi sopra a quel magico mondo che la sera si illuminava tutto di lucine colorate mentre la musica accompagnava il movimento delle bestie con sopra  i ragazzini al galoppo. Allora andavano di moda i film degli indiani e dei cow boy (leggi per favore caoboi) e anche le storie di Rintintin il cane oppure ancora le storie del Tex di Bonelli. Il bianco e nero di Ombre rosse e le strisce; un terzo di ventinove e sette per ventuno; del grande Blek e di capitan Miki.

Mitici.

L’occasione della giostra; per noi abitatori della valle dell’Arno tra Firenze e Arezzo, era la festa del Perdono la quarta domenica di settembre. In realtà tutto il mese settembrino era un fiorire di giostre nella valle e noi bimbetti si piangeva se, per un motivo alcuno, i genitori non ci portavano alle feste. Il Perdono, festa tipicamente religiosa, si stava trasformando; si parla del secondo dopoguerra o meglio dei sixties; in roba ludica e pagana abbastanza simile; per rendere l’idea ai più giovani; a quello che sono oggi tutti i mercati settimanali o anche le sagre di paese. Banchi di formaggi e venditori di porchetta; zucchero filato e dolciumi; cavallini e ruote panoramiche. Poi fecero capolino le automobiline e i carrarmati, gli aeroplanini e i missilini. Noi si cresceva.

La giostra continuava il giro ma la magia era finita.

E poi quando sono arrivati la Giulia e Guido sono ritornato alla giostra. Adesso era fissa nel viale lungo il fiume nella città che dette i natali al fratello di Masaccio. Pareva un negozio: apriva alle nove e faceva la pausa delle tredici per riprendere dalle sedici fino alle venti. Un negozio con lucine e musichette; bombardieri e robot di d’acciaio. So per certo che i piccini si divertivano lo stesso. Ma io non più.

La magia se n’era andata insieme ai cavallini.

Poi un giorno; che i ragazzi erano ormai grandicelli; mi chiama una signora con accento aretino. Si presenta e mi dice di essere del comune di Arezzo o meglio della giostra. Io lì per lì non realizzo. Sono sicuramente informato dell’esistenza della giostra di Arezzo anche perché in quel paese (oddio qualcuno mi uccide che ho chiamato “paese” quella che si fregia di essere una città) ho trascorso cinque dei miei anni da studente a imparar di strumenti ottici e triangolazioni; di disegno tecnico e particolari costruttivi.
Ma che volete che vi dica. Sono un italiano medio. Vado in giro per l’Italia alla ricerca di rievocazioni storiche analoghe ma siccome la città che battezza la targa della mia macchina è lì vicino non sono mai stato alla giostra del Saracino.

Giuro: parola di giovane marmotta.

Non realizzo dicevo e intanto penso tra me e me: “… ma di che giostra parla questa … che roba è … che sia quella dei cavallini di quando s’era piccini … ?” Per fortuna penso e non parlo perché essa continua: “… della giostra del Saracino che certo lei conoscerà.” E io: “… ehm … well … si … certo che la conosco. Certo che conosco la giostra”. E allora lei rinfrancata riprende: “… ecco vede lei sarebbe stato scelto per essere uno dei cinque giudici di campo dell’edizione del diciotto. Quella in notturna. Accetta?” E allora improvvisamente capisco. Capisco e rientro in palla. Rendendomi disponibile alla bisogna chiudo frettolosamente e corro ad informarmi sulla giostra dell’uomo nero. Del Saracino off course. Nei giorni a venire mi attacco alla rete globale e scarico una quantità enorme di materiale. Una barca di fogli. Saranno cento e passa. Mi leggo delle origini medievali e degli sviluppi successivi; mi informo sull’albo d’oro e mi studio tutto il regolamento dalla “a” alla “zeta”. Lo mando a memoria con le tecniche apprese dall’amico indiano dell’India. Le so tutte.

E poi arriva il giorno.

Il sabato pomeriggio ho appuntamento con il presidente e gli altri giudici al teatrino della Bicchierata. Per le venti e quindici precise. Al solito arrivo per tempo e in netto anticipo sull’ora fissata. Saranno le diciannove e trentatre quando finisco di pulire lo stecco del moresco. Moresco come il Saracino. Mi siedo sui gradini della porta di fronte alla prevendita dei biglietti e mi accingo all’attesa che prevedo abbastanza lunga. Diciamo cinquanta minuti almeno. Per fortuna ho lo zaino con l’occorrente. Accendo una rossa e tiro fuori il taccuino di viaggio che sempre mi accompagna. La copertina porta impressa un’immagine di Ernesto C. G. con un cubano stretto tra i denti e la barba di alcune settimane. La pilot si muove veloce che la scrittura è un’arte che s’ha da fare in velocità. Senza pensare troppo; a tutta randa. Giungo a raccontare fino al momento della telefonata di invito alla giostra e poi arriva il/la presidente…ssa. Tutta bionda e bronzata di mare.

Una gioia per la vista e alle venti e ventitre come previsto.

Ci si saluta e ci si veste in fretta nella sala delle prove del teatro. Una stanza stretta e lunga con il pavimento di legno e uno specchio a tutta parete sulla sinistra entrando dalle scale. Una tenda trasparente colore nero o forse blu o forse grigio scuro corre davanti alla parete specchiata e da un certo tono al locale. Non male. Una bella atmosfera. Ci cambiamo velocemente e indossiamo la veste rossa di tessuto pesante. Forse lana o che so io. Un caldo infernale. Credetemi. Il nostro accompagnatore: un signore con la barba che ha sempre fretta e che ci esorta a fare veloce; ci mette a conoscenza che quest’anno non avremo il cappello bianco che contraddistingue i giurati ma saremo a capo scoperto. Io penso alla mia pelata e sogghigno sotto i baffi che non ho.

Ma adesso è l’ora di andare.

Si và alla giostra. Si và in piazza. E mi sovviene, chissà perché, la parte finale di un testo letto giorni prima. Si tratta del canto di disfida che verrà declamato in piazza prima della gara. “… Non più parole, omai, vò vendicarmi: al campo! Alla battaglia! All’armi! All’armi!” In fretta ci si catapulta tra la folla del Corso che assiste al passaggio del corteo storico: cavalli e cavalieri; dame e magistrati; alabarde e stendardi; tamburini e musici. Uno spettacolo.

E poi eccoci arrivati al cancello d’ingresso all’invaso.

La piazza è lì dietro. Gli spettatori prendono posto sulle gradinate e si avvertono i primi canti di sfottò. Ogni quartiere o meglio ogni porta ha il suo coro anche il contro coro per le parti avverse. Una bolgia. Al cancello siamo i primi. Evidentemente il signore con la barba che ha sempre fretta ha calcolato male i tempi. Sono appena le venti e trentatre e l’attesa comincia. Il giudice con lo zaino arancione è indeciso se indossarlo davanti; come se fosse una grossa pancia posticcia; o dietro come se avesse la gobba. Naturalmente il giudice è il qui presente raccontatore che chiameremo “lo Scheggia” per rispetto delle regole sulla privatezza. Ma si diceva della piazza che, gli abitanti della terra cantata dal sommo poeta Pietro, chiamano Grande. Piazza Grande la conosco.

E bene.

C’è uno spettacolare palazzo del cinquecento con un porticato a doppio volume. Ci sono venti grandi arcate e ventuno piastroni. L’undicesima arcata dal Corso serve a condurre la gente dalla piazza fino al Prato. In terra si calpestano certi lastroni di travertino di Rapolano consunti e sbrecciati ma belli così. Se ci si mette con le spalle al palazzone a destra si trova il palazzetto della Fraternità dei Laici ora sede del tribunale. Accanto il sedere della Pieve. Bellissimo. Assomiglia, secondo me, a quello della Marilina buona amica di un presidente morto in circostanze misteriose quarant’anni e rotti or sono. Gli altri due lati; frutto di un rifacimento stilistico intorno agli anni trenta; sono molto “very beautiful” come direbbe la mia amica Bea dai Paesi Bassi.

E poi c’è lei.

Tutta pendente verso la bianca fontana con il pozzo medievale da una parte e la colonna della vergogna dall’altra. Il semplice ammattonato; bordato ai lati e nel mezzo da strisce di travertino bianco; la rende unica. Grande. Veramente. E ora la gara. Ma prima c’è il corteo che entra. E tocca anche allo Scheggia insieme agli altri giudici. Con la pelata e la gobba e la macchinetta digitale nascosta sotto la veste rossa. La folla urla e barrisce in attesa dell’ingresso dei quartieri in gara. Ma il quinto giudice ha da onorare una promessa fatta a se stesso e all’infedele i giorni passati. Il corteo viaggia a passo di tamburo sopra il percorso in terra battuta. Dal pozzo alla scalinata del tribunale frisando la colonna dell’infame e fermandosi alla decima arcata del Vasari. Poco prima di svoltare verso il palco della giuria il nostro sbottona in fretta tre bottoni del costume e schiaccia, spera non visto, il pulsante della diavoleria giapponese digitale. Flash! L’immagine è dentro la memoria virtuale della scatoletta di alluminio.

Il Saracino è imprigionato.

La giostra può incominciare. La gara prevede che gli otto cavalieri delle quattro porte colpiscano a turno; lancia in resta; il braccio sinistro dell’infedele che porta una specie di tabellone segnapunti. Il punteggio và da uno a cinque e la somma delle due “lizze” per ogni quartiere determina il punteggio finale e l’assegnazione della vittoria. Il premio è una lancia d’oro ogni anno diversa. Le complicate regole di gara le ho mandate a memoria la settimana scorsa.

Stanotte, ventuno di giugno solstizio d’estate, voglio terminare ‘sta novella.

La luna è piena e rossa che pare un’arancia. Ieri è nato, alcuni anni or sono che mai si dice l’età di una signora, il mio amore. Mi sento in pace con il mondo intero.

Intanto la giostra gira.

E gira e gira e gira. L’automa di legno si becca della lanciate che levati e cerca di rispondere con palle macchiate di polvere nera che difficilmente raggiungono l’obiettivo. Per onore di cronaca occorre ricordare che l’edizione in notturna è stata vinta quest’anno (non me ne vogliano quelli di San Lorentino) dalla Porta con il buco.

Posso dire la verità? Non vorrei essere il Buratto.


L’architettura che contorna questa giostra è potente.
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