Lettori fissi

30/04/20

Silva nigra



Silva nigra | 2018

Di normale son puntuale.

Anzi di regola sono in anticipo di una decina di minuti almeno. Giusto il tempo per una svampata. Di quella buona. Di quella della  cicca presa dal pacchetto rosso e bianco. E anch’oggi non mi smentisco. Alle tredici e quindici parcheggio l’automobile nel piazzale. Sono nei pressi della stazione di servizio Agip in vicinanza all’uscita di Firenze nord lungo l’Autostrada del sole. Accendo la prescritta e aspetto.

Entro l’ora fissata arrivano gli altri compagni di viaggio.

Con due di loro sto lavorando al progetto per certi spazi pubblici e per un fabbricato direzionale a Volterra. Con piacere ne riconosco altri due che mi son stati studenti ai tempi delle mie collaborazioni universitarie. Rammento che gli sono stato relatore esterno per la tesi che si occupava del riuso di un’area, un tempo adibita ad Ospedale, a ridosso del centro storico di Montevarchi.

Saluto i soci e abbraccio i due giovani che non vedevo da tempo.

Si fanno poi le presentazioni con gli altri viaggiatori e ci si conta. Siamo in sedici provenienti da parti diverse della toscana. Ci ha radunati in questo luogo ameno, a quest’ora del giorno del Signore, il consulente di una società tedesca di illuminazione molto nota e alla moda tra gli addetti ai lavori. Il nome; quattro lettere comincia con “H” e finisce con “s”; è il medesimo, credo solo per omonimia, di un gerarca nazista processato nel quarantasei a Norimberga.

Con i quattro caratteri finiscono le uguaglianze.

L’azienda che andiamo a visitare si occupa, dal secondo dopoguerra, di illuminamento per spazi pubblici e consequenziali producendo manufatti di buon disegno con materiali di elevata qualità. Insomma un impresa che produce oggetti contemporanei molto graditi agli architetti. Mi era capitato di conoscerla anni prima in occasione del progetto per la piazza esagona di Grammichele.

E in quell’occasione avevo incontrato il nostro capo gita.

Che; gentilissimo; era sempre accompagnato, durante i tre o quattro incontri avuti, da riviste e cataloghi talmente belli che somigliavano più a libri che a prodotti di informativa commerciale. Senza girarci troppo intorno dichiaro che il prodotto mi aveva conquistato perché “… la forma segue la funzione” e via dicendo. Al tempo rammento che alcuni lampioni servirono da spunto al disegno dello spazio urbano rivisitato dal nostro gruppo. Dopo ci incontrammo in altre occasioni fino a che; due mesi prima; mi invitò al viaggio.

Per questo eravamo li quella domenica di fine ottobre.

In pullman fino a Orio al Serio e poi in aereo verso Stoccarda dove ci aspettavano per le 19,30 con la birra di benvenuto. L’automezzo partì, come convenuto, alle 13,30. Ricordo che subito dopo che fummo partiti mi avvicinai al capo gruppo. Sapevo del volo per le 18,30 e avevo fatto due conti. Da casello A1 Firenze nord  all’aeroporto sono 330/340 chilometri e ci vogliono circa 3 ore e mezzo. Con strada libera e senza intoppi. Un ora prima dell’imbarco c’è il checkin. Quindi il periodo di comporto si conta in 20 barra 30 minuti al massimo. Visto la solita mania di puntualità; o meglio la paura di far tardi; che mi affligge da sempre contestai con nonchalance l’orario di partenza.

Lo feci con una battuta(ccia) veramente ignobile tipo: “Siamo in anticipo?”.

Evidentemente la freddura non fu compresa e anzi era talmente una ciofeca che nessuno la prese in considerazione per quello che voleva essere: apprensione vera per un ritardo possibile. Comunque sia né il capo reparto e tantomeno i compagni di ventura si interessarono alle mie paturnie. In parole povere nessuno considerò nessuno e soprattutto il vostro raccontatore. Ognuno si ricaccio nell’occupazione preferita: ragionare di architettura nelle sue molteplici declinazioni tipo design, spazio urbano, verde pubblico e via col liscio lungo quella strada. Insomma la solita rumba  che ballano di solito  gli architetti quando son costretti in spazi angusti.

A parte i soliti cinque disfattisti che si cimentarono in una bisca  alle carte.

Per parte mia profittai per ragionare con i due amici di Siena intenti alla lettura. Uno di una monografia Electa su Peter Zumthor e l’altro di un volumetto di critica politica  “La Casta di Siena”. Quello che ci dicemmo resta per noi. Così come i discorsi e ragionamenti con gli altri occupanti la corriera. Intanto l’autista faceva il suo mestiere; dopo aver affrontato e sconfitto il valico dell’Appennino, ci portò a Bologna e imboccò la direzione verso la meta.

Poi tra Modena e Parma successe.

Niente guasti e manco forature. No terremoti o eventi sismici. Niente di tutto quello che, di brutto, ci si possa immaginare quando siamo in viaggio. Neanche l’attraversamento di un branco di “gnu”. Solo una modesta e improvvisa coda. Ma non una coda normale. Piuttosto una di quelle definite ad elastico. Dove ti fermi di botto e poi riparti per alcune decine di metri. Poi riparti e di nuovo ti blocchi. Magari provi l’altra corsia perché il camion dei deperibili va come una scheggia. Ma niente. Appena ci vai tu ti fermi di nuovo. Ad elastico appunto. Da quale motivo del cappero, ti domandi, dipende?

Magari son lavori in corso o sorpasso mezzi pesanti o incidente dopo Parma.

Come sia il nostro pulmino da trenta posti munito di tutti i comfort: sedili reclinabili con accessori, impianto di climatizzazione, autoradio con mangianastri e lettore cd, TV con impianto VHS, microfono, frigo, navigatore satellitare, frenata in abs, cinture di sicurezza su ogni sedile, porta elettrica retro traslante, toilette a bordo, ampio bagagliaio posteriore e laterale, ricchi premi e cotillon; era bloccato.

In luogo imprecisato poco dopo l’uscita di Reggio Emilia.

Il tira e molla continuava con estenuante lentezza. E intanto l’orologio del conducente segnava le quattro e trentacinque pm. Col piffero che si facevano i restanti 170 chilometri fino all’aeroporto in poco meno di un’ora. E infatti mezz’ora dopo eravamo solo nelle vicinanze dell’uscita di Fidenza. La coda era sempre la stessa e il serpentone procedeva sempre a singhiozzo.

L’incazzatura dei viaggiatori era nell’aria. Si percepiva dalle sottili frasi affettate come lame sul culatello. Qualcuno, io fra questi, si mise a far due conti e il risultato fu: “ … forse con un miracolo ce la facciamo … anche se non ci credo”. Il nostro capo gita fece un paio di telefonate alla compagnia aerea per informarli del nostro ritardo sperando in un ritardo dell’aeromobile, un posticipo di partenza o cose simili. Dalla faccia che fece fu evidente il diniego.

Poi all’improvviso com’era arrivata la coda se n’andò.

Senza peraltro mai aver saputo le cause del fatto ci mettemmo in moto. Finalmente con una decente velocità di crociera. Anzi il motore Mercedes fu spinto ben oltre il lecito del codice della strada. Nonostante ciò alle 18 e 18 eravamo ancora distanti una trentina di chilometri dal traguardo. Le chiamate della nostra guida si fecero insistenti. Chiedevano senza mezzi termini di interrompere le fasi della partenza visto che stavano arrivando più di venti passeggeri. Rammento che ci rincuorava sostenendo che di sicuro un aereo da ottanta posti non poteva permettersi di partire senza di noi che contavamo più di un quarto del carico. Dimenticava il meschino che i biglietto oramai erano stati pagati e ben difficilmente sarebbero stati rimborsati. Dallo sconforto con cui raccontava i risultati delle chiamate s’intuiva però che la torre di controllo e il personale tutto non lo prendeva sul serio. Anzi con tutta probabilità accelerarono le procedure di imbarco.

Infatti appena l’aerostazione si palesò alla vista il nostro velivolo fece ciao.

All’ora stabilita salutò con la manina aperta e si diresse verso Stoccarda nelle cui vicinanze c’era la fabbrica che dovevamo visitare. In realtà il programma era molto più ampio e frastagliato. La tre giorni, in ordine sparso, prevedeva: visita allo stabilimento e ai reparti sviluppo e ricerca, laboratorio con prove illuminotecniche, escursione naturalistica nei pressi della vicina foresta nera con sosta in baita tradizionale e degustazione di prodotti tipici. E per ultimo il pellegrinaggio al villaggio bianco. Per i non addetti il Weissenhof di Stoccarda è il quartiere, ancora in piedi per circa la metà degli edifici, costruito nel 1927 in occasione dell'esposizione organizzata dal Deutscher Werkbund. È stato una sorta di vetrina internazionale per mostrare le innovazioni, architettoniche e sociali, proposte dal Movimento moderno. Per quanto mi riguarda è il Quartiere”. Il primo che ho studiato e amato.

Quello della casa doppia di Le Corbusier.

Provo a raccontare, in breve, la dislocazione degli spazi: a terra locali di servizio, pilastrata arretrata rispetto al fronte e scala al superiore; al primo stretto corridoio di disimpegno su cui si aprono molteplici porte di accesso alla sala principale, il salone a giorno presenta un arredo minimo con letti a scomparsa per lasciare libera la fantasia dell’abitare; sul tetto giardino uno studio biblioteca. Una bomba. Almeno così la ricordo dal tempo degli studi quando avevo tentato, senza successo, di andarla a trovare.

La visita al Weißenhofsiedlung è la ragione del mio viaggio in queste terre.

Intanto la diligenza  a motore ci accompagna di fronte alla sala partenze. Il più veloce del gruppo, tal Piè Veloce di nome e di fatto, si lancia verso gli uffici operativi dell’aeroscalo. L’idea è di supplicare i posti per il prossimo volo utile che però scopriamo essere domani l’altro sera stessa ora. E quindi ciccia. In quei momenti convulsi un comitato costituito all’occasione tenta tre strade divergenti. La prima è una chiamata al presidente della società ospitante, che ci aspetta per l’aperitivo di benvenuto, per avvertirlo del ritardo. La seconda è la richiesta all’autista della corriera della sua disponibilità per un eventuale viaggio supplementare di circa seicento chilometri e 7/8 ore di guida nella notte buia e tempestosa visto che da poco piove a temporale con  tuoni e fulmini a tutto spiano. La terza è la ricerca in noleggio di tre pulmini da nove posti o simili.

A seguire in ordine inverso le risposte.

Pulmini o automobili di quella capienza non erano disponibili prima di una settimana. Il conducente dell’autobus ci squadrò come se fossimo marziani e accampò legittime scuse del tipo “… Stanchezza … la notte … i chilometri … il codice della strada …”. Quindi in buca anche il piano di riserva rimase la telefonata in Germania. Il titolare, nostra ultima spiaggia, si incazzò come una iena e anzi un poco di più. In realtà gli improperi che riuscimmo a comprendere erano più bramiti d’orso bruno che digrignar di iena maculata. Da quello che riuscimmo a comprendere quel viaggio era uno dei primi organizzato direttamente dalla filiale italiana. L’organizzazione tedesca era stata al solito precisa e puntuale mentre quella italiana era stata al solito approssimativa e raffazzonata. A parte il danno materiale delle prenotazioni non rimborsabili era l’immagine della società e la faccia del presidente che era in ballo. Almeno questo ci parse d’intendere in tutte quelle urla di “homo incazzatus.

Quindi con la coda tra le gambe ci prendemmo un bel caffè doppio.

Al bar dell’aeroporto il nostro anfitrione ci raccontò, per sommi capi, la conversazione con la Germania. Demandò tutte le colpe a quella maledetta coda imprevista e imprevedibile. I due altri tentativi li conoscevamo. Non ci rimaneva altro che chiamare il nostro conducente cui che era stato chiesto di aspettare fuor dell’ingresso. E andare mesti e, sotto sotto, un pochino anzi molto arrabbiati verso casa.

Il viaggio di ritorno fu lungo e noioso.

Partimmo alle otto di sera e arrivammo al parcheggio poco dopo le una del giorno dopo. Non ricordo grandi discussioni e neanche giocate di carte o battute. Ognuno se ne stava per conto proprio col libro in mano facendo finta di leggere ma in realtà rimuginando sui fatti occorsi. Durante la sosta all’autogrill l’organizzatore della gita aziendale ci fece omaggio della cena al self service. Rammento bene che  in quell’occasione, mentre ci abboffavamo di “pasta scotta e fettina panata con insalata verde e vino in bottiglietta col tappo a vite”, il capo gita fissò per sommi capi una replica del viaggio da li e pochi mesi.

Non credo che nessuno credé alla sparata.

Anzi non ricordo di averlo più visto in giro, a ragionar di luci e illuminazione di piazze, da quel giorno. Ricordo invece che alcune settimane dopo ebbi occasione di vedere alcuni dei gitanti, tutti ancora col dente avvelenato per la visita mancata. In quell’occasione stilammo una classifica su alcune sue possibili, future, futuribili e auspicabili ipotesi d’impiego. Tre in particolare mi segnai sul biglietto che ho trovato proprio stasera scartabellando alla ricerca di info su quel viaggio. Le copio di seguito così come leggo: “1) parcheggiatore abusivo su strette strade alberate, 2) venditore di wurstel freddi e crauti scotti , 3) taglia legna senza scure“.

Tutti quanti nella foresta nera.


Una volta si doveva visitare una fitta Selva e un moderno quartiere.  Si son visti in cartolina.
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23/04/20

La compagnia



La compagnia | 2005

Si stava facendo tardi.



Tardissimo.

Come al solito il gruppo era stato all’altezza della situazione e degli impegni. Ma sempre e perennemente in ritardo. Arnolfo stava ancora disegnando e cambiando; di nuovo; i disegni delle facciate nel mentre che Leonardo montava il modello in cipresso scala uno a duecento. Meno male che c’era Caterina che; impavida e sicura; sfornava a tutto spiano dettagli di panche e pavimenti, cornicioni e lesene, luminarie e frontoni. E poi lo Scheggia che riusciva a far girare il deposito sottoterra delle carrozze. Inoltre devo fare un plauso ai ragazzi collaboratori che stavolta erano stati scelti proprio bene.

Al bacio direi.

Ma ora bando alle chiacchiere che c’è da confezionare il pacco del progetto finito e rappresentato. Le idee se ne stanno ormai ferme e fissate sui fogli. Riga e squadra e compasso. Inchiostro di china per le linee e carboncino per le sfumature su bella carta pergamena tirata a mano. La compagnia aveva ormai partecipato a molti concorsi. E in tutti c’era l’usanza di consegnare i disegni arrotolati e fissati ai bordi con bolli di ceralacca.

La novità di questo era la mostra .

Il bando di gara prevedeva infatti l’esposizione dei progetti e dei modelli sotto la Loggia de’ Lanzi perché il popolo tutto potesse partecipare alla scelta di quello migliore e più appropriato al luogo. E allora c’era bisogno di disegni fissati su assi di pioppo maschiettate. La colla era stata preparata fortunatamente la sera prima.

Ora bisognava preparare il pacco.

Il maestro chiamò gli allievi occupati alle solite finiture dell’ultima ora: “… ragazzi basta. Quello che s’è fatto s’è fatto … ‘gniamo che l’ora della consegna si avvicina.” E Arnolfo: “… aspetta un minuto che cambio ‘sta riga e cancello quest’altra”. E il capogruppo: “… te tu sei sempre il solito Di Cambio. Sempre in ritardo. Sempre a finire all’ultimo tuffo. Basta che ora si deve fare il pacco e correre a consegnare. Ora si incolla”. E ancora “… e tu Caterina l’ hai comprata la carta da pacchi?” E lei: “… si maestro e del tipo che volevi tu. Quella marroncino chiara. E poi ho preso anche del cartone spesso per proteggere gli angoli delle tavole”. “Brava …” – fece il capoccia nel mentre che strappava da sotto le mani di Arnolfo la tavola delle vedute prospettiche – e poi: “… e tu Scheggia comincia a distendere la colla sulle tavole mentre Leonardo incolla i disegni”. Il gruppo si mise velocemente all’opera e in quattro e quattr’otto incollò le tavole, sistemò i fogli con lo scritto, appoggiò il modello e preparò il pacco.

Ora mancava da scrivere il destinatario e, in basso a sinistra, il motto scelto dalla compagnia.

L’operazione richiedeva mano ferma e bella calligrafia e allora il compito fu affidato a all’allievo con il pinzetto, quello basso e simpatico, che adempì celermente alla bisogna. Il pacco era pronto. Adesso c’era da schizzare fuori dalla bottega e recarsi al monastero del frate nel palazzo d’angolo accanto a quello Vecchio. L’allievo con la barba, quello alto e forte, si offrì volontario insieme alla ragazza con gli occhiali che viene dall’Oriente: “… si prende il cavallo o il calesse”? “Macché cavallo, quale calesse …” – rispose il capogruppo – “… ci vò a piedi e ci vado da solo che questi ultimi minuti mi servono per riflettere e meditare su quanto si è prodotto.” Gli astanti; interdetti; fecero il segno universale del … vaaaa bene … e mestamente chinarono il capo all’ordine perentorio del capo.

In realtà il nostro eroe non aveva bisogno di star solo per pensare sul progetto che ben conosceva.

In verità voleva fare quattro passi a piedi per smaltire i postumi della cena, con abbondanti libagioni, della sera prima. C’era stata proprio ieri sera; il giorno prima del solstizio d’estate; la festa per la copertura dell’ultima sua opera. C’erano tutti: i committenti, le autorità e gli operai. Muratori e scalpellini; fabbri e marmisti; falegnami e pittori, lattonieri e fornaciai; tecnici e dirigenti. Si era inaugurata la Cupola: “Struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con (la) sua ombra tutti e’ popoli toscani”. Il peposo alla fornacina l’aveva fatta da padrone insieme al rosso delle vicine colline di Fiesole. Poi per finire si erano messi a chiacchierare di politica e dell’ultima consultazione popolare, in compagnia di cantucci e vinsanto, fin oltre la mezzanotte.

E subito dopo ad aiutare i ragazzi giù alla bottega per finire il progetto.

Loro se n’erano andati a dormire alle quattro del mattino e lui si era disteso, a cercar riposo, sopra alla panca d’abete dell’ingresso per alcune ore sul far del giorno. Ma era stata dura: un continuo rivoltarsi, a cercare la giusta posizione, fino all’arrivo degli allievi. E ancora si sentiva alquanto aggravato nonostante i quattro passi all’ombra dei vicoli intorno alla Cattedrale della Vergine del fiore.

Il pacco era pesante e continuava a scivolargli dalle mani.

Meno male che Caterina aveva pensato agli angoli di cartone. Ma adesso era vicino alla meta. Svoltò in fretta l’angolo e imbucò il portone di quercia del monastero di fra’ Guittone d’Arezzo. Salì a due a due i gradini della scala di pietra serena e, trafelato, si trovò di fronte alla porta della consegna. E nel mentre che apriva l’uscio il  batacchio della campana di bronzo della Badia si mosse una sola volta.

Dong! Le una dopo mezzogiorno.

Preciso entro il tempo massimo concesso dal bando. Messere Filippo Brunelleschi; architettore della compagnia; consegnò il pacco.


Questa volta vi accompagno in un giorno, di un mese di un anno, imprecisati ma comunque nel millequattrocento, quasi mille e cinque”.
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16/04/20

Borghi



Borghi | 2003

Il giorno prima di natale è freddo.

Tardo pomeriggio appena nevicato. Vado al bar sotto lo studio e incontro un amico conosciuto come studente. E’ ancora studente. E’ ancora amico e adesso si è messo in politica. Assessore a qualcosa di un amministrazione figlia delle mani pulite in un comune qui vicino. Ci raccontiamo i trascorsi. Rivanghiamo il passato e poi ci confidiamo le speranze reciproche. La politica per la gente è la sua aspettativa mentre io da grande voglio fare l’architetto. Ci si saluta con la promessa di prossimi incontri che tanto sappiamo difficilmente avverranno.

Ma la vita è strana.

Dormo poco la notte  e penso. Molto. Ricordo una manifestazione, in una città del Veneto,  ha cui ho partecipato alcuni anni prima con un oggetto artigianale in terracotta. Lucignolo è il suo nome e si tratta di un centro tavola illuminante. Il titolo della mostra aveva a che fare con lo spirito del luogo o roba simile. Riscoperta di valori legati al territorio piuttosto che ricerca tout-court del nuovo per il nuovo. La lampadina di Archimede; il buon amico di Paperino; si accende improvvisamente quando mi viene in mente che anche io abito un territorio pieno di spiriti e di luoghi. Mi viene in mente una vecchia ricerca sulla cultura materiale fuori della città; extra urbana era definita; promossa dal mio Maestro ai tempi degli studi. Perché non provare a far qualcosa. Oggetti da casa legati al passato rurale di questa parte di Toscana rivisitati secondo i gusti dell’abitare contemporaneo. Però ancora non ho il principe. Proviamo a cercarlo.

La ricerca è breve.

Un borgo intero è un intero cantiere e si mormora di riattamento di botteghe e rimessa in pristino di antichi mestieri. Il paese si trova nei territori amministrati dal politico incontrato al bar. Ora ho la possibilità di provare a cercare il principe. Il telefono è sul tavolo. Il numero è nell’agenda nera della tasca sinistra. Prendo appuntamento con l’amico. L’idea piace. Si prova il contatto con il principe che accetta l’incontro. Le idee, nel frattempo si affastellano e si sovrappongono. Si potrebbe proporre il progetto di oggetti per la casa; contemporanei ma densi di memorie, attuali ma che affondino le radici nel passato rurale. Si potrebbe poi pensare al progetto di case a tema come l’abitazione del fabbro, del maniscalco, del fornaio e chi più ne ha più ne metta. Si potrebbe osare sulle orme di Icaro e pensare al progetto di un nuovo borgo in un luogo qui vicino già destinato a generico sviluppo turistico.

Si potrebbe?

Si prova. Si prova  e si propone al mecenate tutto ciò. Lo si propone nel corso di alcuni incontri in villa e in fabbrica. Si propone un sorta di concorso a inviti dove ai 10 architetti italiani invitati, selezionati da una rosa di 25, si richiede l’oggetto, la casa e il borgo.  Il collegamento alla frase memorizzata: “… dal cucchiaio … alla città …” è facile. I professionisti, anche quelli di fama, sono d’accordo per non percepire compenso alcuno. Chiaramente il progetto migliore ha buone probabilità di murare il borgo. Grande! Scordavo il racconto in forma di novella che collega le varie scale dell’intervento e che, da alcuni anni, mi vien sempre voglia di metter in mezzo. Lo propongo. Tutto questo da presentare alla prossima mostra autunnale nella città di Romeo e Giulietta. Nei vari incontri si sviscerano i problemi e si ricercano le soluzioni. Si decidono le strategie comuni e ci si fa un idea dei costi da sopportare divisi tra l’amministrazione e il mecenate. Pare che l’iniziativa possa procedere. Tralascio il resoconto della corrispondenza alla ricerca degli architetti e avanzo veloce fino al giorno dell’ultimo incontro a casa del principe. Mancano pochi giorni alla pasqua e la primavera si sta avvicinando. L’inverno passato è stato particolarmente mite e le rondini stanno tornando a costruire i loro rifugi.

Ma nel piazzale della villa c’è una macchina in più.

E’ quella del professionista di fiducia del principe. E vi assicuro che non era né Sangallo né Alberti. Il meeting procede a rilento. C’è da raccontare tutta la storia per l’ennesima volta al nuovo arrivato che mi pare essere il gran ciambellano di una corte uscita dai racconti di Brancaleone. Serioso e noioso. Fintamente attento e con visibili sbadigli mentali. Se ne esce sempre con domande assolutamente non pertinenti e si intende; lontano un chilometro; il suo obiettivo. Affondare il progetto. Ci lasciamo confusi con la vaga promessa, da parte del principe, di un ultimo incontro risolutivo. Incontro si o incontro no?

A voi la fine del racconto


Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non ha pensato di disegnare il paese dei balocchi.
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09/04/20

Il cartografo




Il cartografo | 2003-04

Tornava a casa. Finalmente.

Era partito con la prima ondata nel primo dopoguerra. Per mesi la mamma gli aveva raccontato; stregata dal biondo soldato della libertà che gli aveva promesso casa e affetto; del fantastico paese che avrebbero vissuto. Delle sue sterminate pianure e dei suoi deserti. Dei suoi antichi abitanti nomadi e dei suoi animali saltatori. Della sua nuova vita. Sapeva con sicurezza; per aver sbirciato un foglietto spiegazzato nascosto in colombaia; che il babbo non sarebbe più tornato. I suoi poveri resti raccolti in una cassa di legno nelle sperdute regioni di un altro paese. La campagna russa era stata una disfatta per l’esercito dalla bandiera dei tre colori. La sciagurata politica del regime l’aveva obbligato alla partenza e alla guerra contro i rossi. L’inesistente macchina bellica aveva disfatto il suo battaglione. I russi e il generale inverno avevano fatto il resto.

Era morto.

Di lui rimaneva solo la medaglia al valore “… per atto eroico …” che la mamma ogni tanto sbirciava di nascosto. La casa lassù sulla collina apparteneva al padrone. Il pollaio e suoi abitanti non erano più. La mucca l’avevano finita quei simpatici amici tedeschi di passaggio. I parenti? Morti o dispersi o occupati, come loro, alla sopravvivenza quotidiana. Non avevano altro. Bisognava partire. Le poche cose raccattate in fretta stavano dentro la valigia di cartone e nella sacca di tela blu. Nella nuova terra li aspettava il Biondo.

Partirono.
Il viaggio fino alla città del mare fu un’odissea di sette giorni. In treno per piccoli tratti. Alla pedona per altri fino a che un’anima buona; nelle sembianze di un commerciante di borsa nera; non li salì sul cassone del malandato camion per il porto. Colline e pianure, paesi e città, gente cattiva e gente gentile. Tutto nuovo per un ragazzo di anni tredici mai uscito dalla valle lungo il fiume dove era nato. E poi il mare. E poi la nave. E poi il viaggio in piroscafo. Tutto nuovo. Tutto una scoperta. Fino al paese dei canguri. Fino all’altra parte della terra.

Fino alla fine del mondo.

Fino all’Australia. Ma Job, il soldato della libertà, non era in loro attesa. Al porto nessuno li aspettava. Job, come scoprirono alcuni anni dopo, era un felice padre di quattro biondi marmocchi. Teneva moglie bionda e famiglia numerosa e coltivava una sterminata fattoria. Si arrangiarono alla meglio nei primi giorni fino a che la mamma non trovò lavoro come lavandaia e lui si impiegò come manovale in un cantiere edile. Intanto la sera studiava.

Studiava la nuova lingua e leggeva.

Leggeva tutto quello che gli capitava in mano. Giornali e riviste, libri e dizionari. Lo affascinavano soprattutto le mappe. Le carte del nuovo paese e degli altri continenti; delle campagne e delle città; dei monti e dei fiumi. Scoprì i colori e il disegno a mano. Disegnava continuamente e di tutto. Poi scoprì il disegno tecnico e la topografia e vi si applicò fino in fondo. Strumenti di disegno e di misura: riga e squadra; compasso e regolo matematico; paline e fettuccia; squadro e tacheometro. Terminò gli studi e si impiegò presso l’Istituto Geografico.

Iniziò a disegnare carte e mappe.

Prima con rilievi strumentali da terra. Poi interpretando le foto eseguite dall’alto. Foto fatte dall’aeroplano. La macchina volante segue un corridoio predeterminato sopra ad un predeterminato territorio. La macchina fotografica esegue predeterminati scatti in successione. Si fissano dei punti di riferimento certi a terra. Si sviluppa la pellicola e si fissano le immagini. Pantografi e strumenti manuali; occhio buono e mente sveglia; capacità interpretative e tecnica grafica.

Questo è il suo mestiere.

Diventa bravo. Il migliore. Lo promuovono fino al vertice. Diventa direttore generale dell’Istituto. Realizza il sogno. Incontra e sposa una bruna emigrante arrivata nel mondo nuovo alcuni anni dopo la prima ondata. Emilia Belli, toscana verace, porta con sé gli odori e i sapori della sua terra. Insieme ricordano l’infanzia e si appassionano alla storia dei loro luoghi. Per diletto inizia a farsi spedire, in maniera periodica, carte e cartoline; viste e vedute; libri e riviste, foto aeree e aerofotogrammetrie della sua valle. Ne diventa inconsapevolmente un distaccato e profondo conoscitore.

Ne segue le trasformazioni urbane per cinquant’anni.

“La conca dell’Arno con le sue colline che piegano incuneate tra le gobbe del Pratomagno e quelle dei monti del Chianti è uno dei tanti lembi di Toscana pregni di storia e di patrimoni artistici prestigiosi. Intensamente popolata e ricca di antichi abitati conserva numerose vestigia architettoniche e strutture urbanistiche esemplari che palesano i segni di gloriose civiltà.”  (1)

Questo è il suo luogo.

Quando è partito c’erano tre paesi lungo il fiume; alcune strade e ponti collegavano i vertici del triangolo formato dai tre insediamenti e tagliato dal fiume. Fuori la campagna; dentro il triangolo anche. Guardiamolo insieme. (2)
Terranuova battezzata dal Poggio in destra del fiume. Un rettangolo cinto di mura e torri con la piazza quadrata al centro nelle vicinanze del Ciuffenna. Il fortino costruito nel trecento dai Fiorentini è un cumulo di macerie lasciate dalle truppe Tedesche in precipitosa ritirata. La ricostruzione della via principale è appena iniziata. Fuori della cinta poche case e poco altro. Economia rurale e un’antica fiera del bestiame la quarta settimana settembrina.
Montevarchi lungo la strada che conduce verso Arezzo quando incrocia quella che proviene da Siena. Ellittica sede di un antico mercatale. L’ellisse si allunga verso l’esterno lungo la ferrovia e lungo la via principale. Opifici ottocenteschi e un palazzo del podestà in mattoni stirano le direttrici del, già iniziato, ampliamento urbano. La città dei cappelli, dei polli e dei vivai.
San Giovanni che ha dato i natali al fratello dello Scheggia. Il rettangolo di Arnolfo con la piazza passante e il municipio al centro è ormai allungato fuori delle mura costruite dalla città del giglio. Il paese, stretto tra il poggio della Ciulla e l’Arno, si allunga verso Firenze con la grande fonderia e verso Arezzo lungo la ferrovia. La città delle lotte operaie e dell’industria pesante.

Fuori dei paesi la campagna. Dentro anche.

Lotte intestine e campanilismo sui modelli medioevali. Si narra di una partita di calcio tra la squadra bianco/celeste e quella rosso/blu finita a pugni e calci. Si racconta, e qui la vicenda si fa dramma, di un arbitro finito in fonderia.

Ma adesso il nostro protagonista torna a casa.

I figlioli sono oramai sistemati in città dai nomi stranieri e sono loro stessi stranieri. Torna a casa prima che sia troppo tardi. Torna per restare. La compagna della vita se n’è andata anni prima. La salma lo ha preceduto di pochi giorni e lo aspetta, per l’ultimo saluto, nel cimitero dirimpetto alla casa lassù sulla collina.

Volo intercontinentale fino a Roma. Volo privato fino alla Valle lungo il fiume.

Osserva i territori. Come sempre. Con occhi avvezzi a cogliere le caratteristiche dei luoghi dall’alto. Si immagina carte che non potrà delineare. Casali in cima ai poggi; boschetti di lecci; campi di grano; vigne; sentieri e paesi.

La sua terra. (3)

Nella sua testa le immagini diventano foto aeree. Le foto si fissano sul piano e diventano linee. Ferrovie e strade; curve di livello e segni convenzionali; montagne e città. Finalmente è sopra la valle. Chiede cortesemente al pilota vari passaggi lenti. Si vuole gustare il momento. Si vuole disegnare la sua personale carta mentale.

Dall’alto tutto risulta impersonale.

Gli piace questo modo di vedere le cose. Il fiume scorre lento. Di Montevarchi riconosce la sagoma ellittica del centro. Terranuova è laggiù vicino al Ciuffenna. E poi San Giovanni. Il paese che ha dato le ultime cinque cifre al suo codice fiscale: D901X.

Il triangolo tra i tre insediamenti è quasi intermente urbanizzato.

Solo al centro compare una chiazza di terreno libero. Un enorme, tozzo e compattto, edificio marrone e bianco si erge solitario lungo il fiume. E’ il nuovo ospedale unico. Costruito in una zona soggetta a frequenti alluvioni. Il posto adatto per questa gente accidiosa e dedita alla cultura dei campanili. Tagliato dai confini comunali così che si nasce in un comune e si muore nell’altro. La posizione è certo frutto di sapienti giochi politici. Ma ormai il danno è fatto. Si augura solo che il luogo diventi una sorta di centro di servizi comuni per quella che nei prossimi anni diventerà sicuramente un’unica città. Ma adesso basta con i pensieri critici. Le informazioni sono registrate nella testa. La carta è disegnata. Ora si va ad Arezzo.

Una grande esposizione lo attende.

Il genio di Leonardo (da Vinci) si mette in mostra. Mostra le carte dei territori toscani dal 1455 alla fine del quattrocento.  Mostra gli strumenti di misura e di indagine. Carte con inchiostri colorati su spessa carta pergamena. Niente a che fare con le impersonali carte digitali di questo inizio di secolo. Niente a che fare con bit e file; con dischetti e cidiroom. La mostra è grandiosa. Il nostro eroe, accompagnato dalla bionda nipote Jennifer, la visita d’un fiato. E poi ritorna sulle carte. E poi studia i sentieri e i fiumi e le città. E poi esce nell’atrio di ingresso e si avvicina al quaderno delle firme.

E poi scrive: “Arezzo, 21-07-2003, Giovanni Marchi, cartografo, torna a casa”.


I protagonisti della storia di seguito (indegnamente) delineata sono stati alla “fine del mondo”. Dove di sicuro non andremo noi, nessuno escluso, nei prossimi mesi. Faccina che sorride …. Effetto sfocato … ciao.
instagram, massimogennari1 |  facebook e ogni sette giorni su www.massimogennari.blogspot.com | Massimo Gennari  | Buoni giorni

03/04/20


A colori | 2020

Il vecchio Gelso è ancora li.

C’è da un paio di secoli. Lo frequento dal tempo degli studi d’Architettura. Alla fine dei settanta segnava i margini di una grande aia di un’altrettanto maestosa Leopoldina. Due piani; 18x18, altezza quasi 8 che con la colombaia al centro toccava i 15; con 9 stanze a piano di cui una occupata dalla scala avvitata al forno e recinta dal ballatoio con gli archi ogivali. A quel tempo ero infatuato della casa che avevo in locazione insieme agli amici del paese per innocenti intrattenimenti danzanti e altro. L’amore per quei muri era tanto potente che, in un impeto artistico mai più coltivato, ci lasciai un murales copiato par pari dal logotipo di una celebre band di quel periodo.

Credo sia ancora li.

Il casamento invece, assalito dal tempo e dall’incuria degli uomini, è crollato miseramente su se stesso. La vegetazione l’ha invaso e vinto. Quasi come è successo con la Pandemia dell’anno scorso quando prima han dato colpa ai gialli, poi ai bianchi, ai neri, ai rossi e via con l’arcobaleno. Forse è stata proprio questa successione di colori che l’ha sconfitta. Spazzata sotto terra come la grotta scavata sotto il cortile. Quella che un tempo serviva a nascondere i salumi dal padrone e dopo i partigiani dai tedeschi. Un cubo voltato a mattoni proprio sotto le radici dell’albero secolare.

Spero sia ancora li.

Ci voglio rifondare la professione. Penso ad un posto di lavoro per giovani e non. I modelli cui attingere sono molteplici. Ma per questo c’è tempo. Adesso progetto il luogo. Mi seggo per terra appoggiato al tronco. Cavo dal saccapane il quaderno nero A5  e la penna punta fine. Disegno una catasta di rovi e pietre, un aia intorno e sui bordi piante di Gelso. Ma tante: Alba, Nigra, Rubra e anche Notabilis, Australis, Japonica, Mongolica, Insignis e via. Per sconfiggere i pregiudizi.

Tutte le varietà li.

Dopo di ché il Laboratorio. Tre piani, per dirla con PDF, “vincoli (ma) sparpagliati”: la grotta, il piano terra aderente al fusto inglobandolo in punta di piedi e la casa sui rami. Pietra, legno e vetro a chilometro quasi zero. Una fattoria del progetto cablata, virtuale e molto fisica ma non solo. Una sorta di bottega del quattrocento dove tutti gli attori stanno alla pari. Dove l’estetica si sposi all’etica. Creta, Www e Lapis. E poi a seguire, secondo il correre delle stagioni e il passo delle piantumazioni, le aggiunte a delineare un volume pieno d’aria pari al cortile degli Uffizi: 17,50x156,50x23,50.

Li, proprio li. A colori.


In ritardo ma con un prodotto fresco di ieri che ragiona di Gelsi, Leopoldine e Uffici. Si lo so non c’incastrano per niente. Ma il periodo è questo; virus compresi. Buona lettura.

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