Silva nigra | 2018
Di normale son
puntuale.
Anzi di regola
sono in anticipo di una decina di minuti almeno. Giusto il tempo per una
svampata. Di quella buona. Di quella della
cicca presa dal pacchetto rosso e bianco. E anch’oggi non mi smentisco.
Alle tredici e quindici parcheggio l’automobile nel piazzale. Sono nei pressi
della stazione di servizio Agip in vicinanza all’uscita di Firenze nord lungo
l’Autostrada del sole. Accendo la prescritta e aspetto.
Entro l’ora
fissata arrivano gli altri compagni di viaggio.
Con due di loro
sto lavorando al progetto per certi spazi pubblici e per un fabbricato direzionale
a Volterra. Con piacere ne riconosco altri due che mi son stati studenti ai
tempi delle mie collaborazioni universitarie. Rammento che gli sono stato
relatore esterno per la tesi che si occupava del riuso di un’area, un tempo
adibita ad Ospedale, a ridosso del centro storico di Montevarchi.
Saluto i soci e
abbraccio i due giovani che non vedevo da tempo.
Si fanno poi le
presentazioni con gli altri viaggiatori e ci si conta. Siamo in sedici
provenienti da parti diverse della toscana. Ci ha radunati in questo luogo
ameno, a quest’ora del giorno del Signore, il consulente di una società tedesca
di illuminazione molto nota e alla moda tra gli addetti ai lavori. Il nome;
quattro lettere comincia con “H” e finisce con “s”; è il medesimo, credo solo per
omonimia, di un gerarca nazista processato nel quarantasei a Norimberga.
Con i quattro
caratteri finiscono le uguaglianze.
L’azienda che
andiamo a visitare si occupa, dal secondo dopoguerra, di illuminamento per
spazi pubblici e consequenziali producendo manufatti di buon disegno con
materiali di elevata qualità. Insomma un impresa che produce oggetti
contemporanei molto graditi agli architetti. Mi era capitato di conoscerla anni
prima in occasione del progetto per la piazza esagona di Grammichele.
E in
quell’occasione avevo incontrato il nostro capo gita.
Che;
gentilissimo; era sempre accompagnato, durante i tre o quattro incontri avuti,
da riviste e cataloghi talmente belli che somigliavano più a libri che a
prodotti di informativa commerciale. Senza girarci troppo intorno dichiaro che
il prodotto mi aveva conquistato perché “…
la forma segue la funzione” e via dicendo. Al tempo rammento che alcuni
lampioni servirono da spunto al disegno dello spazio urbano rivisitato dal
nostro gruppo. Dopo ci incontrammo in altre occasioni fino a che; due mesi
prima; mi invitò al viaggio.
Per questo
eravamo li quella domenica di fine ottobre.
In pullman fino
a Orio al Serio e poi in aereo verso Stoccarda dove ci aspettavano per le 19,30
con la birra di benvenuto. L’automezzo partì, come convenuto, alle 13,30.
Ricordo che subito dopo che fummo partiti mi avvicinai al capo gruppo. Sapevo
del volo per le 18,30 e avevo fatto due conti. Da casello A1 Firenze nord all’aeroporto sono 330/340 chilometri e ci
vogliono circa 3 ore e mezzo. Con strada libera e senza intoppi. Un ora prima
dell’imbarco c’è il checkin. Quindi il periodo di comporto si conta in 20 barra
30 minuti al massimo. Visto la solita mania di puntualità; o meglio la paura di
far tardi; che mi affligge da sempre contestai con nonchalance l’orario di partenza.
Lo feci con una
battuta(ccia) veramente ignobile tipo: “Siamo
in anticipo?”.
Evidentemente la
freddura non fu compresa e anzi era talmente una ciofeca che nessuno la prese
in considerazione per quello che voleva essere: apprensione vera per un ritardo
possibile. Comunque sia né il capo reparto e tantomeno i compagni di ventura si
interessarono alle mie paturnie. In parole povere nessuno considerò nessuno e
soprattutto il vostro raccontatore. Ognuno si ricaccio nell’occupazione
preferita: ragionare di architettura nelle sue molteplici declinazioni tipo
design, spazio urbano, verde pubblico e via col liscio lungo quella strada.
Insomma la solita rumba che ballano di
solito gli architetti quando son costretti
in spazi angusti.
A parte i soliti
cinque disfattisti che si cimentarono in una bisca alle carte.
Per parte mia
profittai per ragionare con i due amici di Siena intenti alla lettura. Uno di
una monografia Electa su Peter Zumthor e l’altro di un volumetto di critica
politica “La Casta di Siena”. Quello che
ci dicemmo resta per noi. Così come i discorsi e ragionamenti con gli altri
occupanti la corriera. Intanto l’autista faceva il suo mestiere; dopo aver affrontato
e sconfitto il valico dell’Appennino, ci portò a Bologna e imboccò la direzione
verso la meta.
Poi tra Modena e
Parma successe.
Niente guasti e
manco forature. No terremoti o eventi sismici. Niente di tutto quello che, di
brutto, ci si possa immaginare quando siamo in viaggio. Neanche l’attraversamento
di un branco di “gnu”. Solo una modesta e improvvisa coda. Ma non una coda
normale. Piuttosto una di quelle definite ad elastico. Dove ti fermi di botto e
poi riparti per alcune decine di metri. Poi riparti e di nuovo ti blocchi.
Magari provi l’altra corsia perché il camion dei deperibili va come una
scheggia. Ma niente. Appena ci vai tu ti fermi di nuovo. Ad elastico appunto.
Da quale motivo del cappero, ti domandi, dipende?
Magari son
lavori in corso o sorpasso mezzi pesanti o incidente dopo Parma.
Come sia il
nostro pulmino da trenta posti munito di tutti i comfort: sedili reclinabili
con accessori, impianto di climatizzazione, autoradio con mangianastri e
lettore cd, TV con impianto VHS, microfono, frigo, navigatore satellitare,
frenata in abs, cinture di sicurezza su ogni sedile, porta elettrica retro
traslante, toilette a bordo, ampio bagagliaio posteriore e laterale, ricchi
premi e cotillon; era bloccato.
In luogo
imprecisato poco dopo l’uscita di Reggio Emilia.
Il tira e molla
continuava con estenuante lentezza. E intanto l’orologio del conducente segnava
le quattro e trentacinque pm. Col piffero che si facevano i restanti 170
chilometri fino all’aeroporto in poco meno di un’ora. E infatti mezz’ora dopo
eravamo solo nelle vicinanze dell’uscita di Fidenza. La coda era sempre la
stessa e il serpentone procedeva sempre a singhiozzo.
L’incazzatura
dei viaggiatori era nell’aria. Si percepiva dalle sottili frasi affettate come
lame sul culatello. Qualcuno, io fra questi, si mise a far due conti e il
risultato fu: “ … forse con un miracolo
ce la facciamo … anche se non ci credo”. Il nostro capo gita fece un paio
di telefonate alla compagnia aerea per informarli del nostro ritardo sperando
in un ritardo dell’aeromobile, un posticipo di partenza o cose simili. Dalla
faccia che fece fu evidente il diniego.
Poi
all’improvviso com’era arrivata la coda se n’andò.
Senza peraltro
mai aver saputo le cause del fatto ci mettemmo in moto. Finalmente con una
decente velocità di crociera. Anzi il motore Mercedes fu spinto ben oltre il
lecito del codice della strada. Nonostante ciò alle 18 e 18 eravamo ancora
distanti una trentina di chilometri dal traguardo. Le chiamate della nostra
guida si fecero insistenti. Chiedevano senza mezzi termini di interrompere le
fasi della partenza visto che stavano arrivando più di venti passeggeri.
Rammento che ci rincuorava sostenendo che di sicuro un aereo da ottanta posti
non poteva permettersi di partire senza di noi che contavamo più di un quarto
del carico. Dimenticava il meschino che i biglietto oramai erano stati pagati e
ben difficilmente sarebbero stati rimborsati. Dallo sconforto con cui
raccontava i risultati delle chiamate s’intuiva però che la torre di controllo
e il personale tutto non lo prendeva sul serio. Anzi con tutta probabilità
accelerarono le procedure di imbarco.
Infatti appena
l’aerostazione si palesò alla vista il nostro velivolo fece ciao.
All’ora
stabilita salutò con la manina aperta e si diresse verso Stoccarda nelle cui
vicinanze c’era la fabbrica che dovevamo visitare. In realtà il programma era
molto più ampio e frastagliato. La tre giorni, in ordine sparso, prevedeva:
visita allo stabilimento e ai reparti sviluppo e ricerca, laboratorio con prove
illuminotecniche, escursione naturalistica nei pressi della vicina foresta nera
con sosta in baita tradizionale e degustazione di prodotti tipici. E per ultimo
il pellegrinaggio al villaggio bianco. Per i non addetti il Weissenhof di
Stoccarda è il quartiere, ancora in piedi per circa la metà degli edifici,
costruito nel 1927 in occasione dell'esposizione organizzata dal Deutscher
Werkbund. È stato una sorta di vetrina internazionale per mostrare le
innovazioni, architettoniche e sociali, proposte dal Movimento moderno. Per
quanto mi riguarda è il Quartiere”.
Il primo che ho studiato e amato.
Quello della
casa doppia di Le Corbusier.
Provo a
raccontare, in breve, la dislocazione degli spazi: a terra locali di servizio,
pilastrata arretrata rispetto al fronte e scala al superiore; al primo stretto
corridoio di disimpegno su cui si aprono molteplici porte di accesso alla sala
principale, il salone a giorno presenta un arredo minimo con letti a scomparsa
per lasciare libera la fantasia dell’abitare; sul tetto giardino uno studio
biblioteca. Una bomba. Almeno così la ricordo dal tempo degli studi quando
avevo tentato, senza successo, di andarla a trovare.
La visita al
Weißenhofsiedlung è la ragione del mio viaggio in queste terre.
Intanto la
diligenza a motore ci accompagna di
fronte alla sala partenze. Il più veloce del gruppo, tal Piè Veloce di nome e di fatto, si lancia verso gli uffici operativi
dell’aeroscalo. L’idea è di supplicare i posti per il prossimo volo utile che
però scopriamo essere domani l’altro sera stessa ora. E quindi ciccia. In quei
momenti convulsi un comitato costituito all’occasione tenta tre strade
divergenti. La prima è una chiamata al presidente della società ospitante, che
ci aspetta per l’aperitivo di benvenuto, per avvertirlo del ritardo. La seconda
è la richiesta all’autista della corriera della sua disponibilità per un
eventuale viaggio supplementare di circa seicento chilometri e 7/8 ore di guida
nella notte buia e tempestosa visto che da poco piove a temporale con tuoni e fulmini a tutto spiano. La terza è la
ricerca in noleggio di tre pulmini da nove posti o simili.
A seguire in
ordine inverso le risposte.
Pulmini o
automobili di quella capienza non erano disponibili prima di una settimana. Il
conducente dell’autobus ci squadrò come se fossimo marziani e accampò legittime
scuse del tipo “… Stanchezza … la notte …
i chilometri … il codice della strada …”. Quindi in buca anche il piano di
riserva rimase la telefonata in Germania. Il titolare, nostra ultima spiaggia,
si incazzò come una iena e anzi un poco di più. In realtà gli improperi che
riuscimmo a comprendere erano più bramiti d’orso bruno che digrignar di iena
maculata. Da quello che riuscimmo a comprendere quel viaggio era uno dei primi
organizzato direttamente dalla filiale italiana. L’organizzazione tedesca era stata
al solito precisa e puntuale mentre quella italiana era stata al solito
approssimativa e raffazzonata. A parte il danno materiale delle prenotazioni
non rimborsabili era l’immagine della società e la faccia del presidente che
era in ballo. Almeno questo ci parse d’intendere in tutte quelle urla di “homo
incazzatus.
Quindi con la
coda tra le gambe ci prendemmo un bel caffè doppio.
Al bar
dell’aeroporto il nostro anfitrione ci raccontò, per sommi capi, la
conversazione con la Germania. Demandò tutte le colpe a quella maledetta coda
imprevista e imprevedibile. I due altri tentativi li conoscevamo. Non ci
rimaneva altro che chiamare il nostro conducente cui che era stato chiesto di
aspettare fuor dell’ingresso. E andare mesti e, sotto sotto, un pochino anzi
molto arrabbiati verso casa.
Il viaggio di
ritorno fu lungo e noioso.
Partimmo alle
otto di sera e arrivammo al parcheggio poco dopo le una del giorno dopo. Non
ricordo grandi discussioni e neanche giocate di carte o battute. Ognuno se ne
stava per conto proprio col libro in mano facendo finta di leggere ma in realtà
rimuginando sui fatti occorsi. Durante la sosta all’autogrill l’organizzatore
della gita aziendale ci fece omaggio della cena al self service. Rammento bene
che in quell’occasione, mentre ci
abboffavamo di “pasta scotta e fettina
panata con insalata verde e vino in bottiglietta col tappo a vite”, il capo
gita fissò per sommi capi una replica del viaggio da li e pochi mesi.
Non credo che
nessuno credé alla sparata.
Anzi non ricordo
di averlo più visto in giro, a ragionar di luci e illuminazione di piazze, da
quel giorno. Ricordo invece che alcune settimane dopo ebbi occasione di vedere
alcuni dei gitanti, tutti ancora col dente avvelenato per la visita mancata. In
quell’occasione stilammo una classifica su alcune sue possibili, future,
futuribili e auspicabili ipotesi d’impiego. Tre in particolare mi segnai sul
biglietto che ho trovato proprio stasera scartabellando alla ricerca di info su
quel viaggio. Le copio di seguito così come leggo: “1) parcheggiatore abusivo su strette strade alberate, 2) venditore di
wurstel freddi e crauti scotti , 3) taglia legna senza scure“.
Tutti quanti
nella foresta nera.
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