Lettori fissi

30/04/20

Silva nigra



Silva nigra | 2018

Di normale son puntuale.

Anzi di regola sono in anticipo di una decina di minuti almeno. Giusto il tempo per una svampata. Di quella buona. Di quella della  cicca presa dal pacchetto rosso e bianco. E anch’oggi non mi smentisco. Alle tredici e quindici parcheggio l’automobile nel piazzale. Sono nei pressi della stazione di servizio Agip in vicinanza all’uscita di Firenze nord lungo l’Autostrada del sole. Accendo la prescritta e aspetto.

Entro l’ora fissata arrivano gli altri compagni di viaggio.

Con due di loro sto lavorando al progetto per certi spazi pubblici e per un fabbricato direzionale a Volterra. Con piacere ne riconosco altri due che mi son stati studenti ai tempi delle mie collaborazioni universitarie. Rammento che gli sono stato relatore esterno per la tesi che si occupava del riuso di un’area, un tempo adibita ad Ospedale, a ridosso del centro storico di Montevarchi.

Saluto i soci e abbraccio i due giovani che non vedevo da tempo.

Si fanno poi le presentazioni con gli altri viaggiatori e ci si conta. Siamo in sedici provenienti da parti diverse della toscana. Ci ha radunati in questo luogo ameno, a quest’ora del giorno del Signore, il consulente di una società tedesca di illuminazione molto nota e alla moda tra gli addetti ai lavori. Il nome; quattro lettere comincia con “H” e finisce con “s”; è il medesimo, credo solo per omonimia, di un gerarca nazista processato nel quarantasei a Norimberga.

Con i quattro caratteri finiscono le uguaglianze.

L’azienda che andiamo a visitare si occupa, dal secondo dopoguerra, di illuminamento per spazi pubblici e consequenziali producendo manufatti di buon disegno con materiali di elevata qualità. Insomma un impresa che produce oggetti contemporanei molto graditi agli architetti. Mi era capitato di conoscerla anni prima in occasione del progetto per la piazza esagona di Grammichele.

E in quell’occasione avevo incontrato il nostro capo gita.

Che; gentilissimo; era sempre accompagnato, durante i tre o quattro incontri avuti, da riviste e cataloghi talmente belli che somigliavano più a libri che a prodotti di informativa commerciale. Senza girarci troppo intorno dichiaro che il prodotto mi aveva conquistato perché “… la forma segue la funzione” e via dicendo. Al tempo rammento che alcuni lampioni servirono da spunto al disegno dello spazio urbano rivisitato dal nostro gruppo. Dopo ci incontrammo in altre occasioni fino a che; due mesi prima; mi invitò al viaggio.

Per questo eravamo li quella domenica di fine ottobre.

In pullman fino a Orio al Serio e poi in aereo verso Stoccarda dove ci aspettavano per le 19,30 con la birra di benvenuto. L’automezzo partì, come convenuto, alle 13,30. Ricordo che subito dopo che fummo partiti mi avvicinai al capo gruppo. Sapevo del volo per le 18,30 e avevo fatto due conti. Da casello A1 Firenze nord  all’aeroporto sono 330/340 chilometri e ci vogliono circa 3 ore e mezzo. Con strada libera e senza intoppi. Un ora prima dell’imbarco c’è il checkin. Quindi il periodo di comporto si conta in 20 barra 30 minuti al massimo. Visto la solita mania di puntualità; o meglio la paura di far tardi; che mi affligge da sempre contestai con nonchalance l’orario di partenza.

Lo feci con una battuta(ccia) veramente ignobile tipo: “Siamo in anticipo?”.

Evidentemente la freddura non fu compresa e anzi era talmente una ciofeca che nessuno la prese in considerazione per quello che voleva essere: apprensione vera per un ritardo possibile. Comunque sia né il capo reparto e tantomeno i compagni di ventura si interessarono alle mie paturnie. In parole povere nessuno considerò nessuno e soprattutto il vostro raccontatore. Ognuno si ricaccio nell’occupazione preferita: ragionare di architettura nelle sue molteplici declinazioni tipo design, spazio urbano, verde pubblico e via col liscio lungo quella strada. Insomma la solita rumba  che ballano di solito  gli architetti quando son costretti in spazi angusti.

A parte i soliti cinque disfattisti che si cimentarono in una bisca  alle carte.

Per parte mia profittai per ragionare con i due amici di Siena intenti alla lettura. Uno di una monografia Electa su Peter Zumthor e l’altro di un volumetto di critica politica  “La Casta di Siena”. Quello che ci dicemmo resta per noi. Così come i discorsi e ragionamenti con gli altri occupanti la corriera. Intanto l’autista faceva il suo mestiere; dopo aver affrontato e sconfitto il valico dell’Appennino, ci portò a Bologna e imboccò la direzione verso la meta.

Poi tra Modena e Parma successe.

Niente guasti e manco forature. No terremoti o eventi sismici. Niente di tutto quello che, di brutto, ci si possa immaginare quando siamo in viaggio. Neanche l’attraversamento di un branco di “gnu”. Solo una modesta e improvvisa coda. Ma non una coda normale. Piuttosto una di quelle definite ad elastico. Dove ti fermi di botto e poi riparti per alcune decine di metri. Poi riparti e di nuovo ti blocchi. Magari provi l’altra corsia perché il camion dei deperibili va come una scheggia. Ma niente. Appena ci vai tu ti fermi di nuovo. Ad elastico appunto. Da quale motivo del cappero, ti domandi, dipende?

Magari son lavori in corso o sorpasso mezzi pesanti o incidente dopo Parma.

Come sia il nostro pulmino da trenta posti munito di tutti i comfort: sedili reclinabili con accessori, impianto di climatizzazione, autoradio con mangianastri e lettore cd, TV con impianto VHS, microfono, frigo, navigatore satellitare, frenata in abs, cinture di sicurezza su ogni sedile, porta elettrica retro traslante, toilette a bordo, ampio bagagliaio posteriore e laterale, ricchi premi e cotillon; era bloccato.

In luogo imprecisato poco dopo l’uscita di Reggio Emilia.

Il tira e molla continuava con estenuante lentezza. E intanto l’orologio del conducente segnava le quattro e trentacinque pm. Col piffero che si facevano i restanti 170 chilometri fino all’aeroporto in poco meno di un’ora. E infatti mezz’ora dopo eravamo solo nelle vicinanze dell’uscita di Fidenza. La coda era sempre la stessa e il serpentone procedeva sempre a singhiozzo.

L’incazzatura dei viaggiatori era nell’aria. Si percepiva dalle sottili frasi affettate come lame sul culatello. Qualcuno, io fra questi, si mise a far due conti e il risultato fu: “ … forse con un miracolo ce la facciamo … anche se non ci credo”. Il nostro capo gita fece un paio di telefonate alla compagnia aerea per informarli del nostro ritardo sperando in un ritardo dell’aeromobile, un posticipo di partenza o cose simili. Dalla faccia che fece fu evidente il diniego.

Poi all’improvviso com’era arrivata la coda se n’andò.

Senza peraltro mai aver saputo le cause del fatto ci mettemmo in moto. Finalmente con una decente velocità di crociera. Anzi il motore Mercedes fu spinto ben oltre il lecito del codice della strada. Nonostante ciò alle 18 e 18 eravamo ancora distanti una trentina di chilometri dal traguardo. Le chiamate della nostra guida si fecero insistenti. Chiedevano senza mezzi termini di interrompere le fasi della partenza visto che stavano arrivando più di venti passeggeri. Rammento che ci rincuorava sostenendo che di sicuro un aereo da ottanta posti non poteva permettersi di partire senza di noi che contavamo più di un quarto del carico. Dimenticava il meschino che i biglietto oramai erano stati pagati e ben difficilmente sarebbero stati rimborsati. Dallo sconforto con cui raccontava i risultati delle chiamate s’intuiva però che la torre di controllo e il personale tutto non lo prendeva sul serio. Anzi con tutta probabilità accelerarono le procedure di imbarco.

Infatti appena l’aerostazione si palesò alla vista il nostro velivolo fece ciao.

All’ora stabilita salutò con la manina aperta e si diresse verso Stoccarda nelle cui vicinanze c’era la fabbrica che dovevamo visitare. In realtà il programma era molto più ampio e frastagliato. La tre giorni, in ordine sparso, prevedeva: visita allo stabilimento e ai reparti sviluppo e ricerca, laboratorio con prove illuminotecniche, escursione naturalistica nei pressi della vicina foresta nera con sosta in baita tradizionale e degustazione di prodotti tipici. E per ultimo il pellegrinaggio al villaggio bianco. Per i non addetti il Weissenhof di Stoccarda è il quartiere, ancora in piedi per circa la metà degli edifici, costruito nel 1927 in occasione dell'esposizione organizzata dal Deutscher Werkbund. È stato una sorta di vetrina internazionale per mostrare le innovazioni, architettoniche e sociali, proposte dal Movimento moderno. Per quanto mi riguarda è il Quartiere”. Il primo che ho studiato e amato.

Quello della casa doppia di Le Corbusier.

Provo a raccontare, in breve, la dislocazione degli spazi: a terra locali di servizio, pilastrata arretrata rispetto al fronte e scala al superiore; al primo stretto corridoio di disimpegno su cui si aprono molteplici porte di accesso alla sala principale, il salone a giorno presenta un arredo minimo con letti a scomparsa per lasciare libera la fantasia dell’abitare; sul tetto giardino uno studio biblioteca. Una bomba. Almeno così la ricordo dal tempo degli studi quando avevo tentato, senza successo, di andarla a trovare.

La visita al Weißenhofsiedlung è la ragione del mio viaggio in queste terre.

Intanto la diligenza  a motore ci accompagna di fronte alla sala partenze. Il più veloce del gruppo, tal Piè Veloce di nome e di fatto, si lancia verso gli uffici operativi dell’aeroscalo. L’idea è di supplicare i posti per il prossimo volo utile che però scopriamo essere domani l’altro sera stessa ora. E quindi ciccia. In quei momenti convulsi un comitato costituito all’occasione tenta tre strade divergenti. La prima è una chiamata al presidente della società ospitante, che ci aspetta per l’aperitivo di benvenuto, per avvertirlo del ritardo. La seconda è la richiesta all’autista della corriera della sua disponibilità per un eventuale viaggio supplementare di circa seicento chilometri e 7/8 ore di guida nella notte buia e tempestosa visto che da poco piove a temporale con  tuoni e fulmini a tutto spiano. La terza è la ricerca in noleggio di tre pulmini da nove posti o simili.

A seguire in ordine inverso le risposte.

Pulmini o automobili di quella capienza non erano disponibili prima di una settimana. Il conducente dell’autobus ci squadrò come se fossimo marziani e accampò legittime scuse del tipo “… Stanchezza … la notte … i chilometri … il codice della strada …”. Quindi in buca anche il piano di riserva rimase la telefonata in Germania. Il titolare, nostra ultima spiaggia, si incazzò come una iena e anzi un poco di più. In realtà gli improperi che riuscimmo a comprendere erano più bramiti d’orso bruno che digrignar di iena maculata. Da quello che riuscimmo a comprendere quel viaggio era uno dei primi organizzato direttamente dalla filiale italiana. L’organizzazione tedesca era stata al solito precisa e puntuale mentre quella italiana era stata al solito approssimativa e raffazzonata. A parte il danno materiale delle prenotazioni non rimborsabili era l’immagine della società e la faccia del presidente che era in ballo. Almeno questo ci parse d’intendere in tutte quelle urla di “homo incazzatus.

Quindi con la coda tra le gambe ci prendemmo un bel caffè doppio.

Al bar dell’aeroporto il nostro anfitrione ci raccontò, per sommi capi, la conversazione con la Germania. Demandò tutte le colpe a quella maledetta coda imprevista e imprevedibile. I due altri tentativi li conoscevamo. Non ci rimaneva altro che chiamare il nostro conducente cui che era stato chiesto di aspettare fuor dell’ingresso. E andare mesti e, sotto sotto, un pochino anzi molto arrabbiati verso casa.

Il viaggio di ritorno fu lungo e noioso.

Partimmo alle otto di sera e arrivammo al parcheggio poco dopo le una del giorno dopo. Non ricordo grandi discussioni e neanche giocate di carte o battute. Ognuno se ne stava per conto proprio col libro in mano facendo finta di leggere ma in realtà rimuginando sui fatti occorsi. Durante la sosta all’autogrill l’organizzatore della gita aziendale ci fece omaggio della cena al self service. Rammento bene che  in quell’occasione, mentre ci abboffavamo di “pasta scotta e fettina panata con insalata verde e vino in bottiglietta col tappo a vite”, il capo gita fissò per sommi capi una replica del viaggio da li e pochi mesi.

Non credo che nessuno credé alla sparata.

Anzi non ricordo di averlo più visto in giro, a ragionar di luci e illuminazione di piazze, da quel giorno. Ricordo invece che alcune settimane dopo ebbi occasione di vedere alcuni dei gitanti, tutti ancora col dente avvelenato per la visita mancata. In quell’occasione stilammo una classifica su alcune sue possibili, future, futuribili e auspicabili ipotesi d’impiego. Tre in particolare mi segnai sul biglietto che ho trovato proprio stasera scartabellando alla ricerca di info su quel viaggio. Le copio di seguito così come leggo: “1) parcheggiatore abusivo su strette strade alberate, 2) venditore di wurstel freddi e crauti scotti , 3) taglia legna senza scure“.

Tutti quanti nella foresta nera.

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