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Se la casa brucia, 2011 |
Happy feet
Happy
feet | 2007 - 10
Domenica passata
mi son trovato a passare da un mercatino di robe usate. In realtà l’iniziativa
piglia il nome altisonante di Fiera Antiquaria del Valdarno. A quanto si legge
nei volantini, sparsi sul tavolo della direzione sotto le logge del municipio,
e sopra ai grandi totem, piazzati un po’ dovunque, l’evento si ripete ogni
seconda domenica di ogni mese; agosto escluso; dal novantuno. Faccio un conto a
mente. Undici mesi per diciannove anni fa duecentonove. Ci metto una qualche
tara, sempre dovuta al fatto che i miei conteggi senza la calcolatrice
elettronica non tornano mai, e mi caccio in testa un numero tondo. Mi ficco in
memoria il numero due seguito da due zeri. Duecento volte che nella piazza del
paese si svolge questa roba.
E io che abito
li vicino non ci sono mai, nemmeno per sbaglio, capitato. Sono stato diverse
volte a quella di Arezzo che, se non ricordo male, è la prima del’italico
stivale che ha una cadenza mensile regolare dal mese di maggio del sessantotto.
E altre volte ho visitato altre fiere in altri posti vicini e lontani. Ma mai
nel paese che mi ha dato i natali. E se torno alla locandina leggo che l’evento
“ … crea un appuntamento con l’arte, la cultura, la tradizione che … richiama un grande numero di visitatori.
Bancarelle di antiquari con dipinti, mobili e oggetti di tutti i tipi,
animeranno ancora una volta le vie del Centro storico all’interno del quale
verrà allestito anche un mercato dei produttori locali”.
Rispetto a
quella del vicino capoluogo questo mercato è più modesto. Ci mancano la
scenografia della grande piazza e delle straordinarie logge. Ci mancano le
ventimila persone che la visitano ogni volta. Ci mancano le viuzze medievali
con i negozi dei restauratori. Ci mancano anche i negozi di antiquariato di
alto livello che stanno al contorno. Ci resta lo spirito e il gusto della
ricerca del pezzo di storia che sempre si trovano tra la gente che le
frequenta.
E io tra questi.
Cerco qualcosa
per gli anni a venire. Ho bisogno di oggetti da toccare per far scattare la
molla dei ricordi. Son fissato con le robe del passato recente. Di quando il
babbo era piccino. Degli oggetti a cavallo tra il quaranta e il sessanta.
Quelle cose che si trovano nei negozi di rigattiere o nei mercatini delle
pulci. Quegli arnesi che oggi si definiscono di modernariato e una volta
semplicemente “cose vecchie”. Almeno così le definivano i miei genitori quando
tornavo dalla mie esplorazioni giovanili con tutta una serie di paccottiglie
che la mamma provvedeva a nascondere in fondo al più buio recesso del più buio
ripostiglio di casa. E che poi regolarmente erano destinate alla discarica
comunale.
Rammento per
esempio uno spettacolare espositore per la pasta veduto un quarto di secolo, o
poco meno, or sono. Sono andato a visitare uno di ‘sti mercati. Mi pare che fosse
la fiera antiquaria di Arezzo anche se non ci metterei sopra manco una lira.
Sono insieme alla Silvia e si cerca un mobile per la nostra prima casa. Si
cerca qualcosa per la stanza dove si mangia. La stanza di passo tra il salotto
e le camere. Quella senza finestra ma con quattro porte senza infisso . Quella
con il vecchio muro di mattoni a vista dove è appoggiata la nuova cucina di
alluminio. Sul muro opposto ci occorre un mobile per cacciare piatti e
bicchieri e posate e tovaglie. Non ci sono abbastanza denari per quello ultimo
grido (disegnato da quel giovane disegnatore francese con il prenome che inizia
con la “esse” … ndr) che ci piace tanto. E allora si gira per mercati e
negozietti di cianfrusaglie con il proposito di trovare l’occorrente.
E si capita in
quella piazza pendente verso la fontana. Il campo è contornato da edifici
antichi e recenti. C’è per esempio il palazzo del tribunale e il didietro della
chiesa dalle cento colonne. E anche una serie di casette falso medievali
ricostruite e falsificate al tempo del “fascio”. E poi anche un grande e
spettacolare palazzo del cinquecento con un porticato a doppio volume. Il
loggiato ha venti arcate e ventuno pilastri come le lettere dell’alfabeto che
conoscevo da piccino. Il pavimento è composto da grandi lastre di travertino
consunto. Sopra alle lastre ci stanno bancarelle in gran quantità. E persone
anche. La gente e i banchi sciamano e traboccano in piazza. Lo spiazzo;
caratterizzato da una vera colonna della vergogna e da un falso pozzo trecentesco;
è ammattonato e bordato ai lati e nel mezzo da strisce di travertino bianco.
Veramente
grande.
Come grande è la
massa di venditori e oggetti che la colmano all’inverosimile. E dentro ‘sto
alveare di persone e cose ci siamo noi due alla ricerca del nostro modesto
mobiletto. Pigliando spunto dal grande investigatore che faceva da testimonial
per una brillantina ci si veste come lui. Impermeabile bianco a mezza coscia e
capello unto. Del nostro ci si mettono solo due lenti di ingrandimento che, per
decenza, teniamo ben nascoste in tasca. Senza saper niente di legni vecchi,
tecniche di restauro e manco di estetica, siamo dentro ‘sta casbah con le
nostre lenti alla ricerca di tarli. Siamo talmente ingenui da credere che
possano bastare le lenti di Holmes per scoprire le case dei piccoli insetti che
si nutrono del legno. Ci si fida solo dei nostri modesti gusti che si possono
riassumere in due parole: bello o brutto. E frulla e cerca lo si vede. Il
contenitore intendo.
Proprio quello
che si cercava.
Il pezzo giusto
per la nostra magione di tre stanze di metri quadri quarantotto e venticinque
compreso bagno e ripostiglio in cima alle scale a comune. Si tratta di un
mobile espositore per la pasta. È una roba simile a quella che ricordo avevano
alla bottega del paese prima dell’ultimo rifacimento in stile moderno. Quello
era composto da dodici scomparti su tre file. Con il frontalino vetrato e
apribile a vasistas. Tutto bianco e scortecciato con le maniglie di alluminio.
Bellissimo. Questo è composto sedici reparti su quattro file. Ci sono
altrettante maniglie e porticine a vetro con il medesimo sistema di apertura.
Questo è restaurato malamente riportando a legno un oggetto che, probabilmente,
nasce per essere dipinto. Le misure prese con il metro a stecca raccontano:
centonovantacinque per centosettantacinque per quarantaquattro di spessore. Il
venditore ne magnifica le caratteristiche e ci fa notare le finiture e la
finezza del restauro. Noi si sperava di trovare un affare da sistemare a nostra
cura e spese e magari ancora verniciato. Un mobile da portare a casa con poche
lire e restaurare con calma. Si domanda comunque il prezzo e si sbianca alla
cifra richiesta. Duemilioni e novecentomila non trattabili e sull’unghia. Si
accenna una timida trattativa che fa calare la richiesta di quattrocentomila. Ma
non riusciamo ad andare oltre. Due punto cinque seguito da cinque zeri. Sempre
sull’unghia e con il trasporto a nostro carico. Ma la nostra macchina è piccina
e non ha neanche il portabagagli sul tetto. E poi ‘sti denari mica ce li
possiamo permettere. Ci si lascia il cuore ma si torna a casa senza il mobile.
Ma le
chiacchiere stanno a zero.
Passiamo ai
fatti. I fatti sono che gironzolo solitario tra i banchetti della fiera nel
paese di Poggio. Ammazzo il tempo nell’attesa del ritorno della famiglia che si
è lanciata nell’ennesima campagna acquisti primavera-estate presso il
nuovissimo outlet distante una
cinquantina di chilometri. Io sono stato tutto il pomeriggio a fare piccoli
lavoretti di casa. A falciare l’erba per i conigli, a pulire la stalla della mucca e a tinteggiare
la parete dietro l’acquaio. Adesso son qui in attesa che tornino per andare
insieme alla sagra del fagiolo zolfino. Provo il contatto virtuale con il
telefonino. Ma la vocina registrata mi informa che l’utente potrebbe non essere
raggiungibile. Maledico tutta questa tecnologia inutile che non funziona mai
quando serve. Meglio il piccione viaggiatore dei nostri avi. Che almeno lui
partiva e tornava in un tempo certo. Lo so che c’erano tutta una serie di
accidenti naturali tipo: falco, pioggia, bufera o fortunale. C’era in verità
anche la possibilità che il piccione incontrasse una picciona e si fermasse ad
amoreggiare. Ma questi sono i fatti della vita dei messaggeri volanti.
Affanculo alla voce sintetica dell’aggeggio nero che porto in tasca. Continuo
lentamente il mio cazzeggio fra le bancarelle di “… mobili, dipinti, libri e
stampe antiche, modernariato, giocattoli, orologi, porcellane, vetri, stoffe,
oggetti in ferro o rame, nonché ninnoli e curiosità tra le più svariate”.
Mi soffermo
presso il banco di un venditore di sorprese.
Quelle che si
trovano negli ovini della Kinder. Quelli che compravo per i ragazzi da piccini.
Ci sono collezioni complete di Puffi e di Paperini e anche di Bunny. Riconosco
il losco figuro che gestisce le vendite. Saranno passati una dozzina d’anni ma
è rimasto lo stesso. Con quella faccina furba e il capello unto dalle troppe
applicazioni di gel. È lo stesso che, in occasione di un mercatino per
raccogliere quattrini per un associazione contro i tumori, si aggirava tra i
banchi dei ragazzi delle scuole. I ragazzi esponevano vecchi giochi,
giornaletti, dolci fatti dalle mamme ed altro. Tutta roba che era ceduta agli
acquirenti dietro una piccola offerta libera. E il nostro eroe era in cerca di
sorpresine di gomma. In un banchetto vicino al nostro fece incetta, per due
lire (tremila in verità … ndr), di una collezione completa di dodici Topolini
in pose diverse. E ricordo che trattò pure sul prezzo dell’offerta. E adesso
per la stessa collezione chiedeva centotrentatre euro. Un ricarico
stratosferico e un guadagno truffaldino. Tanto per ridere provo a rammentargli
il banchetto dove fece l’affare e lui non si scuote manco un poco. Ribadisce il
prezzo e mi guarda in cagnesco con quella faccia volpina. Mi lancio in una
trattativa che non mi interessa per niente e riesco a fargli calare il prezzo
di euro tre. Cifra tonda: uno più tre più zero virgola zero zero. Gli chiedo
comunque informazioni sulla collezione. E mentre lui continua a magnificare i
suoi prodotti, convinto che io sia ormai un pesce all’amo, abbozzo e lo lascio
di stucco con una parola di cinque lettere che comincia con “emme” e termina
con “a”.
Mi caccio in
faccia gli occhiali da sole della mamma e continuo la mia esplorazione alla
ricerca di un oggetto che possa dare un senso alla visita del mercato. E lo
trovo dodici banchi dopo. Questo espone dischi di vinile. Quelli rigidi e neri
che adesso non sono quasi più prodotti. Ora ci sono i compact disk e i lettori
di musica mp3 e chissà quali altri aggeggi sempre più compatti. E sempre meno
tattili. Quelli di un tempo (45, 33, 78 giri … ndr) si potevano pigliare in
mano e si graffiavano pure. I sistemi per riprodurre musica si oggi son tutti
virtuali. La musica di sente ma non si tocca. Non si toccano le copertine che
ormai si scaricano dalla rete. E io voglio toccare il cartone e leggere le note
sul retro e guardare le immagini. Il disco che attira il mio sguardo è stato
editato vent’anni or sono. È un quarantacinque giri.
La copertina è
semplice. C’è la foto dell’autore in bianco e nero su fondo black. L’immagine è
virata sull’arancione. Sulla faccia spiccano le rughe da viveur notturno con
tanto di barba di una settimana e baffo brizzolato. Lo sguardo e la bocca e
l’espressione generale paiono simpaticamente comunicare una battuta che mi
incuriosisce assai. Secondo me il tipo sta pensando: “ … che cazzo vuoi?”. Le scritte
sono orientate di dodici gradi ad alzare rispetto all’orizzontale e son tutte
in carattere maiuscolo. La prima è arancio: PAOLO CONTE. La seconda è bianca:
HAPPY FEET. E mannaggia ci manca il dietro copertina. Quello dove son riportati
i dati che mi interessano e che di solito schedo sul quadernetto con la
copertina nera che ho sulla mensola dello studiolo. Il dietro è malamente
rimediato con un cartoncino marrone incollato sul verso della copertina.
Domando spiegazioni e il tenutario del banchetto farfuglia che così a lui è
pervenuto il pezzo. Ribatto che non mi pare questo il modo di trattare le
copertine dei dischi di vinile. Lui fa spallucce e si gira verso un altro
possibile compratore lasciandomi solo con le mie fantasie più malvagie per la
scena di poca prima. In questa l’omino dai capelli unti si trova in un qualche
girone dell’inferno Dantesco, tutto ignudo e con le grazie di fuori, intento a
spingere Topolini di gomma piena, scala 12 a 1, per l’eternità.
Ma la copertina
che ho davanti è troppo bella. Il titolo poi è tutto un programma. Ho
cognizioni meno che elementari in fatto di lingua inglese ma fino a tradurre la
frase, con difficoltà indicibili, ci arrivo anch’io. Piedi felici. Rifletto che
nella mia lingua madre il titolo è, se possibile, ancora più bello e
intrigante. Vado a trattare l’oggetto. Copertina originale tutta sbrindellata,
il suo verso raffazzonato e il disco usato. Mentre il padrone mi spara la cifra
io tiro fuori il vinile. Scopro così che la seconda canzone tratta di draghi.
Anche questa è in lingua anglofona. Evidentemente si tratta di pezzi destinati
al mercato oltralpe. Ma che mi frega di
‘ste considerazioni commerciali. La musica è universale. E le note contenute
nel disco sento che lo sono. La cifra per l’acquisto è composta dal numero che
ricorre oggi. Euro dodici. Come gli apostoli e i mesi dell’anno e le ore
dell’orologio che ho al polso. Acquisto senza batter ciglio e mi avvio alla
macchina che nel frattempo la famiglia ha chiamato per fissare l’appuntamento.
Ci si trova tra centoventi minuti alla sagra del fagiolo zolfino. Ho ancora
tempo per fare la mia ricerca virtuale.
Arrivo a casa in
un baleno.
Accendo il
portatile e mi attacco alla rete. Digito gli estremi e mi appare la locandina
di un lungometraggio di animazione. C’è un pinguino con la faccia simpatica che
pattina sopra un lastrone di ghiaccio. Sullo sfondo ci sono un gruppo di suoi
simili che lo salutano. Più in la il polo sud. Il film per ragazzi è del 2006 e
non mi interessa per niente. Chiudo la scheda e riprovo chiedendo il nome del
cantante. Frugo dentro la sua pagina web e finalmente trovo il testo. Lo riporto
integralmente in corsivo con tanto di informazioni e omettendo gli spazi tra le
strofe. “45 giri,1990, (CGD,9031.73443),
3’21, Happy Feet (Musica per i vostri piedi, Madame). Cosa leggerai? Con che
libro affascini il tuo cuore? E se ti perderai nel labirinto di un amaro
autore? Ma i tuoi piedi: tap-tap-ta-ta-tap. Ma i tuoi piedi: tap-tap-ta-ta-tap.
Happy feet...ta-dah-tah. Happy feet...ta-dah-tah .Happy feet...oh, oh, i love
it... Telefonerai? Probabilmente a me, tuo schiavo d'amore... ti divertirai.
Che traguardi vuoi farmi trovare? Ma i tuoi piedi: tap-tap-ta-ta-tap. A che
mostra andrai? Un Picasso in fiamme ti può andare? Ne discuterai con qualcuno
che ne sa parlare? ma i tuoi piedi: tap-tap-ta-ta-tap”.
Intanto ho
acceso il vecchio giradischi contenuto dentro il mobile Grundig, anno 1958, in radica di noce
che si trova in salotto. La puntina scorre sui solchi graffiati e la musica va.
Inizia con un piano jazz e si tramuta in
un brano swing. Liriche semplici che mischiano italiano e inglese. Riff
ripetitivi. C’è anche un coretto femminile che accompagna il nostro eroe.
Termina con le parole del titolo e con lo stesso piano dell’inizio. Potente.
E ascoltando mi
vengono in mente i piedi di Guido. Quindici anni e due mani come un apostolo. E
i piedi anche. Questi piedoni felici me li son sentiti sbattere sulla pancia
stamattina verso le quattro e dodici quando è venuto a letto con noi. La sera
prima ci siamo attardati a vedere una partita della sua squadra del cuore.
Effeciinternazionale versus Effecibarcellona. Si giocava al Meazza di Milano e
valeva per l’accesso alla finale della coppa dei campioni. È finita tre a uno.
Lui è finito a letto cantando l’inno. In casa ci siamo divertiti a storpiarlo
un poco interpretandolo con voce strascicata su fondo jazz. I suoi ditoni mi
hanno svegliato prima del sorgere del sole e allora son venuto a scrivere
queste parole d’amore scritte a macchina. E poi quando son venute le sette e
l’ora della sveglia per la scuola sono andato a chiamarlo. E lui; che
evidentemente stava sognando una qualche impresa dei suoi idoli; apre gli occhi
e sorridendo se ne esce con la frase con cui ci siamo lasciati otto ore prima.
“… Amala
… passa Inter … amala … ti basta una vita … passa Inter …. amala …”.
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