Il serpente con le piume | 2018
Intorno alla
fine degli ottanta il massimo del servizio nella classe turistica dei voli
intercontinentali era la proiezione del film su grande schermo. Pareva di
essere in una sala di proiezione privata e alcuni passeggerei lo trovavano
molto chic. A noi che si andava in Messico toccò in sorte “i Three Amigos!”, pellicola che l’anno prima aveva spopolato nelle
sale di mezzo mondo. Rammento che l’avevo scientificamente evitata per via
dell’insulsa locandina con tre uomini abbigliati come se dovessero essere al
carnevale di Rimini al tempo de “i
Vitelloni”. Messicani che più non si può senza farsi mancare niente:
sombrero gigante coi ricami, cintura con le borchie, fascia rosso vermiglio in
vita, stesso colore per il cravattino,
camicia bianca con gli sbuffi, cinturone e pistola da sei colpi a tamburo,
pantalone scampanato e chissà cos’altro.
Un delirio
estetico per un giovane architetto dalla filosofia“Meno è più”.
Al tempo non
c’erano le scelte tecnologiche di oggi. Ergo come sia ci tocca sorbire un par
d’ore di queste immagini in movimento non richieste e non volute. L’unica
opzione era la scelta della lingua ma figurarsi se una compagnia spagnola
poteva avere l’alternativa “italiano”.
Se non ricordo male ci stavano sei tacche di scelta: spagnolo, inglese,
francese, tedesco, olandese e la sesta era vuota.
"Fangàla, àssara 'ffangàla!”; detta
alla Bracardi nella Radio di una volta.
Le quindici ore
di volo, compreso scalo-sosta in Canada, che occorsero le passammo senza
audiovisivo o chicchessia. Al solito la lettura ci fu di conforto. Per ogni
viaggio lungo che facevamo in quegl’anni ci dotavamo di regola di guide e libri
specifici e di un romanzo storico fantastico che c’introduceva al luogo in
visita. Il libro veniva letto con lo spirito con cui ci si approccia ad una
novella con l’unica differenza evidente della lunghezza.
Il volume di
quel viaggio fu “l’Azteco” e già il
titolo la dice lunga.
Durante il volo
lessi ben oltre la metà delle mille pagine. Il resto lo divorai durante le
soste. I romanzi storici son narrazioni ambientate in un passato ricostruito,
di regola, accuratamente. Ci sono personaggi reali e no. Quelli “e no” sono i più interessanti in
special modo quando escono dalla carta e lasciano impronte, mano rossa e
simili, su anfore e sassi. Segni che poi si trovano per davvero frugando in
giro per rovine e piramidi.
Mixtli l’Azteco.
Di libri ce
n’erano altri due: la guida al turista; agile e snella di formato A5 verticale
con le immagini in bianco e nero oltre ad un volume di grande formato,
finemente rilegato, con copertina rigida e sovra coperta lucida al pari delle pagine interne con foto tutto
colore. Le immagini b/n del primo non avevano attrazione e l’edizione fu
lasciata spesso a riposare in albergo. Di concerto le misure eccessive, peso
compreso, del secondo fecero si che spesso si facessero compagnia.
Il quarto fu
acquistato presso la libreria del Museo Nazionale di Antropologia.
Il tipo addetto
all’accoglienza barra soddisfazione del turista straniero lo spacciò per
ristampa anastatica e a noi stava bene così. Sapevamo di aver comprato una
riproduzione non troppo aderente all’originale ma il libercolo: “Codice Nuttall” era troppo bello per
lasciarlo in Messico. Le figure dei suoi guerrieri di profilo ci accompagnarono
nel viaggio di ritorno. In barba alla visione del cartone “The
Three Caballeros” con Paperino e gli amici suoi. E alla fine, anche se toccò vedere solo le
immagini:” … che palle”.
A dir la verità
un paio di amici col sombrero e il resto l’incontrammo..
Alcune ore prima
dell’imbarco per il ritorno stavamo bivaccando nella sala principale. Era stato
appena annunciato un ritardo importante e cercavamo la posizione più comoda
sulle scomode panche dell’hall. Poi d’improvviso un “ … Messicani! Popolo di sottosviluppati. Ci hanno fatto fessi”.
Era Ciro col fratello e le mogli. Li avevamo conosciuti all’andata ed eravamo
stati bene insieme per una cena tipica. Secondo i piani dovevano già essere a
casa dal giorno prima. Dopo i baci e gli abbracci ci raccontano.
Prima però: “ … Messicani! Popolo di sottosviluppati. Ci
hanno fatto fessi”.
È successo che
stavano imbarcando da Acapulco verso l’intercontinentale per l’Italia quando
l’hostess all’accettazione gli comunica che il loro posto è stato occupato da
certi americani che devono rientrare con urgenza per problemi familiari. Loro
quattro potevano usufruire del volo successivo che tanto ad avvertire il volo
internazionale ci pensava, come di regola, la torre di controllo. Di sicuro non
lasciano a terra nessuno. La coincidenza per l’Europa aspetta di aver il carico
completo prima di partire e vi aspettano senza meno. L’impiegata è gentile e
professionale, efficiente e carina. I
nostri eroi, senza grandi esperienze estere e padronanza della lingua vicino
allo zero, si fanno abbindolare. E acconsentono a tutte le richieste.
Di sicuro gli
statunitensi han pagato caro il passaggio e se la ridono di gusto.
L’aereo parte e
loro mancano per quindici minuti, come era facile preventivare, il volo
principale. Un paio di giorni di ritardo è il risultato della loro galanteria
nei confronti di ricchi sconosciuti che li han beffati. Immagino che li
odieranno per sempre. Ma adesso sono qui. Con valigie, pacchi e regali. E due
sombreri formato gigante. Tutti neri, con borchie e ricami. Per mia parte ho un
banale e sbrindellato cappello da pescatore colore sabbia. Non mi lascio
scoraggiare dalle dimensioni. Mi metto tra i due. Facciamo una dia.
Ad essere
sincero ho visto anche altro.
Il complesso di
Chichén Itza si trova nella penisola dello Yucatàn. La piramide, che da sola
vale il viaggio, sta in compagnia di innumerevoli altri edifici, templi e
rovine. Ci arriviamo dopo un ora di viaggio nella foresta tropicale. Un pullman
scassato ci accompagna fin sul piazzale d’ingresso. Poi la guida ci racconta
brevemente la storia dei luoghi e ci lascia liberi. “El castillo” è la nostra meta. La piramide gradonata è
impressionate. Ha pianta quadrata di circa cinquanta metri per una trentina di altezza.
Sono affascinato
da numeri e coincidenze.
Nove gradoni per
arrivare al basamento in alto. Quattro scalinate; una per lato; agevolano la
salita al tempio in sommità. Ogni scala è composta di novantuno gradini che
sommati producono il numero trecentosessantaquattro. Ne manca uno per i giorni dell’anno solare.
Eccolo: la piattaforma.
Adesso equinozi
di primavera e autunno.
Il venti o
ventuno di marzo e il ventidue o ventitre di settembre il sole fa un giochino
singolare da queste parti. Nel tardo pomeriggio colpisce la scalinata lato nord
e crea l’illusione di un lungo serpente strisciante sui gradini. La trama delle
ombre entusiasma i visitatori che accorrono in massa per l’evento. E in effetti
per alcuni momenti il dio Serpente dei Maya torna sulla terra.
Quella volta,
come altre, arrivammo il giorno dopo e perdemmo lo spettacolo.
Come noi anche
una troupe della televisione giapponese. Forse si era persa nella foresta o più
semplicemente come noi aveva informazioni errate sul giorno delle ombre. Fatto
è che, dopo una salita alquanto perigliosa, il nostro gruppo è sul tetto
dell’edificio. La vista spazia ad angolo giro. Spettacolare. Stante il rapporto
due a tre di pedata trattino alzata per salire e scendere i gradini una lunga
fune è tesa a mò di corrimano ed usata da tutti noi escursionisti. Mentre
godiamo lo spettacolo della natura circostante i tecnici del Sol levante
finiscono i piazzamenti.
Il grosso del
gruppo è alla base. In alto solo due tecnici con telecamera.
A un certo
punto, da una sedia modello da regista, si alza un tipo vestito come un regista
dei tempi del cinema muto. Forse che sia proprio come un regista? Evidentemente
si perché tutti si bloccano. Anche i visitatori restano immobili. Il direttore
della scena allora barrisce un ordine in un idioma a noi sconosciuto.
Evidentemente significa “azione” per
via che un giovanotto tutto azzimato con
i capelli tirati a brillantina lucida esce dal gruppo. A passo veloce si mette
in moto e si avvicina alla base del monumento.
Ha in mano un
microfono e ci parla dentro a voce alta.
Evidentemente
medita di salire. Poi poco prima dell’ascesa ha un esitazione e dubbioso e si
ferma. A quel punto il supervisore grida qualcosa che, al solito, nessuno dei
turisti intende. Di sicuro significa “stop”
a cui segue nell’ordine: una parolaccia in spagnolo che mi rifiuto di ripetere
e il segno internazionale del medio alzato. In successione poi una fila di
suoni gutturali che all’incirca dovrebbero pressappoco voler significare: “… Sei un imbecille … che ti ho mai ordinato
di fermarti? … Devi salire … sei pennellone avariato … vai su d’un fiato …
svelto … hai capito?”. Il divulgatore di turno, che evidentemente conta
meno di zero nei rapporti di forza con la produzione, fa cenno di aver capito.
Si compone. Alza
il pollice per “pronto” e al cenno
del capo reparto attacca.
Tutto il sito
archeologico è in silenzio. Anche gli animali della foresta sono aderenti
all’ordine “Silenzio in scena” dato
all’inizio delle riprese. L’attor giovane procede sicuro mentre
racconta del luogo. E poi sale veloce. La pendenza è ripida; ben oltre il cento
per cento e forse si avvicina ai sessanta gradi. Roba per fisici forti e
allenati. Il nostro eroe è dotato di camicia cotone, pantalone corto e scarpine
leggere. Affronta la salita di getto e mentre sale continua a contare a voce
alta.
“ … Ottantanove … novanta … novantuno …
eccoci sulla piramide. Olé!”.
Ma il capo
troupe è evidentemente una merda. Scommetterei anche su sadico patentato. Prima
ordina “stop”. Poi usa la
radiotrasmittente in dotazione per comunicare con l’operatore video sulla
sommità. E noi ancora in silenzio. Tutti anche le scimmie e il vento che ha
smesso di soffiare. Il nostro scalatore, stremato dall’ascesa, è ancora steso a
terra e ansima vistosamente. Vorrebbe dire la sua ma non riesce ad articolar
suono. E comunque il capo ha deciso.
“ … Ripetere la scena … è venuta male … ti
sei mangiato i numeri”.
Quella volta ho
visto un giapponese tramutarsi in Serpente con le piume.
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