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Ska, maglione, 1978 |
Sei.29 | 2010 - 11
Da ragazzo ho
molto amato il personaggio di una canzone di Lucio.
Stamani mi è
venuta voglia di riascoltarla nella versione originale. Quella di vinile tutto
graffiato da infilare nel mangiadischi modello Minerva, ga45pop colore verde
mela, con la puntina finita. Il disco è stato pubblicato il 14 ottobre 1969 per
le edizioni Dischi Ricordi, SRL 10567, Milano. Il lato davanti è occupato da
una sua famosa canzone. Il verso, durata 3’33”, è quello che mi interessa. Il
pezzo porta la firma del duo Mogol/Battisti ed è arrangiato, al solito, da
Detto Mariano. Il primo è un poeta e si è occupato del testo. Il secondo era un
grande musicista e scriveva la musica.
E la cantava
anche.
Il protagonista
del componimento racconta di un treno che deve partire ad una certa ora
portandosi via la morosa. Le raccomanda di far presto e pure che: “ … nel far le valigie ricordati di non
scordare …”. Mentre godo del suono sporco e infedele del blues nostrale
realizzo che il tipo è assillato da un numero. E anch’io lo sono. Da almeno un
quarto di secolo abbondante. Il suo è 740.
Per arrivare al
mio ci devo levare 111.
Rammento bene i
cinque anni delle superiori. La scuola si trovava in città mentre io dormivo in
un paese distante un’ora di corriera. Puntavo la sveglia, a carica manuale,
alle 6e30 per non perdere l’appuntamento col pullman delle 7e07. I primi tempi
avevo anche convinto il babbo ad aprire la porta della camera alla mezza in
punto. E puntualmente li anticipavo tutti e due di un minuto preciso. Era come
se avessi un orologio nel cervello. Trenta tic più trenta tac prima dell’ora
“ics” aprivo gli occhi. Contavo piano fino a sessanta e all’unisono udivo la
voce del genitore e della suoneria. Era quello il preciso momento di mettere i
piedi per terra. Poi tutto si svolgeva in fretta e furia ‘ché in trenta minuti
c’erano da far una miriade di operazioni. Eccone in sequenza i passaggi
principali come se fossero fotogrammi fermo immagine.
Sbadiglio.
Stiro le membra.
Infilo le ciabatte da mare. Quattro passi e son nel corridoio. Il bagno è
quello con la porta a vetri. L’apro e son dentro il locale. Abluzioni e
defecazioni e lavaggio dell’arco dentale. Poi in cucina. Buongiorno a tutto il
mondo. Grazie mamma per il caffèlatte. Inzuppo la crostata di albicocche. Bevo
il resto. Sono in piedi. Saluto e vado. Abbranco lo zaino con i libri e infilo
la giacca a vento modello cinese. La vespa 50 special giallo banana, con il
parabrezza montato, mi aspetta in
garage. Per arrivarci devo far due rampe di scale e quindici gradini. Il babbo
ha già aperto la porta scorrevole dell’autorimessa. Io intanto mi do da fare
con la pedivella. Perdindirindina non parte.
Fuori intanto
piove come Dio la manda.
Per quanti
sforzi faccia il motore mica vuol saperne di mettersi in moto. Sarebbe il caso
di pulir la candela. Ma non c’è tempo. Babbo; per piacere; bisogna che mi
accompagni. Salgo sul camioncino verde pisello che parte veloce. Ci mancano tre
chilometri all’appuntamento con il pullman per Arezzo. Li facciamo a tutta
birra. Quando si arriva alla fermata “del Bruco” son le 7e07 passate da tre
minuti. Per fortuna l’autista mi ha aspettato. Trafelato e bagnato salgo sopra.
Via.
I successivi
anni sei la sveglia rimane puntata sul medesimo numero. L’orologio a carica
manuale è stato invece sostituito da uno più moderno con la pila a
funzionamento perpetuo. L’ora è sempre la stessa e sempre l’anticipo di
sessanta secondi precisi. Abbiamo cambiato casa ma abitiamo sempre lo stesso
borgo. Adesso la distanza si è allungata. La sede degli studi si è spostata
verso nord. Per arrivarci occorrono quindici chilometri di strada asfaltata
sommati a un’ora di ferrata. La stazione dei treni si trova nel fondovalle e
nei mesi invernali è assalita da certi nebbioni che par d’essere in Valpadana.
La 126 rosso sangue della mamma arranca nell’aria lattiginosa e bisogna proprio
che accenda i fari mezzani. E capita spesso e sovente che me li scordi accessi.
Il risultato è che mi piglio dei cazziatoni dal genitore quando deve venir giù
al parcheggio con i cavi per la batteria.
Dopo gli studi
comincio a lavorare nel campo dei mattoni e degli oggetti.
La sveglia l’ho
buttata ‘ché ormai l’ora c’è l’ho in testa. Adesso mi devo preoccupar di
svegliar la mia morosa che travaglia a Firenze. Adesso abitiamo nel posto delle
nebbie. La sera prima di dormire registro il cervello per le sei e trenta. E lo
anticipo sempre di un minuto. Lo stesso avviene nei venti’anni successivi.
Abbiamo ancora cambiato magione.
Siamo tornati ad
abitar il paese sopra le nebbie.
Quello
battezzato dal nome di un uccello migratore dalle lunghe zampe. Si deve però
pensare ai figlioli che vanno a scuola. Il loro mezzo pubblico parte alle 7e07
dalla fermata in “Pian di maggio”. L’anticipo è sempre lo stesso. Un giro di orologio
prima delle sei e mezza apro gli occhi e conto fino a sessanta.
Poi mi alzo e
vado a svegliar i ragazzi.
Intanto la prole
è cresciuta e si è fortificata e ha preteso il maledetto telefonino che, tra le
funzioni che ospita, prevede anche la sveglia. Ognuno dei due s’è scelto e
scaricato un suono personalizzato. In realtà la femmina ne ha almeno ventinove
e tutte declinano la parola “amore”. Le sceglie la sera prima di spengere la
luce del comodino. Il maschio è monotematico e grande tifoso di calcio. La
mattina ci fa ascoltare per intero l’inno della sua squadra del cuore: “Amala, pazza Inter, amala. Ti basta una
vita. Pazza Inter, amala …”.
Ad ogni ascolto
del cantico il cuore viola dei genitori sanguina copiosamente.
Stamani ho
anticipato la sveglia a carica manuale, puntata al solito alle sei e trenta, di
almeno 121 minuti. Sono sceso in cucina con l’intento di scrivere ‘sta novella.
Il primo pensiero è andato ai 12.784 giorni che l’ho fregata (la sveglia …
ndr). Poi ho caricato il foglio della Valentina e battuto i tasti per 5.833
volte. E per finire ho realizzato che la somma di 6+2+9 è uguale a 17.
Poffarbacco. Il diciassette è il numero della disgrazia e della superstizione,
del peccato e del gioco. E’ la cifra del vizio e degli incidenti, del gatto
nero e degli incontri ai funerali. In alcuni posti del mondo è inteso anche
come sinonimo di sfortuna. Che forse tutto lo sculo che mi perseguita da una
barca d’anni dipenda dall’anticipo? Ho deciso. Spedisco l’ordine al neurone che
se ne occupa.
Domattina
sveglia alle sei.25.
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