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Schegge

Mendini Milano, 2007


Schegge | 2007

Mostri e animali fantastici popolano il Casentino.

Bestie e creature. Elfi e Basilischi. Fate e chimere.

E anche draghi.

Una novella antica; che passa di bocca in bocca e che i nonni sussurrano pian piano ai nipoti quando fanno le bizze; narra le vicende di Noi che ne popolavamo le sue viscere. Racconta della montagna sacra Falterona dove tutto comincia. Dove nasce il fiume che incide la valle e strabocca nei campi. E racconta anche di Noi. Noi che la gente perbene e la cultura imperante ha dipinto per secoli come esseri malvagi e crudeli con la bocca di fuoco e tutto l’armamentario del genere. E infatti chi di voi  ricorda il nome dello sfidante di San Giorgio? Noi che siamo invece gentili e discreti. Buoni e saggi. Amanti della natura e della buona tavola.

E che ci volete fare?

E ricordo ancora lo stupore dei vostri studiosi dei tempi antichi quando, alcuni anni fa, fu rinvenuto lo scheletro del penultimo di Noi. Non era un Dino e manco un Sauro. Era mio figlio Gianni. Con le zampe e gli artigli e le ali. Ogni cosa al suo posto. Un drago.

E poi ultimamente la valle è popolata anche da architetti.

Strani animali a quattro zampe che ne adoprano solo due per spostarsi. Le altre due le usano per brandire gli oggetti del mestiere. Blocchi di carta e tubetti di graffite. Penne colorate e lunghe corde per misurare. E anche occhi che si allungano e catturano le immagini. L’altro giorno son venuti. Una masnada di sette vocianti giovani disegnatori insieme al catturatore di immagini e all’artista. Alla ricciolina in grigio e al pelato con la maglia verde mela e il cappellino da pescatore che porta spillato il marchio della pace e dell’arcobaleno.

Dodici in tutto, come gli apostoli, compreso il capomacchia.

Lo si riconosceva dall’espressione. Gli altri erano tutti eccitati: “… e qui si costruisce un ponte … e la si demolisce quel capanno … e quel muro si fa verde  ma di siepe mi raccomando”. E lui tranquillo che annuiva e sorrideva sotto gli occhiali di tartaruga e la cintura con le scaglie di pitone verde. Lo sapeva dove andava il progetto. Lui sapeva già. Loro sbraitavano di luci e materiali e lui annuiva. Lui sapeva.

Lui.

E però cerca cerca e fruga fruga mi hanno quasi scoperto. Senza saperlo ma mi hanno trovato. Me. L’ultimo di Noi. Lapo di nome e di cognome faccio Drago.
Ricordo bene quando son sceso a valle. Quarantacinque dei vostri anni or sono. Son sceso e mi sono riposto nello scheletro di questo vostro opificio. Al tempo era in costruzione. Avevate appena “fattoilgrezzo”. Fondazioni, pilastri e travi. Copertura e tamponamenti.

Ma a me bastava.

Son sceso la notte dell’ultimo dell’anno. Nel mentre che voi stavate occupati a bere e cantare. Mangiare e ballare. Io sono sceso e mi sono fatto tutt’uno con i muri della fabbrica in costruzione. Le mie ossa sono diventate lo scheletro in cemento armato. La pelle si è fatta muro. Le viscere le ho fuse nelle fondazioni. Le scaglie son finite in copertura e la testa nel corpo degli uffici. Undici schegge più la testa e la coda. E voi brutte bestie che non siete altro me l’avete segata. La coda intendo. Quando è passata la strada veloce.

Zac. E la coda non c’è più.

Ma tant’è. Che ci volete fare. E’ un mondo difficile e la fantasia al comando è un utopia. Ma basta con la filosofia spicciola che è ora che vi racconti i pensieri degli architetti così come mi sono giunti portati dal vento. Capolona è una specie di città giardino nata intorno ad una fabbrica di scarpe. E io diventerò un simbolo architettonico che qualificherà il brutto intorno a me. La trasformazione dividerà in due il volume.

Ecco come mi immagino a lavoro finito.

Sopra c’è la parte culturale con sale polifunzionali da adibire a centro culturale per suono e arti visive e danza moderna e chi più ne ha più ne metta. Un teatro e un cinema ma anche un posto per la danza e per la produzione culturale in genere. Sale di registrazione e produzione di immagini e suoni.

Sotto una sorta di galleria commerciale collegata alla funzione culturale del sopra. Merchandising culturale per usare un termine straniero. Mercatino della cultura che mi garba di più. La gente ci trova negozi di musica e di immagini. Ci trova libri e oggetti di buon disegno. Magari qualcuno prodotto nelle stanze di sopra. E poi anche posti di ritrovo dove si pole stare a chiacchiera davanti ad un bicchiere di rosso. E lassù in alto; saranno almeno quindici metri da terra; un posto di ristoro e bellavista. Una roba tutta vetrata sui lati lunghi per vedere il fiume e le colline.

E quando si fa sera “veder le stelle”.

La sagoma in forma di “elle” rovesciata ficcata per terra. E mi piace pensare allo stridente contrasto tra il disegno modernista alla Le Corbusier della “salle a manger” e i piatti della tradizione toscana che vi verranno proposti; come il tempo che attraversate; in ordine caotico e casuale. Crostini neri e pinzimonio. Panzanella e pappa col pomodoro. Ribollita e lesso rifatto. Fritto misto di cortile e ciambellone della nonna. Acqua di fonte e vino santo.

La facciata lunga è ingrossata sul lato sinistro guardando dal fronte. Una specie di ameba, che si estende secondo una serie di curve che si rincorrono “a uria”, recupera i volumi accessori che il progetto demolisce. Dentro questa forma; di proposito estranea al contesto; sono collocate le funzioni accessorie al centro culturale. Qui ci sono depositi e magazzini; locali igienici e di servizio. E sottoterra la cantina per il vino.

La facciata di ingresso guarda verso il fiume. Il suo volume è il medesimo di quello degli uffici attuali. Solo modellato in altro modo più consono al progetto. Una grande loggia a tutta altezza e a copertura mistilinea segnala l’ingresso principale. La loggia è sorretta da una selva di pilastri di colore e inclinazione diversa. Sulla loggia affaccia il piccolo caffè dell’arte mentre lo scalone, orientato in modo obliquo rispetto alla regola strutturale, conduce al sopra. La parte opposta dell’ingresso, che porge le spalle alla strada veloce del Casentino, diventa l’uscita principale e rimane; a memoria della fabbrica; “dov’era e com’era”.

La parte basamentale del Centro è finita in lastre di laterizio, montate a file e sporgenti una sull’altra, colore rossofuocodidrago. Le parti alte sono tamponate con grandi vetrate lattiginose colore biancobavadidrago. La copertura delle undici volte e della loggia d’ingresso, dodici campate in tutto, sopporta un manto a losanghe in lamiera  di alluminio colore verdescagliedidrago. La torre della bellavista è interamente rivestita con piccole tessere di mosaico vetroso colore gialloorodioro montate a opera incerta.

L’organismo tecnico è adeguato alle ultime tendenze nel campo del risparmio e del consumo energetico. Pannelli solari e fotovoltaici. Muri ventilati e vetrate che respingono il calore quando è caldo e viceversa lo trattengono quando è freddo. Impianti ecologici che catturano energia dall’acqua del fiume che fa girar le turbine della vecchia centrale ad acqua.

Un edificio a consumo zero.

Lo spazio esterno diventa occasione per ripensare questa parte di città. Il piazzale diventa piazza pavimentata con i ciottoli del fiume. Gli orti, con gli aceri e gli olivi al loro posto, assumono la pubblica funzione di giardino urbano e lentamente degradano verso il fosso. Il fosso è rivestito da grandi pannelli di ceramica; fatta a scaglie; decorati secondo i toni del celeste, dell’azzurro e del blu. Il fosso è attraversato da ponticelli in acciaio arrugginito che conducono al nuovo parcheggio dall’altra parte della strada. Un percorso pedonale, disegnato secondo una linea retta e un piano inclinato, conduce al fiume. Sul fiume si affaccia il restaurato museo dell’acqua.

E noi con lui.

E poi si scende al fiume a toccar l’acqua. Gli argini in cemento e i gabbioni di pietrame diventano le basi  fondali di un piano in tavoloni di quercia spessore centimetri cinque. Sui tavoloni ci sono le sedie e i tavolini di alluminio, colore grigio argento, dell’osteria del fiume. Nel mezzo della pescaia sta seduta la figura in bronzo, decorata a pois sui toni del blu, del giovane pensatore realizzata dall’artista del gruppo. Gli arredi e le finiture esterne, in sintonia con l’edificio, sono secchi ed essenziali.

Tutti in acciaio corten.

Nel campo della grafica il decoro; nei tre colori base del rosso e del verde e del celeste; la fa da padrone. Le luci sono discrete e nascoste alla vista. In  gran parte dei luoghi del progetto e specialmente nel Parco sarebbe bello di notte poterci stare al buio e si potesse guardare le stelle con il pavimento illuminato. Una serie di nicchie allungate, scavate alla base degli elementi di arredo, accolgono gli apparecchi illuminanti per l’illuminazione a raso degli spazi. La luce viaggia bassa, rivela i disegni delle pietre e forma un tappeto quasi magico così che si possa guardare la notte.

Il logo è disegnato.

Ecco il progetto.

Schegge contemporanee di deboli pensieri.

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