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Per lavorare, 2016 |
Maggio, primo | 2014
a
Ayrton Senna
210360 |010594
1990. Ricordo
che quell’anno il maggio fu caratterizzato da un caldo bestiale.
Quel primo del
mese del novanta abitavamo nella casa di via Alberti al primo piano del civico ottantaquattro in San Giovanni lungo
l’Arno. E per dirla tutta l’Alberti della strada non celebra, come credevo un
tempo, il Leon Battista architetto del rinascimento ma piuttosto il
preesistente castello di Pian Alberti che sorgeva un tempo da queste parti
prima che venisse costruito il fortino disegnato, si dice, da Arnolfo di
Cambio.
La nostra casa
contava quarantotto metri quadrati e spiccioli.
Tre stanze e
mezzo, di cui una buia e di passo, oltre a bagno con vasca ma anche lui senza
finestra. Senza luce e manco aria era la cucina dove i quattro passaggi interni dovevano servire, almeno nei buoni
propositi del progettista, all’aerazione del locale. L’espediente non aveva,
evidentemente, funzionato. Infatti quella sera, dopo un cena a base di fritto
misto di carne e verdura, ce ne stavamo in camera a finestra semi chiusa e con
nell’aria tutti gli odori e gli umori di friggitoria di infimo ordine che
avrete di sicuro provato almeno una volta nella vita.
L’abitazione,
scomoda per tanti fattori, ha un unico grande un pregio.
Una camera bella
fresca occupata quasi interamente da un letto doppia piazza uso matrimoniale,
capace e comodo, che spesso usavamo. Non solo per dormire. Quella sera subito
dopo cena lo usammo. E poi, visto che: “…
No. In casa non ti ci fo fumare. Cascasse il mondo …”, si accende la
televisione e compaiono i Litfiba. Il gruppo si è formato nell’ottanta ed è
composto da cinque giovani musicisti fiorentini. L’anno prima del Concerto
hanno fatto il botto con il trentatre giri dal vivo “Pirata”. E qui in video confermano l’energia che ricordo
nell’ascolto dei loro dischi.
Ho avuto la
ventura di conoscerli nell’anno dei mondiali di Spagna.
Era l’inverno
prima dei gol di Paolo Rossi e a quel tempo, vent’anni e poco più, si usava
ancora girar per locali dove si cazzeggiava e si ragionava anche di politica e
di massimi sistemi. In quegl’anni le informazioni viaggiavano lente di bocca in
bocca con frasi come: “ … si dice …” oppure “… il tizio mi ha detto che …” e
via col liscio. E quindi quando una sera, poco prima di cena, mi chiama l’amico
del cuore che mi invita in valle per un concerto gratuito rispondo subito: “e vai”.
La casa della
mia gioventù era dislocata a Cicogna.
Un piccolo borgo
sperso sopra le colline sotto il Pratomagno in vicinanza della Cassia Vetus. Il
paese distava tredici chilometri e spiccioli dalla città di Giovanni di Ser
Giovanni. Ergo ci voleva la macchina. Meno male che uno di noi già lavorava e
si era preso una Citroën Dyane 6 colore verde veronese a quattro posti. Ma noi
ci si saliva sempre almeno in cinque e per la bella stagione si apriva il
tettuccio di stoffa colore nero. La carrozzeria portante era solida. Veniva il
mal di mare ad ogni curva e non ho mai più visto un cambio simile; usciva direttamente
dalla carrozzeria.
Un mito.
A quel tempo il
bar del paese, che adesso non esiste neanche più, apriva alle otto post
meridiane. E quindi a quell’ora ci si ritrova. Una chiacchiera, una cicca, una
birra e si parte. Formazione tipo: due davanti a sedere normalmente e uno
rannicchiato sotto il cruscotto. Poi tre dietro sui due sedili e uno ancora più
indietro nel cofano a fare il cane. Indovinate un pochino a chi toccava spesso
fare il cane?
Comunque
rilassatevi. Quella volta non mi toccò.
Insomma si parte
in sette e si arriva in sei che il compagno sotto il cruscotto pensa bene di
fermarsi ad amoreggiare dalla fidanzata residente in frazione Tasso. Noialtri
sfigati; leggi senza ragazza; si va per musica. Si va alla Casa del Popolo in
via Alberti al numero sette. Al primo piano c’è la stanza delle feste usata, la
domenica e i prefestivi, come balera equipaggiata con orchestra, ballerini e
tutta la rumba del ballo liscio. Le altre sere è a disposizione per gli eventi
più diversi che, certe volte, ricordano le scene girate da Bertolucci a Vergaio
nel settantasette. Ma stasera non si ragiona di politica, di controcultura e manco
di integrazione razziale.
È l’ora della
musica; ci sono i Litfiba.
“I Litfiba … Chi … ?“ fa il Mario Cioni,
il camerata più ignorante del nostro gruppo, quello innamorato di Marcella Bella.
E sinceramente anche noi siamo spaesati. Nessuno li conosce. Ed evidentemente
anche in città non son troppo famosi. Contando noi sei che si viene dalla
campagna più il tipo vestito come Lennon che ha aperto la baracca e accesso
l’impianto luci ci sono solo altri otto scoppiati che paiono esser li per caso.
Totale quindici spettatori non paganti. Tre volte i componenti la band.
A dire il vero
loro sono 5+1 anzi una.
Lei è la
ballerina e corista del gruppo. Capelli neri e vestiti anche. Una tipa secca e
allampanata; scommetto che è la “groupie”
dei nostri eroi; che danza in maniera assolutamente sgraziata con il “front-man” e piroetta intorno al
chitarrista. E anche i musicisti sono vestiti di nero. E anche la musica è
nera. Insomma tutto questo dark mi sta sulle palle. Non mi diverto neanche un
po’. Ero arrivato sulla promessa di un sano rock and roll sul modello delle
Pietre che rotolano e mi trovo questi post punk dai suoni cupi e scuri.
Una palla insomma
E come me, che
però son pacifista e obiettore di coscienza, la devono pensare gli otto poco
più in la. Mentre ragiono con gli amici sull’errore fatto e su quando andare
via loro agiscono sul serio. In formazione da guerriglia urbana e col favore
della penombra si piazzano ai due lati estremi del piccolo palco e all’ordine
del capo banda estraggono di tasca uova fresche che lanciano, con discreta
precisione, sui musici. Primo lancio; colpiti tre oltre a batteria e cassa
acustica. Secondo lancio; colpiti due oltre alla ballerina e al cantante. I
proiettili che non vanno a segno finiscono in terra combinando ancora più
danni. Il pavimento è tutto impiastricciato e i nostri cominciano a scivolare
sull’albume.
La musica si
ferma.
Le luci di sala
si accendono. Gli incursori ripongono i proiettili e si vestono da bravi
ragazzi. Il vocalist della banda se ne esce con: “ … E no ragazzi … Così non si pole … E che modi …”. Il custode
delle chiavi, quello vestito come un hippie fine anni sessanta, rincara: “… Compagni … che cosa fate … E ora chi
pulisce?”.
E noi, cogliendo
al volo l’occasione, “… si fa come il
Baglioni”.
Non ho idea di
come sia andata a finire quella vicenda. Se la pulizia sia stata a carico dei
lanciatori oppure del complesso musicale. Sospetto che la scopa e la ramazza
siano toccati in sorte a John, il ragazzo con gli occhialini rotondi. Ho
notizia sicura che per un certo periodo la sala è stata interdetta ad uso
concerti di musica moderna. Mi pare anche che la band non abbia ma più suonato
nel Valdarno
E adesso me li
ritrovo in televisione a Roma.
Sono in mutande
a sedere sul letto sfatto. Con Silvia si sta progettando il viaggio dell’estate
imminente: Spagna e Portogallo in macchina. Un giro lungo quattro o cinquemila
chilometri. Il Massarini annuncia i Litfiba, che nel frattempo si sono evoluti
e adesso mi arrapano di brutto, e allora mi casca l’atlante. Mi godo i pezzi
suonati a tutta birra senza soluzione di continuità.
Quasi un medley.
E mi viene da
esclamare: “Perché il prossimo anno non
si va al concerto anche noi?”. E lei, che conosce i suoi polli: “Certo amore … il prossimo anno … te lo
prometto … kiss … kiss ”. Ma l’anno dopo è nata la bambina che ci ha fatto
rimandare di alcuni anni la promessa. Poi dopo è arrivato il bambino e per
altri cinque anni abbiamo fatto passo con la musica dal vivo del primo di
maggio.
E siamo alle
soglie del millennio.
I figlioli
contano nove e quattro e danno un certo daffare. Insomma figli da accudire e
genitori, i nostri, anche. E poi a una Certa …
la voglia di andare per concerti, accalcati insieme a ventenni sudati e
cannati, passa. E siamo al trenta di aprile del venti quattordici.
Ieri insomma.
I pargoli sono
ormai grandi: ventidue la femmina e diciannove il maschio. Lui è innamorato del
Rap o roba simile. Lei guarda sovente
Amici sulla televisione del biscione. Nel pomeriggio mi torna la nostalgia dei
tempi andati quando si prendeva un sacco a pelo e ci si spostava con l’autostop
per inseguire la musica del momento. Questo struggente sentimento lo comunico a
Silvia la sera quando rientro a casa: “Certo
però … sarebbe ganzo poter prendere uno zaino, poche robe e partire. Magari si
potrebbe andare domani a Roma in piazza. Che ne dici?”. E lei: “Ma che sei pazzo? … a parte l’idea da
scheggiato per uno che ha fatto un infarto tre anni fa e prende una manciata di
pillole al giorno. L’hai viste le previsioni del tempo per domani? Acqua a
catinelle sopra la capitale. E il tuo babbo … e la mia mamma ... e i … “.
Ma si ferma per
accendere il fornello di cucina.
Stava per dire,
son sicuro ci scommetto il dito mignolo del piede sinistro: “ … e i ragazzi?”. Poi si è ricordata che loro oramai fanno a meno
di noi e quindi sarà il caso che non ce lo scordiamo.
E mentre sto
pensando la parola di attacco per ribattere arriva Giulia.
Ci saluta e
comunica che Guido sta arrivando per suo conto con i suoi amici. E poi mi fa: “Senti babbo … allora mi ci porti tu
domattina alla stazione del treno? Si parte verso le nove e lungo strada si
prendono le altre tre. Una arriva per conto suo mentre l’ultima delle sei ci
aspetta in città. I panini li ho preparati io e tu basta che ci accompagni per
le nove e mezzo”. E io: “ Certo che
ti porto, non ci sono problemi. Che andate a Firenze?”. E lei: “Ma che dici? Non ti ricordi proprio niente.
Sei veramente di fuori con il capo. Te l’ho detto la settimana passata saranno
dieci giorni. Andiamo al Concerto del Primo Maggio in piazza di Porta San Giovanni a Roma”.
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