Lettori fissi

25/06/21

Il riso abbonda

Il riso abbonda |2021 La prima volta ci son arrivato in autobus. Una scatola con quattro ruote, di lamiera arancione, cartellata davanti e in tergo, con il “sei”. Puzzolente e rumorosa come tutte le linee pubbliche del tempo. Questa unisce l’ospedale di Scandicci con quello di Careggi, si ferma un momento al numero 1 di via Pagnini e qui scendo anzi scendiamo. Io sottobraccio al mio compratore che a sua volta mi ha prelevato dal pizzicagnolo giù in fondo alla strada. “Mille lire per un chilo di riso arborio, chicchi ricchi ideale per risotti, marca Gallo quello che non scuoce, cottura quindici o giù di lì, impacchettato con la scatola verde e il pennuto in evidenza.” Un affare? In realtà il suo prezzo in quei primi giorni di settembre millenovecent’ottantuno. “Forse – arguì il portatore del riso – se ci pensavo prima allo spaccio della cooperativa giù a casa l’avrei pagato meno di sicuro.” Ma il tempo fugge e il treno per Firenze era in partenza. Ergo basta con i rimpianti e andiamo a suonare il campanello del piano rialzato, pianerottolo a destra. Al suono stridulo fanno eco: “Arrivo … calma … eccoci”. La porta si apre e mostra quattro loschi figuri; giovani, curiosi e studenti. Proprio come il mio accompagnatore che fa subito amicizia e comunella con i nuovi compagni. Saranno insieme per la prossima annata e quindi profittano dell’occasione per conoscersi davanti ad un caffè e un pacchetto di cicche. Quanto a me; che accompagno il nuovo abitante della casa e dovevo essere il regalo ai suoi abitanti; son dimenticato “Nella stanza d’ingresso, sopra alla mensola dell’unica nicchia. Quella appena a sinistra sopra l’interruttore”. E li rimango per un paio di stagioni con l’unica compagnia del tristissimo Siemens S62 grigio tortora ammalata. Che tra i pregi non ha grandi proprietà conversative anzi non ne ha proprio. “Muto come un pesce” potrebbe essere un aggettivo che lo rappresenta bene. D’altra parte cosa si possono mai dire una resina e un cereale? Fatto sta che da quella posizione osservo e partecipo, anche se solo come spettatore, alla vita della casa. Sbircio gli occupanti quando escono dalla doccia o quando si radunano per la cena, quando si preparano per uscire e quando ricevono compagnia. E via di altro. Del mio ospite, appena conosciuto, posso tuttavia raccontar solo difetti e mancanze a meno dell’unica mossa azzeccata il giorno della venuta in casa. Mi cacciò sullo scaffale e poi mi orientò verso lo specchio. Proprio di fronte a quello lungo che sta a lato dell’attaccapanni. Quindi mi posso vedere e rimirare tutte le volte che voglio. Godo della vista del mio bel pacchetto e col tempo ho imparato a leggere anche le scritte più piccole sul fianco della confezione. Una in particolare mi preoccupa e non poco. Al termine di una serie di discorsi informativi su tipo, provenienza, valori nutrizionali, cottura, preparazioni usi e costumi l’ultima mi mette apprensione per non dire paura. Trascrivo precisamente: “Prodotto: 12-07-1978. Scadenza: 11-07-1981”. Ergo son valido solo fino a quel giorno. Le stagioni fanno il loro mestiere; passano. Dopo l’autunno ecco l’inverno e poi la primavera. L’estate comincia il ventuno del mese delle lucciole. Da alcuni giorni la casa è frizzante e i suoi abitanti in continuo movimento. Come se fossero stati morsi dalla tarantola schizzano tra le stanze e il giardino. Non certo per via di studio o esami da sostenere. Anzi un paio di loro han proprio mollato. Son sempre dietro a notizie sportive sia in video che in audio. C’è poi quello con il cuore a strisce nerazzurre che la mattina esce di buon’ora e torna accompagnato da tutti, ma proprio tutti, magazine e quotidiani sportivi compresa, come potrebbe essere altrimenti, la mitica gazzetta sui fogli rosa. Ogni sera organizzano un trattenimento. Cena e urla e bandiere e trombette. Finalmente son riusciti a trovare la prolunga per l’antenna e adesso il catafalco in bianco e nero, in uso alla casa, fa mostra di sé sul tavolinetto di cemento che un tempo sopportava la composizione floreale della legittima. L’immagini son decisamente sfuocate ed approssimative ma qualcosa si vede. E il resto, che ci frega, s’immagina. Questa rumba va avanti tutti i giorni fino a notte inoltrata. Dopo la gara di solito gli eroi escono a festeggiare per strada e tornano belli caldi e col tasso alcolico superiore all’ammesso. Rammento che le feste ed i cortei furono particolarmente rumorosi e giocosi il ventinove e il successivo cinque. I tifosi si stavano scaldando per la finale. Che puntualmente arrivò il giorno che tutti sapete. Come anche la solita organizzazione di cena fredda, per non perdere tempo a cucinare, a base di crudités, affettati e formaggi. Vino delle vicine colline recuperato dalla solita mescita e via con i cori. Ma questa volta non andò così. Il mio portatore di pacchetto si ricordò, finalmente, della mia esistenza e mi propose come piatto forte del desinare. E se promettete di non sparger troppo voce vi dico la verità. “In tutti quei mesi passati in penombra sulla mensola mi ero allenato e dai oggi e picchia domani ero riuscito a muovere un poco alcuni chicchi che, sbattendo e strusciando, muovono la scatola di alcuni centimetri. E quel giorno, che era il mio ultimo da commestibile, le forse mi si moltiplicarono al punto da saltellare come un grillo all’omonima festa alle Cascine. Come sia zompai e saltellai verso il bordo”. “E caddi preciso sulla testa dell’ospite”. In prima mi maledisse e poi in seconda lesse la tabella con le istruzioni e le scadenze. Ecco che un piano geniale si affacciò alla sua testolina bacata. Rammentò un proverbio latino, o giù di lì, imparato alle medie e declamò: “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”. Ripeté la locuzione mentre riempiva la faccia di un sorriso ebete. Si specchio a tutta parete. La cosa poteva funzionare. Organizzarono le cibarie. Fui aggiunto alla lista delle cibarie come “risotto alla salsiccia” e subito messo sul fuoco. Cotto con tutti i crismi e i trucchi imparati dalle nonne e, appena mantecato, coperto a riposare per i prescritti minuti tre. Nel frattempo il gruppo, i soliti tredici, si accomodò in due file, la prima accoccolata, di fronte alla Pentax munita di autoscatto. Si disposero perbenino, “… ognuno come gli va …”, con il sorriso ebete stabilito poco prima. Il cartellone passò di mano e si fermò giusto sopra alla pentola fumante. Ecco. La scena era creata. Adesso potevano acquisire l’immagine da lasciare ai posteri ad imperitura memoria. In realtà a dimostrare ai nipoti quanto erano imbecilli. Ma questo è. Il riso abbonda sulla bocca degli stolti. Click.

18/06/21

Green phone

Green phone | 2021 La prima volta ci son arrivato impacchettato. Protetto da una bella scatola di cartone con sopra stampate alcune mie immagini da più lati. Sul davanti c’era pure scritto a mano il nome e il cognome dell’abbonato. Ero stato prelevato dal quarto piano di un grande scaffale confinato in una gigantesca sala piena zeppa di altri miei simili. Tutti dello stesso, tristissimo, colore grigio tortora, con il disco a dieci numeri, il cartoncino per il numero e la cornetta appoggiata sopra al corpo. Ops non mi son presentato. “Siemens S62, conosciuto come bi-grigio, edizione IX, codice 235711FI”. La scocca di moderno materiale termoplastico mi fa presupporre che ci sarò ancora, non so dove ma sarò in pista, quando voi sarete impacchettati sotto terra. Son sceso dalla Panda bianca, con la scritta “Sip” rossa sulla portiera, sottobraccio al tecnico che mi deve collegare alla spina tripolare. L’operaio non deve essere un’aquila visto che appena messo piede a terra avvia la tiritera dell’indirizzo: “Firenze, via Pagnini n. 1, suonare”. Il primo campanello lo sbaglia e non va meglio col secondo, solo al terzo c’acchiappa. Come sia all’ora del thè sono piazzato e funzionate. La suoneria è la medesima degli altri miei consimili. Estremamente democratica ed uguale per tutti: “Drinnng Drinnng”. Dopo la prova audio con la centrale operativa l’esperto se ne va senza salutare mentre io, anche perché non so dove altro andare, rimango. Nella stanza d’ingresso, sopra alla mensola dell’unica nicchia. Quella appena a sinistra sopra l’interruttore. Appena si chiude la porta il padron di casa mi sistema per le feste. “Considerato la destinazione della casa per i prossimi anni ed onde evitare problemi e discussioni -si si … pronuncia a voce alta proprio queste parole- ora ti regolo le chiamate con questo lucchettino appena arrivato”. E mi caccia dentro lo zero un freddo cilindro di ottone che stabilizza con la chiave. Dopo di ché spenge la luce e mi lascia in penombra. Vivo in pausa per tutto l’agosto dell’ottantuno. Poi la casa si anima. Ne giungono cinque. Le dita di una mano per altrettanti studenti che arrivano alla spicciolata tra settembre e la fine dell’anno. Due per ognuna delle due camere grandi più uno nello stanzino accanto all’ingresso. Li sento muoversi e li vedo parlare soprattutto quando abitano la minuscola cucina che nasconde, accanto al frigo, la porticina che accede alla vera chicca dell’abitazione. Un giardino, finto all’italiana, nel cortile di un isolato ottocentesco. Rammento che lo usarono lungamente e ripetutamente durante tutta la successiva primavera. Anzi avevano preso lo sfizio di bandire cena e festino a seguire per ogni superamento di esame. Il desinare variava sempre le portate ma mai il primo piatto che sempre inesorabilmente era Risotto alla salsiccia. Questo sempre accompagnato dal cartello scritto durante la prima volta: “il riso abbonda nella bocca degli stolti”. Grasse risate, foto ricordo e dichiarata invidia dei condomini. Poi una sera verso la fine di giugno succedono due fatti: gli occupanti riescono ad adattare un filo di ferro al meccanismo del lucchetto che mi blocca in uscita le chiamate e uno degli ospiti arriva con una prolunga telefonica di metri quindici. Questo significa che sono libero di telefonare e che finalmente vedo il cielo. Goduria totale. Fino all’undici del mese successivo quando la combriccola organizza il festino in occasione della finale spagnola. A Madrid gli azzurri si giocano la coppa mentre a Firenze mi si giocano a Murino. Vince chi copre più figurine dei calciatori durante il tempo concesso. Sono vinto da l’interista che subito mi abbraccia e mi giura eterno amore. Dopo cena ci godiamo la partita. A seguire la quale saliamo, siamo in tredici, sulle due “erre quattro” d’ordinanza a scorrazzare per la città. La notte è lunga ma alla fine spunta il sole e viene l’ora del ritorno al giardino. Qualcuno propone, sospetto di sapere chi sia, l’ultimo bicchiere della staffa. E mentre il liquore travasa di bocca in bocca il mio possessore abbranca una bomboletta da graffitista e sadicamente esclama. “M’è sempre stata sulle palle la cornetta color tortora”. “Agitare e non mescolare …” – parafrasando la conosciuta affermazione di 007 – “… montare il beccuccio, orientarlo e Ssssst Ssssst” - ripetuto più volte. L’ugello fa il suo mestiere e spande il colore in maniera uniforme. La triste cornetta diventa brillante e verde. Son felice e alla moda e anzi magari son io che anticipo i tempi. Un vero Green phone

11/06/21

Quella dei turchi

Quella dei turchi | 2021 L’ultima volta è stato di giovedì. Una decina di anni fa. i primi giorni di un settembre particolarmente mite. Era capitato di usufruire di un soggiorno premio che aveva avuto in sorte un amico collega di lavoro. Il trilocale sulla spiaggia serviva giusto come punto di appoggio: sveglia, doccia e colazione oltre al riposo notturno. Le sole quattro funzioni che c’interessassero. Per il resto una settimana da turisti senza metà: sole e mare, gastronomia e archeologia, lunghi viaggi e tramonti imperdibili. Niente di organizzato. Tutto al momento. Tutto fresco come un pesce di pescato. Usavamo la base come guardaroba e l’auto in fitto, navigatore e fresco compresi, per gli spostamenti sempre più lunghi e perigliosi. Duemila e trecento chilometri in una settimana, un botto di carburante e altrettanti biglietti di cartamoneta. Oltre ad una quindicina di granite e brioche col tuppo. La marina della città bianca ci faceva da base. Per il resto; in doppia coppia come un poker d’altri tempi; via la mattina presto e ritorno la sera tardi. Come dei forzati della vacanza per scoprire cose e case e persone le più disparate. Quel giorno siam tornati a veder la scalinata. Quella di Santa Maria del Monte a Caltagirone. La mia prima volta data della metà degli ottanta appena dopo la laurea. Rammento che saltellavo come un grillo parlante su è giù per i centoquaranta gradini. Felice come Guido; lui ancora non lo sapeva ma avrebbe ripetuto gli stessi gesti una ventina d’anni dopo; caraccollavo a destra e a manca da un capo all’altro dei palazzi che la contengono. E ogni tanto mi buttavo per terra a catturare immagini e disegnare i decori delle maioliche delle alzate. Quell’ora fu fantastica. Nonostante le canzonature dei compagni di viaggio da allora mi porto dentro quei sessanta minuti. In cuore. Ci son poi tornato più volte. Quasi come un mantra ho cercato occasione, ad ogni venuta nell’isola, per ripetere la visita. Le conto sulle dieci dita meno una e con quella di oggi arrivo al conto pari. E per altrettante volte ho cercato un’ altra scalinata. Questa devo dire senza mai trovarla. Ho cominciato la ricerca delle immagini dal momento che ne ho avuto notizia su di un libro di geografia delle medie e quindi una cinquantina, quasi, di anni addietro. L’ho continuata col viaggio in “erre quattro” che ci portò al periplo dell’isola su quattro ruote. Ancora dopo con la famiglia a completo e la tenda a seguito. Diverse volte l’anno che c’era da seguire i lavori della piazza di Grammichele. Tutte le volte c’ero andato attrezzato con tanto di mappe, foto, disegni, descrizione di viaggiatori e quanto altro. Ma niente. Non avevo barra avevamo mai avuto il piacere. Tutto questo malgrado la proverbiale capacità di orientamento universalmente riconosciuta. Ma questa volta avevamo la tecnologia dalla nostra parte. L’auto è dotata di navigatore aggiornato, almeno così ha risposto a precisa domanda il locatore. Abbiamo i telefoni intelligenti anche loro dotati di sistemi di navigazione di ultima generazione. Prima di partire mi son dotato di dettagliata carta topografica a colori. Mi son fatto arrivare anche un libro di geologia dove si ragiona della particolare marna bianca con cui è costituita la scogliera. Da certi parenti ho preso in prestito un preciso binocolo zeiss un poco vecchiotto ma con la confezione nuova di pacca. Tutto quanto approntato e funzionante. Insomma si pole partire. La mattina mi son accordato con il resto del gruppo. Dalla città della ceramica al luogo della ricerca ci sono centoventi, un paio d’ore per queste strade. Dopo pranzo si scaldano i motori e si va. Verso le sedici siamo in vicinanza di Agrigento e della sua “valle dei Templi” che serbiamo per il tramonto. Adesso ci tocca il bagno lungo costa. Tac. È il momento di accendere tutti i sistemi di ricerca. Bip. Nessun esito: Nichts, rien, nothing, nada. Insomma niente. La tecnologia ci manda in giro per città e campagna. A vuoto per un’ora e anche di più: stradine senza sfondo, località che non esistono, perdita di segnale, aggiornamento in russo e simili quisquilie e pinzillacchere. Evidentemente questo luogo non ne vuole sapere di esser trovato. È un fantasma o forse son io che non lo devo visitare per un qualche disegno superiore, fattura, sfiga o che ne so? Questo non so. Son però sicuro, ho fatto i conti proprio stamani, che son quasi cinquanta che mi voglio cimentare nell’arrampicata della scalinata. Quella dei turchi.

04/06/21

Recinto

Recinto | 2014-16 Sono recinti gli orti conclusi e i chiostri, i cimiteri e le città murate, i castelli e gli stadi, la grande muraglia e il labirinto. Quest’ultimo è un particolare modello di recinzione. Ci spiega J. L. Borges che: “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”. Il mito ci racconta del primo di questi modelli. Del palazzo reale di Cnosso e del suo mostruoso abitante che si nutre di fanciulli; dell’eroe senza macchia e neanche un briciolo di paura e della figlia del re che se ne innamora. E soprattutto ci parla del filo rosso che serve a ritrovare l’uscita dopo che il buono ha trucidato il cattivo. Questo è il labirinto che ho visto per primo. L’ho veduto a Lucca dove “Sotto l’esonartece occidentale del duomo fu murata sulla parete nord del campanile una lastra in pietra raffigurante un labirinto”. L’ho guardato e toccato al tempo degli studi quando ero in giro per la Garfagnana a studiare paesi e città, fiumi e ponti del diavolo, paesaggi e piani regolatori. L’ho fotografato e stampato, ricalcato, disegnato e anche calcato col gesso. Ho studiato per anni il suo negativo. E poi l’ho usato per il progetto del tavolo di pietra, marmo e terracotta che adesso riposa in pace sotto il Salice lungo il confine. Il confine è una linea. Molto spesso, specialmente se stiamo fuori dal recinto, è un tracciato virtuale e altre volte è un solco sul terreno. Un fosso che delimita due possedimenti. Un limite ben definito tra chi sta dentro e chi sta fuori. Così che Romolo uccide Remo dal momento che ha osato scavalcare il solco appena tracciato che segna il limite della città fondata. Estratto da “Aree di confine”, Margine (a note) pag.. 25-28. Ordine APPC Arezzo, 2017

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...