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Palazzo del Littorio, Montevarchi, 2014 |
... Te l’ha dir te la dirò? | 2004
L’automobile
procede veloce sulla strada tutta curve che conduce a Sansepolcro. E’ una
Morris del 1958 costruita sei anni fa, proprio come me, nelle officine di
Manchester. Nero fumo di Londra e con i fanali di dietro fatti a pinna molto in
voga nei primi anni sessanta.
La conduce babbo
e accanto ci sta lo zio. Io, sei anni appena compiuti, sono sul sedile
posteriore insieme a Dino; un lontano parente pensionato che ha lavorato come
capomastro edile per quarant’anni. Il viaggio di lavori dei tre grandi è
occasione, per me, della scoperta di un posto dove non sono mai stato e dove
più tardi, ai tempi dell’arte, ho scoperto Piero il divin pittore.
Ma mi sono
appena appisolato e non voglio parlare di arte. Il sogno mi porta nel campetto
vicino a casa dove sicuramente i compagni: il Rosso e il Cavallo, il Taccone e
il Frenchi, il Rando, il Papero e gli altri; sono a tirar calci al pallone. Nel
sogno anche io, detto Gionni, sono con loro a ruzzolarmi sopra la fresca erba
primaverile. La … buca con acqua … fa sobbalzare l’auto e mi riporta alla
realtà. Son desto e mi trastullo con un soldatino di plastica verde che mi
trovo in tasca.
Dino si accorge
del mio gioco e subito attacca: “ … ‘O
nini … che la vuoi sentire una novella …?” Mi conosce bene e sa che vivo
sulle nuvole e mi piacciono i racconti e le storie e le novelle. Io mi metto in
posizione di ascolto e lui prosegue. “La
novella dello stento che durava tanto tempo … te l’ha dir te la dirò? … si o
no?”
Io rispondo
tentennando il capo in su e in giù e allora lui riprende. “La novella dello stento che durava tanto tempo … te l’ha dir te la
dirò? … si o no?”
E io: “Si! Ma te l’avevo già detto”.
Allora riattacca
di nuovo. “La novella dello stento che
durava tanto tempo … te l’ha dir te la dirò? … si o no?”
Io sono
abbastanza ingenuo da rispondere di nuovo. “Si
… si … si …
E
lui ancora ripiglia. “La novella dello
stento che durava tanto tempo … te l’ha dir te la dirò? … si o no?”
Alla quarta
novella anche l’ingenuità che è in me si arrabbia. Mi sento preso in giro e
mentre tutta la macchina si mette a ridere; si proprio tutta la macchina:
volante e freni compresi; mi metto zitto e faccio il broncio. Ma il vecchio
conosce bene il nuovo e sa che se lo accarezza sulla nuca e gli racconta del
cantiere tutto passa.
Allora il
vecchio attacca. “ Mi ricordo di quando ero giovane e si faceva il palazzo del
Littorio giù a Montevarchi. Che te lo racconto?”
Basta un alzata
di spalle del nuovo; come a dire “ … fai
tu”; perché il vecchio capisca di averlo in pugno e proseguire nella
storia. “Ero giovane allora e pieno di
forza; mica come adesso che sono vecchio. Son passati quarant’anni ma mi
ricordo come se fosse ieri quando ci sono andato il primo giorno. Avevano
iniziato i primi scavi i fondazione e gli sterratori picconavano il terreno
argilloso mentre i manovali con i badili si occupavano della pulitura del fondo
di scavo. Più in la gli agrimensori erano intenti a piazzare i fili fissi degli spigoli del
fabbricato e intanto i muratori iniziavano le prime gettate di calcestruzzo. Mi
presentai al capomastro; un certo Vanni di Mercatale; che mi voleva conoscere e
sapere delle mie esperienze lavorative. Gli raccontai dei lavori a cui avevo
partecipato e lo convinsi che sapevo fare i muri diritti e a piombo, i tetti e gli intonaci, i pavimenti e le scale.
Insomma avevo in mano il mestiere. Mi assunse con la qualifica di caposquadra e
ci mettemmo d’accordo per l’indomani. Era inverno inoltrato e la mattina alle
sette il freddo pungente ti segava le mani. Giorni duri. Dirigere dodici
persone per dodici mesi l’anno non è uno scherzo. E poi non c’erano le macchine
e neanche gli attrezzi d’oggi. Dopo fatte le fondazioni si cominciarono i muri.
Pietra e mattoni spessore centimetri sessanta e passa. E poi i carpentieri
piazzarono i ponteggi in legno. Con le abetelle e le assi e i chiodi. Ci voleva
una certa maestria a costruire un ponteggio. Mica come oggi che son di ferro e
fatti con tubi e giunti ed è facile montarli e smontarli. Ci riuscirebbe anche un
bambino. Ci riusciresti anche tu. E la calce poi si faceva a mano. Si spengeva
prima in grandi buche fatte per terra. E poi si impastava con il badile insieme
alla sabbia del fiume. Acqua e olio di gomito. Pensa alla fatica degli
impastatori. Dalla mattina alla sera a rivoltar terra come quei lombrichi che
si adoprano per esca quando ti porto a pescare. Pensa. Non c’erano betoniere o
che so io. Tutto a mano. E poi i ponteggi crescevano di pari passo con i muri.
E si piazzavano le carrucole con le funi. E si tiravano su i materiali. E poi
il primo solaio. Con le volterrane e le travi di ferro come quelle usate per i
binari del treno. Armature e casseforme e getti. E poi ancora muri e solai. E
dopo il tetto. Tutto di legno di castagno e stagionato bene che altrimenti si
muove. Grandi capriate a tutta luce e travi e travicelli e tabelloni. E poi la
copertura con le tegole e i coppi cotti a legna dalla fornace della Ginestra.
Venne costruita anche a torre. Tutta in mattoni e travertino così come i
cornicioni e le lesene e il grande portale di ingresso. Ogni tanto veniva da
Firenze l’architetto che svoltava grandi rotoli di carta dove c’erano riportate
le istruzioni e le misure. Piante e sezioni. Prospetti e particolari. Il
progetto insomma. Il progetto di un opera moderna e contemporanea. Almeno così
dicevano i proclami dell’epoca. E poi si iniziarono a posare gli impianti e gli
impiantiti. A fare gli intonaci dentro e fuori. I falegnami montarono le porte
e le finestre. Gli imbianchini dipinsero le pareti e il pittore realizzò il
grande affresco della sala grande. Illustrava le glorie del regime e mi pare
che adesso sia ricoperto da un paio di mani di bianco. Intanto la sera, dopo il
lavoro, mi mandavano a scuola. Alla suola edile per imparare a leggere le carte
e i disegni. Mi fornirono anche di un paio di libretti. Uno era una specie di
manuale con sopra riportati i rudimenti del disegno tecnico e on le istruzioni
per costruire un edificio dalle fondamenta alla copertura. Il secondo trattava
dei cinque ordini di Vitruvio e c’erano disegnati capitelli e ornamenti. Tori e
decori. Gole e sottogole. Mi pare di averli ancora cantina. Speriamo che i topi
non se li siano mangiati. Quando si torna a casa se vuoi te li regalo.”
Il nuovo ascolta
attento la descrizione del cantiere e non vede l’ora di tornare al paese per
aprire le pagine dei libretti e navigarci dentro. E poi negli anni successivi
naviga sopra ai libri veri. Libri di storia e di tecnica. Libri di tecnologia e
di critica. Libri di arte e di architettura. Anche lui ambisce a costruire un
palazzo o meglio a progettare: “ … un
opera moderna e contemporanea.”
E studia e
disegna. E disegna e studia. E intanto passa diverse estati nei cantieri del
babbo a prendere dimestichezza on i materiali. Impasta la calce e il cemento.
Trasporta mattoni e spinge carriole. Impara il cantiere. Il nuovo si prepara a
diventare architetto. E visita le opere del passato e quelle contemporanee. E
poi comincia a montare qualche mattone per conto suo.
Alcune piccole
opere che prendono spunto dalla tradizione ma non rinunciano all’uso delle
nuove tecnologie. Crede nel valore della storia e si stupisce al pensiero delle
informazioni che corrono velocissime sulla rete. Vive una realtà provinciale ma
non rinuncia al pensiero globale. Prova gli archi e le lesene. Prova le pareti
tutto vetro e i tetti di lamiera. Prova i muri di mattoni a piombo e i pilastri
di acciaio sghimbesci.
Riflette sulla
bellezza delle nostre città storiche. Si deprime al pensiero delle nostre
periferie contemporanee tutte piene di archi e lesene; pareti tutto vetro e
tetti di lamiera. Un bel pasticcio. Tra la facilità generalizzata della copia tout-court del vecchio e la tentazione
di stupire a tutti i costi del nuovo crede nella strada dell’adeguamento del
linguaggio tradizionale alla realtà contemporanea per le persone di oggi che
comunicano con l’elettronica ma
continuano a mangiare la ribollita. Crede nell’architettura dei luoghi adeguata
agli usi e ai pensieri contemporanei.
Adesso però devo
scegliere. Vecchio o nuovo? “Te l’ha dir
te la dirò?”
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