Ex voto | 2014
Tre anni fa,
giusto ieri, mi son preso un infarto.
“Niente di
preoccupante …” mi han detto dopo i medici. Ma provate voi a sentire un dolore
strano nella parte superiore del braccio sinistro. Un dolorino che assomiglia
alle doglie della crescita quando le ossa e sopratutto i muscoli, la pelle e i
tessuti si stirano come se fossero di plastica. Quella delle borse della spesa
usate un tempo. Del tipo assolutamente non biodegradabile per intenderci.
Ecco.
Provate un
pochino e poi si ragiona. E intanto il dolorino continua e si estende dal braccio
fin sopra al cuore. Il torace pare ingrossare a dismisura perché al posto del
muscolo cardiaco c’è un sasso che spinge e pressa quasi come volesse uscire. Mi
sento improvvisamente debole e comincio a sudare. Ma freddo. Sudo freddo anche
si siamo all’inizio del mese dedicato alla Madonna e fa un caldo d’inferno.
Sono seduto sul
divano di casa intento alla visione, per la cinquantaduesima volta, del film
“Some Like It Hot” del grande Billy Wilder. La M.M. se n’è appena uscita con la
battuta sulla ciliegia con il verme e io non sorrido. E neanche ammiro le forme
della bionda finta svampita. Mi contorco dentro e fuori. Mi si aggrovigliano le
vene e le cartilagini. Le mosse non passano inosservate agli altri di casa che
si attivano, senza sé e senza ma, e mi accompagnano al plesso sanitario
Il resto non ci
interessa qui.
Tre anni dopo mi
trovo impegnato in un giro all’isola d’Elba. È un affare tutto compreso e tutto
organizzato. Qui di seguito copio un estratto del programma così come me
l’hanno passato: “Ore 14,30 incontro con
le guide nella hall dell’hotel e svolgimento del percorso trekking; zona nord
di Monte Capanne.” Voglio
festeggiare i millenovantacinque giorni più uno dall’evento. E lo voglio
festeggiare insieme e tanta gente. E allora eccomi qui. Sono ospite e
sorvegliante di una gita scolastica di settanta ragazzi più cinque adulti oltre
ai due autisti dei pullman.
La gita inizia
al parcheggio della Cabinovia biposto che conduce ai mille metri del Monte
Capanne. Il sentiero è ripido e scosceso ma tanto la stazione della funivia è
vicina. Vedo l’impianto in funzione e pregusto il viaggio imprigionato dentro
quelle strane gabbie. Immagino che la passeggiata vera e propria inizierà sulla
vetta dove sarà possibile ammirare l'isola d'Elba in tutti i suoi dettagli, le
isole dell'arcipelago e la
Corsica , mentre all'orizzonte, se non ricordo male, campeggia
il profilo della costa toscana.
Appena la
comitiva giunge allo scalo alcuni ragazzi si fiondano nel bar per acquistare le
solite bibite gassate. Ma non fanno in tempo perché la guida ci fa segno di
proseguire. Il sentiero diventa viottolo e poco dopo percorso lastricato. Il
paese di Marciana ci viene incontro con il suo tessuto medievale caratterizzato
da strade strette e ripide con case attaccate le une alle altre. Pare di
camminare dentro un labirinto in salita. Sembra di star dentro un racconto di
J. L. Borges.
Bellissimo.
Il tragitto dura
pochi minuti e li merita tutti. I vicoli ci conducono verso la fine
dell’abitato dove incontriamo la
Fortezza che lo domina. Qui finalmente una piccola sosta ci
consente di rifiatare e frugare negli zaini alla ricerca dell’acqua.
Ed è subito
dietro le mura di granito che inizia il trekking. La mulattiera sale
repentinamente e diventa quasi subito una piccola strada lastricata in pietra
locale. La via si snoda in un boschetto di lecci e pini marittimi che ogni
tanto si aprono verso destra sul mare sottostante. Non ci sono indicazioni e
neanche cartelli circa il luogo della nostra meta. Poi a un certo punto sulla
sinistra appare un piccolo altare. È tutto grigio e a prima vista pare
scalpellato direttamente nelle rocce che affiorano tutt’intorno. La sua forma
ricorda un dito che spunta dal terreno e si alza verso il cielo. La parte
interna del dito è rivolta verso il sentiero ed è scavata a formare una nicchia
semicilindrica che in alto termina a mezza cupola.
Appena gli son
di fronte mi fermo.
In alto c’è una
mattonella di ceramica, piccola e rotonda, che porta impresso in arancione il
numero romano uno. Una parte dell’interno è dipinta a rappresentare una scena
religiosa svoltasi, con tutta evidenza, un paio di mila di anni fa. Si tratta
del “Cristo flagellato di fronte a Pilato”. Leggo il titolo sopra ad una lastra
di ottone con su inciso tutti i dati dell’opera compreso l’autore e quanto
caffè ha dovuto bere per terminare il murale.
E allora
capisco.
Anch’io, che son
duro come un sasso di granito dell’Elba, comprendo. Sono di fronte alla prima
stazione di una Via Crucis che
s’inerpica verso l’alto. La mia fermata estatica per la visione del manufatto è
passata inosservata al resto della comitiva che si trova, oramai, al secondo
dito e pare intenzionata a proseguire senza di me. Ed io li lascio andare. Mi
procuro un ramo caduto e, lavorandolo con il fido coltellino finto svizzero, ci
ricavo una specie di bastone da passeggio che mi possa aiutare nella salita.
Intanto gli altri sono spariti oltre la terza stazione e oltre.
Io invece decido
che me le vedo tutte e quindi che se ne vadano pure.
Me la prendo
comoda, anche per via dei trascorsi al cuore, e m’incammino verso la seconda.
Mi ci metto davanti distante due metri e ventisei. Osservo, commento a voce
alta e via. Altra stazione. E poi ancora. Dopo la settima svolto una curva e
trovo una radura all’ombra di pini secolari. Ritrovo anche i miei compagni di
escursione con le guide e tutto l’ambaradan. Si stanno riposando seduti sopra
ai massi o distesi per terra alla rinfusa. Intenti a rifocillarsi. È
impressionante quello che gli adolescenti riescono a cacciare negli zaini.
E anzi è ancora
più incredibile quello che ci tirano fuori.
Seguendo
l’esempio di Eta Beta, che dal suo
gonnellino riesce a estrarre ogni sorta di oggetto che gli necessiti, alcuni
dei nostri eroi frugano nel tascapane e si approvvigionano di ogni sorta di
cibarie. In ordine sparso e assolutamente casuale ricordo di aver visto
spuntare: noccioline da sgusciare, ciucci di gomma, lattine di gusti vari
compreso la cola alla ciliegia, patatine di dieci modelli almeno, gomma da
masticare colore fucsia e sapore uguale, torrone bianco rosso e verde, pane a
cassetta spalmato di nutella, croccante ai pinoli e noci, panino con la
frittata, caramelle le più diverse e colorate, cioccolatini e chupa chups tutti
i gusti più uno. E poi ci fanno due marroni tanti con le campagne di
prevenzione dentaria, la cura della carie e l’apparecchio per i denti. Con
tutte le schifezze che si pappano fin dall’asilo è già un miracolo che ce li
abbiano ancora.
I denti.
Comunque, a
differenza del vostro raccontatore, appaiono freschi e riposati. Evidentemente
la differenza di età, peso e allenamento gioca a loro favore in maniera netta.
E in barba a tutte le porcherie che stanno assumendo son già pronti per
riprendere la scalata verso la cima del monte. Io invece non ancora. Ho bisogno
di una sosta. Sto ansimando notevolmente e sudando anche. Mi distendo sopra a
un grande masso affiorante tra i cespugli per l’agognato riposo. Mi prendo
almeno una cinquina di minuti di pausa e medito di farmi un pisolino. E durante
la siesta mi ritornano in mente, chissà poi perché, i fatti di tre anni prima.
E siccome, durante il sonno, sono un fine parlatore adesso quegli accadimenti
saranno materia di gossip per la comitiva tutta.
Poi una mano mi
scuote e mi desta.
È la guida che
invita alla partenza. La comitiva si rimette in moto e si avvia per il
sentiero. Ed io anche. Durante il viaggio lascio stare le altre stazioni e
domando informazioni su questa strana carrozzabile pendenza media venti per
cento e forse anche di più. Una strada non adatta per le macchine ma piuttosto
da fare a piedi o tutt’al più col ciuco. “E no … - fa lui - … il prete di
Marciana da giovane ci veniva a dir messa tutte le domeniche con la sua Husqvarna 250 cc. del
settantasette. Una bestia che non ti dico. Tutta gialla e blu come la bandiera
della Svezia. Due tempi e sei marce. Pareva una scheggia”. E io “Ma sei sicuro?
Questa ancora non l’avevo sentita. Un sacerdote con la moto da cross. Mi pare
incredibile”. E lui “ Son sicuro? Me la ricordo. Ma no bene, semmai un po’ di
più. Ero piccino ma la mi’ mamma mi ci portava sempre ogni giorno di festa alla
funzione dell’undici. Noi a piedi e lui con quel siluro su per l’erta che
pareva uno stambecco”. E io “Va via Giovanni che tu mi pigli in giro. ‘Un ci
credo neanche se lo vedo”. E la guida “Ora non lo potresti vedere in moto.
Adesso che ha perso tutti i capelli viene a cantar messa solo per l’Assunta e
per salire usa una Land Rover Defender dell’ottantasette. Quella che pare messa
insieme con chiodi e bulloni. Disegnata per luoghi estremi come questi boschi.
Passo lungo, cinque porte, colore Sabbia della Biodola. Ti basta o vuoi anche
sapere la targa?”.
A quel punto mi
arrendo e mi concentro sul panorama.
Le pendici che
stiamo scalando sono caratterizzate da macchia mediterranea e da grandi rocce
granitiche affioranti, alcune erose dal vento, che hanno assunto col tempo
curiose forme. Alla nostra destra poi la montagna si lancia a picco in un mare
blu cobalto che vira in lontananza verso l’oltremare. Il percorso continua irto
e faticoso fino alla fine.
Fino al dito
numero quattordici.
Al termine della
strada della croce, poco sopra i seicento metri sul livello del mare, ci viene
incontro il Santuario della Madonna del Monte; il più famoso e antico
dell’Isola. L’edificio si presenta a noi dal dietro. La torre della campana,
che ha occupato il posto dell’abside, si erge sopra al tetto a capanna del
tempio. Il suo apparato decorativo pare oltremodo interessante. Nell’ordine si
apprezza: la parte basamentale in sassi di granito intagliati con perizia, i
decori e le lesene a segnare i tre livelli soprastanti, la bifora
caratterizzata dallo snello pilastro scalpellato, la stanza delle campane
aperta su tutti i lati e la merlatura alla fine della composizione.
Probabilmente il campanile non ha più di cent’anni. Lo stile, che appare in
verità abbastanza sgraziato, pare essere un neogotico reinterpretato da un
tecnico, forse un ingegnere, che ha studiato la materia anche se gli manca la
poesia.
Il gruppo si
disperde sopra il piano lastricato che ci si apre davanti: chi sotto alcuni
tavoli di legno, chi a sedere sul muretto che circonda l’insediamento, chi a
cercare una fonte per bere. Io mi dirigo verso l’ingresso della chiesa. Ne
costeggio il lato, stretto da una bassa costruzione che porta sul fianco il
segno giallo e nero del telefono pubblico. La guida mi racconterà dopo, durante
la discesa al paese, che il tozzo edificio; abitato da certi eremiti per alcune
centinaia d’anni e diventato studio e stanza da letto per il Bonaparte tra la
fine di agosto e i primi di settembre di duecento anni fa. Adesso è chiuso. Sul
fianco del Santuario una porticina, preceduta da tre alti gradini, accede al
transetto sinistro.
Ecco. sono
dentro.
La fabbrica
presenta un interessante impianto a tre campate di sapore medievale
rimaneggiato e arricchito da pitture e decori nei secoli successivi. La navata
centrale è caratterizzata, dal lato dell’ingresso principale, da un grazioso
portico interno. Probabilmente tutto
l’edificio è stato risistemato di recente e comunque è tenuto in perfetto
ordine. Fiori freschi sull’altare, panche spolverate e candele votive accese.
Rimango affascinato dalla decorazione delle volte con toni dominati dal blu.
E poi la vedo.
Sto percorrendo
la navata verso l’ingresso e improvvisamente sono attratto da una nicchia intonacata a calce e
tinteggiata di giallo paglierino. È un rettangolo che misura centimetri
centoquarantatre per duecentoventisette spessore interno quarantaquattro. Dentro
sono state fissate cinque strisce di legno chiaro. E sulle fasce c’è di tutto.
Biglietti scritti a mano, fotografie formato tessera, bavagli da bambini,
collane e rosari, santini, gambe e braccia d’ottone, crocefissi e statuette
dorate. Di fronte è stato posto un vecchio tavolo anni trenta: struttura e
gambe di legno di faggio e piano in bachelite verde. Bellissimo anche se il
mobile da ufficio pare piovuto da un’altro pianeta rispetto al religioso carattere campagnolo della chiesa
in cima al Monte. L’incongruenza appare evidente anche al pellegrino più
ingenuo e anche a me che sono innamorato di tutti gli oggetti: mobili,
sopramobili e architetture di quel periodo. Il piano è ingombro di biglietti,
santini e crocefissi lasciati lì alla rinfusa, quasi che i fedeli si
vergognassero del gesto.
Mi calo il
cappello del Che sopra alla fronte
fino a coprire gli occhi. In questo modo posso tornare indietro nel passato.
Nello stesso
luogo.
È una tecnica
imparata dal nonno durante la Grande
Guerra che poi mi ha passato. E così vedo nitidamente il gesto veloce e
solitario della nonna che si è fatta cinque più cinque chilometri di strada
scoscesa e perigliosa per arrivare quassù a depositare il biglietto di
ringraziamento della grazia ricevuta per la nipotina. E se li è fatti in
solitaria lo scorso Novembre la mattina presto. E a questo punto della scena mi
capacito di stare davanti ad un altarino organizzato direttamente dai fedeli.
Una nicchia che raccoglie una serie di ex voto di campagna. Che non sono
neanche parenti di quelli che si possono trovare nelle basiliche battute dal
turismo di massa. E forse proprio per questo loro carattere ruspante e genuino
sono veri e puri.
Un grido prima e
uno schiamazzo poi interrompono il filo dei pensieri.
Mi giro verso
l’ingresso e sento nitidamente una baruffa di ragazzi. Si stanno litigando
l’accesso all’acqua. Varco il portone di legno massiccio consunto dal tempo e
sto per davvero in un altro mondo. L’interno ha il sapore rustico di una chiesa
di campagna ma la facciata principale e soprattutto l’esedra sono potenti. Il
disegno e i materiali raccontano altre storie: manierismo, barocco e
neoclassico. L’effetto è alquanto bizzarro. Ma questi discorsi non sono adatti
a due gruppi di ragazzini che si stanno contendendo l’accesso al mascherone
bianco sormontato dal crocefisso scalpellato. La scultura fa parte di un gruppo
di tre di marmo bianco distribuite lungo il semicerchio. Un tempo di sicuro
tutte e tre eruttavano acqua. Ma le fonti si son seccate oppure vai a saper che
altro. Adesso solo una funziona. E i ragazzini sono sei da una parte e quattro
dall’altra. Il gruppo più numeroso è composto da maschi. Ma le femmine sono
determinate come non mai. Sono arrivate prima e la prima bevuta tocca a loro.
Provo a mettermi in mezzo alla contesa ma l’unico effetto è una frase del tipo:
“Prof … per piacere lasci stare … ci si pensa noi”.
E infatti ci
pensano loro.
Mentre mi volto
verso i bulletti di quartiere per cercare di farli ragionare loro hanno
recuperato alcune bottiglie vuote e adesso son pronte alla guerra. E anzi la
dichiarano. La battaglia è improvvisa e fulminea e non lascia morti sul campo.
I nostri eroi: più alti e più grossi, ma anche più lenti e prevedibili se la
danno a gambe inseguiti dagli schizzi di acqua gelida sparati dalle nostre
amazzoni. La conquista è la prima bevuta a sedere sopra la panca circolare che
avvolge la piazzetta come se fosse un teatro.
Ed io con loro.
Poi il gruppo si disperde.
Le fantastiche
quattro se ne vanno a canzonar i loro compagni fuggiti con la coda fra le
gambe. Io me ne torno in chiesa. Devo ancora fare due commissioni che mi sono
imposto poco prima. La prima la risolvo in breve accendendo una candela e
recitando una preghiera per la mamma sempre molto devota alla Madonna. E ci
scommetto una cifra che magari, se fosse ancora con noi, questa del Monte
l’avrebbe veduta volentieri. Per la seconda mi occorre più tempo. Ci metto
almeno una quindicina di minuti a scegliere. Apro lo zip dello zainetto
arancione e tiro fuori il portafoglio di pelle nera. Lo devo svuotare tutto. Appoggio
documenti, monete e carte di credito sul piano di bachelite verde vagone. E
continuo a cercare finché non trovo un piccolo contenitore di plastica
trasparente. È pieno zeppo di foto tessera. Silvia a vent’anni e poi dopo con i
colpi di sole. Giulia e Guido da piccini, poi alle scuole con le maestre e ieri
l’altro immortalati dalla macchinetta in piazza della Libertà. Io anche. Anzi
chissà perché ne ho tante. Ho sempre odiato le foto ricordo però quelle delle
macchinette ritagliate dai vecchi documenti le ho serbate in fondo al
portamonete.
La prima è
quella con la faccia rotonda e gonfia degli ultimi anni.
Con la pelata
che si è presa tutta la parte superiore della testa e i pochi capelli tagliati
con la rasa erba. La camicia celeste a righe bianche mi tira sul collo. La
seconda è simile alla prima. A occhio racconta di almeno otto o nove anni
prima. I capelli un poco più lunghi e il fisico più asciutto. Giacca e polo di
lana denunciano la stagione dello scatto. Le altre cinque sono tutte a scendere,
un po’ sulla falsariga del film che titola “The Curious Case of Benjamin
Button”, indietro nel tempo. Evidentemente le ho schedate in ordine inverso.
Sopra a un paio sono in camicia a quadri e capelli a colori. Una è minuscola:
tagliata a filo faccia, mento, capelli formato tre per due e due. Un’altra; ma
in realtà son quattro e son venute solarizzate, mi ritrae il giorno avanti
dell’esame di stato. Abbigliato come il buon vecchio Elleci: giacca scura, camicia bianca e farfallino. Mi mancano solo
gli occhiali neri, spessi e rotondi del mio eroe e poi potrei assomigliare al
prototipo del professionista anni trenta. L’ultima delle cinque è in bianco e
nero. È palesemente ritagliata da una vecchia carta d’identità. Ci sono ancora
stampigliati i timbri dell’anagrafe. Probabilmente ai tempi di quando mi
vestivo al mercatino dietro la Basilica di San Lorenzo a Firenze. Quando ci
venivo tutti i giorni in treno per studiare. Capello medio corto su tutti i
lati e maglietta bianca di cotone che fa capolino dal girocollo del maglioncino
rosso sangue.
Ma nessuna di
queste è l’immagine che cerco.
Nel
portadocumenti c’è una tasca con bottone. Di solito qui ci tengo i soldi per le
emergenze. Son quelli che vado a cercare quando finisco gli ultimi euro e anche
il credito sulle carte. E dentro ce la trovo. Non la moneta dell’emergenza ma
la foto che cercavo. Ero certo di averla ancora. Si tratta di un’immagine
scattata nella cabina che stava un tempo in piazza Brunelleschi proprio di
fronte all’ingresso del cortile degli Alberoni. Capello decisamente corto e
marrone con ciuffo superiore sinistro. Maglioncino di lana tipo polo colore
bianco burro. Al collo una delle due sciarpe ricavate dalla kefiah di ordinanza
in quegli anni di lotta e rivoluzione.
È questa
l’immagine che lascio come ex voto nella cappella improvvisata del Santuario
della Madonna del Monte, cinque sette zero tre zero Marciana, Isola d’Elba,
Livorno, Toscana, Italia. Individuo uno spazio vuoto e prendo in prestito uno
dei chiodini già conficcati nell’asse di abete. Mi posiziono in seconda fila
partendo dall’alto, lato destro per chi guarda.
E lì mi trovate
se volete venire a trovarmi.
Se avvertite per
tempo vi faccio trovare il caffè appena fatto. Quello morbido, vellutato e
leggermente acquoso della macchinetta da uno e mezzo. In origine si trattava in
realtà di moka da due tazzine ma poi l’uso prolungato e l’assoluta mancanza di
manutenzione e pulizia hanno ridotto la produzione di circa un quarto.
Ma se venite con
una tazzina abbastanza capiente ve la pieno tutta.
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