Sono stato molte
volte a Venezia. Amo Venezia. Sono stato tre volte a Rovigo, Ferrara e Palermo.
Due a Modena e Perugia. Una volta a Napoli e Torino. E ancora solo una a
Parigi, Madrid, Lisbona, Siviglia e Barcellona. Anzi a Barcellona due ma forse
una non conta visto che ci sono passato a notte fonda per cambio treno dovuto
alla differenza di passo tra lo scartamento europeo e quello spagnolo dei primi
anni novanta. Quindi Barcellona una volta anche se ripensandoci bene quel
soggiorno fu interrotto da un viaggio a casa per sposalizio di famiglia con
andata e ritorno dopo due giorni. Quindi decisamente Barcellona due.
In Messico
invece sono | siamo stati una volta valida come viaggio di nozze.
L’ottantasette
fu l’anno. Trovammo casa. La ristrutturammo. Decidemmo la data e a settembre,
dopo il SI davanti al prete di Santa Margherita a Montici, eravamo a Città del
Messico. Il primo viaggio in aereo fu un disastro. Da Firenze a Milano il
velivolo non decollò. La voce gentile dell’odiosa hostess di turno ci comunicò
che “… causa nebbia il volo non sarebbe
partito e quindi che ognuno si arrangiasse come meglio gli riusciva”. Dopo
l’imbufalimento iniziale si vagliarono le soluzioni possibili: 1) treno che non
sarebbe arrivato in tempo, 2) taxi che sarebbe costato un botto, 3) auto
privata con spese di rifornimento, pedaggio stradale oltre a parcheggio in zona
aeroporto. La numero tre, fidando anche su un cospicuo rimborso della compagnia
aerea in gravissimo difetto, fu la scelta naturale.
Comunque sia il
giorno stabilito siamo dall’altra parte dell’Atlantico.
La sera
seguente, verso le dieci, è un caldo infernale. L’aeroporto, alla sua
edificazione saggiamente costruito in campagna, è oramai inglobato dalla città
che lo assale su tutti i lati. Non assomiglia nemmeno un poco agli asettici e
confortevoli terminal incontrati durante il viaggio: Milano, Madrid e Toronto.
Pare più un fiera del sud del mondo come quei suk arabi o certi mercati
siciliani. Colori e luci, sapori e odori già dentro la hall. Figuratevi dopo la
soglia. Bambini che chiedono pochi pesos in cambio di info e grandi a cercar di vendere qualunque cosa: spezie e
verdure, vestiti e oggetti, corpo e passaggio per l’albergo.
Noi, con altri
quattro, siamo prelevati da un taxi giallo con le pinne.
Si tratta di una
vecchia auto americana degli anni cinquanta con i sedili di pelle rossa e
l’autista che, appena lo vedi, te lo immagini vestito col sombrero, stivali e
pistola dentro un film di cow boy. I bagagli stanno tutti nel capace cofano
posteriore mentre noi sei siamo collocati nel classico ordine: tre davanti e
tre dietro.
Finestrini
aperti e via immersi dentro una delle
città più inquinate del mondo.
Durante il
viaggio conosciamo i nostri amici occasionali; due coppie campane, con bottega
di mobili in massello sul lungomare di Maratea, che facevano un giro poco
diverso dal nostro e partivano un giorno prima. A noi parevano tipi in gamba e
sospetto che loro ebbero la stessa sensazione. O forse era lo spirito del
turista “no Alpitour” le prime volte
lontano da casa. Comunque sia ci accordammo per stare insieme la sera del terzo giorno per una cena tipica con la
musica e il resto. Per la scelta del luogo caratteristico, in virtù di una
scellerato costume nostrale che magari in Italia funziona anche, ci saremmo accordati
al momento con il tassista che stazionava fuori dall’hotel.
E così ci
regolammo.
Senza avere
nessuna dimestichezza con la lingua, se non la presenza di un dizionario
tascabile ITA – ESP la cui peculiarità di poter stare nelle tasche dei jeans
era compensata dall’estrema difficoltà di consultazione dovuta al corpo 4 dei
testi, tre sere dopo l’arrivo eccoci pronti. Lavati, sbarbati, profumati e
vestiti coi panni della domenica; nell’atrio dell’albergo. Ciro; uno dei
fratelli; si accorda in qualche modo con l’autista del macchinone che romba
poco fuori delle porte girevoli.
E via verso la
notte messicana e di una meta sconosciuta.
La capitale è
enorme. In quegli anni, compreso la zona metropolitana, poteva contare qualcosa
come sedicimilioni di persone e quella sera per le strade ne incontrammo
diverse migliaia senza saper chi fossero. Partimmo al tramonto e
scorrazzammo in lungo e largo per almeno
un paio d’ore. Si lasciarono presto i viali alberati e le rotonde monumentali
del centro per percorrere le buie strade della periferia e quelle strette dei
sobborghi. E ancora la nostra guida non dava cenno di fermarsi. Anzi alle
nostre rimostranze su “…. che modi sono
questi” rispondeva “… todo bien,
senor !”.
Che tradotto
senza fronzoli: “ … non rompete le palle;
zitti e mosca”.
Poi i sobborghi
lasciarono il posto ad un paesaggio brullo con pochi alberi rinsecchiti e certe
piante di cactus che non avevo mai visto nei film di “indiani vs cowboy”. In lontananza ululati di coyote e poco altro.
Il nulla insomma. E adesso le ragazze, anche i ragazzi devo dire, cominciavano
a dare chiari segni di preoccupazione.
Poi alla lontana
una luce debole si palesò meglio in vista della fattoria.
Il complesso,
almeno nella parte che potemmo vedere noi, era una specie di piccolo borgo
costruito, per addizioni successive, con tetti a spiovente in terracotta, muri
finiti a intonaco bianco grezzo e il resto secondo le regole del luogo. Un
porticato in legno rialzato di alcuni gradini è l’obiettivo dell’automobile.
L’autista si ferma con una perfetta derapata. Scende, apre la portiera delle signore e se n’esce
con “ … Triste restaurante mexicano”.
Il posto è
veramente una roba per la gente del luogo.
Lontano da ogni
forma di urbanizzazione e con la corrente elettrica prodotta dal motore di un
vecchio camion. L’interno è preciso identico a quello che da noi si intende
tipicamente messicano. Gli avventori, in
gran parte ubriachi, danno l’impressione di appartenere alla piccola
criminalità. Nell’angolo più buio c’è un gruppo di tavoli ove è stata
improvvisata una bisca di carte, dadi e altro. Alcune giovani ragazze molto
scamiciate e in carne servono ai tavoli liquidi all’evidenza molto alcolici.
Sopra alla consolle alla sinistra della porta un brutto ceffo sorveglia il
deposito di armi; per lo più pistole e coltelli anche se spiccava un’elegante
ascia da passeggio con tanto di fodero in daino; lasciate dagli avventori. Oste
e cameriere in costume tipico insieme al gruppo musicale di quattro “mariachi”
ci salutano all’ingresso.
I musici ci
faranno due palle tante per tutta la cena.
Ci credono “gringos” e ci vogliono spennare fino
all’ultimo dollaro. Ce ne vuol per convincerli che siamo solo dei poveracci “mangia spaghetti”. Il dizionario ci
serve giusto niente visto che la nostra pronuncia risulta alquanto approssimativa
e loro, sospetto, non sappiano leggere tanto bene. Poi il fratello di Ciro
comincia a fare versi e boccacce; sul verso della tovaglietta di carta disegna
uno sgorbio con la scritta “americanos”
e termina con il gesto universale del medio in alto. E questo basta ai nostri
anfitrioni che interrompono lo show con una grassa risata di gruppo e un
brindisi alcolico che più non si può. Evidentemente siamo diventati dei
clienti- amici.
E come tali ci
trattano.
La cena diventa
un banchetto con degustazione di tutte le pietanze scritte sulla lavagna
all’ingresso e anche di più. Il più sono ostriche che noi, a differenza degli
altri quattro “amicos”, non gradiamo anzi io sputo al primo boccone. L’oste, un
omone con la barba lunga della settimana e i baffi alla Zapata, mi squadra
contrariato e comincia a soffiare come un istrice. Rimedio con il gesto di
Nicola Arigliano in una nota pubblicità di alcuni anni or sono. Con evidenza il
“dolores de corpos” funziona perché
l’energumeno si avvicina e mi schiaccia un bacio al sapore di Mezcal sulla
bocca. Uno schifo totale.
Non so se sia
stato liquore o mollusco ma dopo son stato veramente male.
Diarrea detta
anche caghetto a tutto spiano per tutta la notte e il giorno seguente. Il
dottore dell’albergo parlò in realtà della “maledizione di Montezuma” mentre
Silvia scommise sull’acqua della brocca che avevo bevuto prima di mangiare. E
forse aveva ragione visto il tragico terremoto dell’ottantasei e la conseguente
raccomandazione del nostro Ministero di non bere mai acqua non imbottigliata.
Come al solito
ho fatto lo splendido quando la situazione non lo richiedeva.
Alcuni giorni
dopo siamo a Mérida e con precisione nella strada centrale del centro storico
della capitale dello Yucatan. Un palazzo dai colori sgargianti, in evidente
stile coloniale, accoglie al piano della strada un negozio di belle arti.
L’interno ha gli arredi aggiornati agli anni sessanta. Tutto di legno dipinto
di verdino con mostre e cornici e piani segreti che escono dagli scaffali. Una
bellezza. Rimaniamo col naso appiccicato alla vetrina per un eternità.
Poi un commessa
fa cenno di entrare.
Dentro par
d’essere dal cugino povero del Rigacci di Firenze. Quindi lasciamo stare
richieste tecnologiche come aerografi o acrilici, di grande charme da noi in
quel periodo, e proviamo a chiedere oggetti semplici e poco costosi: righelli e
squadre di legno, lapis, matite e una penna con pennino e calamaio. Siamo senza
il vocabolario e ci si intende, per semplici gesti, a meraviglia con la
commessa anziana. Poi ad un certo punto quando, i nostri regali son quasi
terminati, manca solo il ricordo per lo studio, l’anziana fa cenno di dover
uscire e ci lascia nelle mani della giovane.
Che a prima
vista pare non troppo sveglia.
E infatti non lo
è. Un semplice compasso è la richiesta che, a gesti, le faccio. Celestina, così
è scritto sul cartellino, mi pare che vada nel pallone. Di sicuro il mio gesto;
pollice che fa perno con indice che disegna un abbozzo di cerchio; non sarà una
roba da mimo ma certo sfido chicchessia a intendere prima appunta lapis poi
metro in tela e infine macchina fotografica usa e getta. E tutte le volte che
presenta l’articolo emette sempre il medesimo suono stridulo: “ … Eeeesto?”. Al terzo articolo si
comincia a pensare un modo elegante per andarsene quando per fortuna rientra la
direttrice e ci si intende subito.
Il risultato è
il compasso da lapis; rudimentale ed elegante; che ho in mano ora.
La precisione
tecnica è vicina allo zero. È un balocco da ragazzi. Ma vuoi il luogo, la
situazione o la commessa “… Eeeesto?”,
come fu da noi sopranominata, ne fanno il mio ricordo preferito. Adoro
l’attrezzo che gira su se stesso è fa i cerchi sbilenchi. Anche se lo uso
pochissimo mi accompagna sempre dentro l’astuccio verde militare allocato
dentro lo zainetto da lavoro.
Verde militare è
anche il pezzo di stoffa che ci accompagna in ogni viaggio.
È cucito sopra
la sacca a tracolla, quasi un tascapane, che usiamo da allora. Fu reperito,
insieme al saccapane; nel mercatino delle pulci dirimpetto al negozio del
compasso. Sulla bancarella che vendeva bottoni, cerniere e fili di tutti i tipi
ci colpì quel tessuto a forma di ellisse con il bordo rosso e la scritta in
filo giallo ricamato.
EE. Che ha noi
piace pensare possa significare:“Escursionisti
Esteri”.
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