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a5, 2007 |
A tavola ragazzi | 2010
Son venticinque
anni e un pezzettino che ho in mano un bollo che certifica l’appartenenza ad
una casta professionale. E da almeno una cinquantina di stagioni prima mi occupo
di disegno.
In verità ho
sempre disegnato.
Come tutti i
ragazzi; e questa mica è una novità; ho tracciato i primi scarabocchi sopra
fogli di carta trovata in casa. Anche su giornali e quaderni; libri e riviste;
agende e scatole da scarpe e muri. Dei disegni da piccino conservo solo i
ricordi visto che la mia famiglia ha effettuato diversi traslochi e ogni volta
si gettavano le cose inutili. Durante le vacanze estive dei sessanta; quando
molti amici andavano al mare; trascorrevo diversi pomeriggi nei cantieri del
babbo muratore. E qui disegnavo sopra ai mucchi della sabbia che serviva,
impastata con acqua e calce spenta, a produrre il legante per i muri di
mattoni. Sopra alla terra spianata e compattata ci disegnavo case e cose e
cattedrali A volte usavo la sabbia per costruire improbabili castelli che
regolarmente erano distrutti dagli operai che mi facevano: “ … spostati nini …
‘o che ‘un tu vedi che dai noia? … dai spostati che ti fai male”. E il palazzo
era ingoiato dalla macchina impastatrice.
E io piangevo.
Altre volte,
nell’orto di casa, mi capitava di disegnare gigantesche piste per palline di
vetro. Le copiavo dal manuale delle giovani marmotte. Riproducevo i tracciati
degli autodromi famosi come Monza, Le
Castellet o Le Mans. Ci mettevo del mio costruendo viadotti e sopraelevate e
ponti con i materiali più diversi. E poi scavavo il terreno, lo bagnavo e
comprimevo per avere una superficie uniforme e scorrevole. Disegnavo (per
incisione … ndr) la linea di partenza e via con il gioco. Di tutte ‘ste
realizzazioni mi rimangono solo sporadici ricordi vista anche la deperibile
materia prima usata.
Poi ho cominciato
a disegnare per la scuola.
Rammento i primi
sgorbi in forma di trattini orizzontali e verticali. In prima elementare se ne
facevano pagine intere. Sul quaderno a quadretti grandi, con il pennino
inzuppato nel calamaio, si tracciavano aste e curve e poi lettere e numeri. Dei
tre anni dopo la quinta conservo un piccolo crocefisso di legno. I professori
di tecnica e di artistica si erano associati per l’occasione. Ci era stata
fornita un immagine del Cimabue. Quella che si era bagnata i piedi nell’acqua
dell’Arno.
L’acqua
straboccata nell’alluvione del sessantasei.
Si dovette
imparare i primi rudimenti del disegno tecnico e la stesura delle tempere. Un
giorno gli insegnati ci dicono: “Ragazzi … per la prossima volta portate: un
lapis appuntato e una gomma, due squadre, un seghetto a legno, carta vetrata,
due pennelli, una barattolino di cementite e dodici colori a tempera. Il
compensato lo forniamo noi”. L’opera ci impegnò per un intero quadrimestre.
Alla fine fu
fatta anche una specie di classifica a punti.
La classe era
formata da ventisette tra maschi e femmine. La mia si classificò nelle ultime
posizioni. Appena sopra gli ultimi tre che erano mancati spesso e non avevano
manco finito di dipingere. Adesso è sopra alla porta della camera dei ragazzi
ed è bellissima. Tutta storta e sproporzionata che certo non assomiglia per
niente all’originale. Ma che mi frega. L’ho fatta io e tanto mi basta.
Poi un giorno
disegno Rivera.
Il calciatore
della partita “Italia – Germania 4
a 3” .
Semifinale della coppa Rimet ai campionati del mondo di football in Messico.
Era il 1970 e Jannacci cantava: “ … Messico e nuvole … la faccia triste
dell’America … suono l’armonica …che voglia di piangere ho”. E io disegnavo il
mio campione sopra un foglietto di carta da involti. Quella grezza marrone che
adopravano un tempo i macellai per avvolgere le fettine di vitello che la nonna
ci cuoceva nel padellino. La carta era appoggiata sopra al tavolo del babbo
della mamma. Il nonno Dante falegname. Il tavolo; costruito una diecina di anni
prima della guerra; era stato un regalo di nozze della famiglia dei lavoratori
del legno. Il mobile stava al centro della cucina al piano terra. La stanza con
altezza due metri. Il locale dove si stava sempre per non sciupare la cucina
nuova al piano di sopra. Per non rovinare i nuovi mobili componibili in
laminato effetto legno. Ignobili.
Il tavolo di
sotto era invece in legno.
Con quattro
gambe di noce massello e il bordo del piano dello stesso materiale. La cornice
era dipinta di un bel nero fumo opaco. Il dentro era impiallacciato e trattato
a lucido. Un capiente cassetto per le tovaglie e le stoviglie era ricavato
appena sotto il piano. Bellissimo. L’ho ritrovato nella cantina sottoterra un
quarto di secolo dopo la rete del Gianni. Era sommerso dalle reti che si usano
per raccogliere le olive. Quelle tutte verdi che si avvolgono intorno al
tronco. Era tutto polveroso ma ancora in gamba. Solo una (delle gambe intendo …
ndr) era poco poco aggredita dai maledetti tarli. Ero stato tutto il giorno in
giro per tavoli.
Abitavamo da
poco una nuova casa.
Un alloggio più
grande di quello avuto nel paese dello Scheggia. Nel primo vivevamo in tre in
quarantasette metri. E il tavolo, misure 80x120, era proporzionato
all’appartamento. I tavoli visti e toccati in ben sette negozi di arredamento
non mi avevano convinto. In verità c’è n’erano anche di interessanti e pure
belli e pure di design. Ma questi costavano ben più di quanto ci potevamo
permettere. E però c’era bisogno di una tavola grande che la famiglia si stava
allargando. La futura mamma era dalla madre sua in attesa delle previste doglie
e della corsa verso la maternità di Careggi.
Io ero in
perlustrazione in cantina.
Il tavolo,
90x200, ha le dimensioni che ci servono e non mi pare che serva a nessuno. Le
reti per le olive le appoggio su altri ripiani e questo me lo cucco io. Devo
fare una sorpresa al nuovo abitatore della nuova magione. E a ‘sto punto evito
anche di spendere quattrini inutili. Lo restauro io. Ci metto tre giorni.
Precisi quelli che servono al piccino per bussare alla porta del mondo.
Sostituisco il tavolino precedente con la mia opera e aspetto la meraviglia dei
familiari alla vista inattesa.
Lo stupore mi
ripaga del sudore speso.
Poi un giorno il
pargolo diventa un ragazzo di sette anni. Ma non un ragazzo qualsiasi. Un
ragazzone con le mani, si dice dalle mie parti, grandi come un apostolo. Con le
mani pesanti come un maglio. Con le mani che un giorno, durante un desinare
qualsiasi, si mettono in testa di battere sulla superficie del piano
impiallacciato come se volesse saggiarne la resistenza fino allo stato limite.
Con le mani che impugnano un tira tappi da vino. Con la punta a vite rivolta
verso il tavolo. E la punta fa il suo mestiere. Semplice ed efficace. Rompe e
spacca e sfascia e frantuma e sbriciola
e via e via il fragile piano. E sul piano ci nasce un bel buco tutto
sfrangiato.
Dal foro si vede
il pavimento.
E lo si vede per
gli anni a venire. Nonostante i molteplici tentativi dell’apprendista artigiano
il foro resta al suo posto per un bel pezzo. Mi son messo nei panni del
riparatore di buchi. Ho sperimentato diversi materiali e conosciuto molti
gestori di mesticherie e ferramente. Ma ogni volta il lavoro non soddisfa la
famiglia. E allora si disfà l’opera e si ritorna al foro irregolare. Per la
decenza si decide di vestire il tavolo. E lo si veste di giorno e di notte;
d’estate e d’inverno. Anzi la parola d’ordine di casa è scritta a caratteri
cubitali sopra un foglio a4: “ … ricordarsi di coprire il buco”. La ferita è
mascherata da un capiente centro tavola. Tanto capiente che piano piano diventa
una tovaglia adoprata spesso per mangiare. E poi, se posso dire la verità, il
fatto di vedere il pavimento mentre si mangia mi da una certa soddisfazione.
Come se la
famiglia avesse inventato una nuova tipologia di tavolo.
Mi ricorda un
grande piano di marmo di Carrara sostenuto da una struttura di acciaio dipinta
di arancio. Il tavolo era stato disegnato per la sala di esposizione di un
produttore di pavimenti in legno. C’erano sopra tutta una serie di fori del
diametro di millimetri quarantotto come il numero dei buchi. Quarantasette di
questi erano intarsiati con altrettante essenze di legno. Uno era vuoto e si
vedeva il pavimento di quercia. Ho perso di vista l’imprenditore e anche il
tavolo. Ho perso i disegni del progetto e non ho, perdindirindina, manco una
foto della fessura per veder la quercia. Di piani di lavoro e anche per
mangiare mi è capitato di disegnarne molti altri.
Ne rammento
alcuni.
Li descrivo in
ordine sparso. Una volta mi viene in mano un vecchio pezzo di marmo abbandonato
sopra ad un muretto che faceva da recinto di, quella che un tempo era stata,
una concimaia. Le informazioni, raccolte dagli abitatori della nuova casa
edificata accanto al vecchio rudere agricolo, raccontano che ‘sta roba stava
sopra un cassettone andato in discarica. Recupero il piano e ci costruisco una
specie di scrittoio. Dal fabbro mi faccio fare due triangoli in acciaio grezzo
da fissare a muro con quattro supporti. Piglio un trapano e una punta adatta e
pratico quattro fori nel marmo. I buchi son precisi di misura e posizione
adatte ad accogliere quattro spinotti di acciaio che stanno sui due supporti.
Ora basta
raschiare le cacche di piccione e lo scrittoio è pronto.
Nel tempo il
mobile a muro è stato usato come appoggio del blocco per appunti, come piano
per la macchina da scrivere o del computer. E per un certo periodo anche per
due vasi da fiori stereo. Nel senso che son due vasi di coccio gemelli che
stanno sopra ad un unico portavasi disegnato in modo da accoglierli insieme. Lo
scrittorio è stato murato e smurato una barca di volte. Mi ha seguito con
diligenza per tutti i miei tredici traslochi di lavoro. Adesso sopporta il peso
dell’agenda settimanale, una lampada da tavolo di fabbricazione svedese, una
penna biro nera, un portaritratti con tre foto incastrate sopra e un orologio
arancione con la ventosa. E occasionalmente il note book.
Ora sta accanto
al tavolo con le ruote comprato a Bologna.
Al tempo
dell’università studiavo sopra ad un altro scrittoio. Una scrivania di laminato
finto legno che stava nell’angolo buio del salotto buono. Qui sopra ci ho disegnato
un logotipo per la città dove son nato. Ho preso quattro mattoni dal cantiere
del genitore e li ho scheggiati in un angolo. Li ho accostati scostandoli
appena uno dall’altro. Li ho messi sullo scrittoio ruotati di ventisette gradi
rispetto al lato lungo e ho acquisito un immagine a colori. Il marchio sta in
fondo al manifesto di presentazione per le celebrazioni dei 650 anni dalla
fondazione del paese. La scritta in alto è in caratteri colore oro e il fondo,
disegnato con l’aerografo, ricorda il marmo bianco delle cave sulle Apuane.
E ancora di
marmo è un tavolo disegnato giusto 25 anni fa.
Il piano è in
roccia calcarea commessa a pietra del cardoso e terracotta. Il progetto è fatto
insieme ad alcuni amici con cui partecipo alla competizione che dichiara di
voler acquisire nuove forme per il marmo. Il prototipo al vero ha le
proporzioni del rettangolo aureo e misura ottanta per centoventinove e 44 mm . Da terra al piano ci
sono settantacinque centimetri e quattro gambe di legno di quercia tornite in forma
di colonna greca. E anche tutta ‘sta roba, nonostante sia discretamente
pesante, mi ha accompagnato al lavoro per diversi anni e alcune volte ci ho
pure mangiato sopra. Adesso le gambe e la struttura son riposte in garage e il
piano è dotato di quattro ruote in gomma. Quelle per i carrelli industriali che
lo sollevano di centimetri ventisette da terra. Il tavolo è adesso carrellato.
Saranno almeno una decina d’anni che si muove liberamente per la stanza del
fuoco e dell’elettronica della nostra abitazione.
È diventato
un’altra roba rispetto al progetto originario.
In questo
momento lo uso come appoggio per il portatile con cui scrivo queste parole
sconclusionate e bislacche. Sono seduto accoccolato per terra con le gambe
incrociate e batto con forza i tasti neri del pici. È una posizione che mi vien
naturale. Mi sembra di essere il capo degli indiani che tiene consiglio prima
di partire per la guerra contro il generale dai capelli color del legno.
Come di legno è
l’ultimo tavolo che voglio ricordare.
Questo si trova
nella stanza dove si mangia. Sostituisce quello con il buco. L’ho disegnato
alcuni anni fa. È tutto di quercia massiccia trattata a cera scura. Le
proporzioni si rifanno alle armonie auree. Attorno ci stanno sei seggiole;
dodici all’occorrenza; di legno scuro prodotte dal signor Thonet verso i primi
del secolo scorso. Le sedute erano in proprietà della famiglia della madre dei
miei figli e sono arrivate in dote insieme a lei. Il tavolo misura all’ingrosso
centodieci per trecentodieci per settantotto in verticale. Ha le gambe tornite
in forma di tronco di cono sul modello di certi pilastri disegnati
dell’architetto del museo a spirale in quel di Nuova York. I sostegni sono
maritati gli uni agli altri con stecche messe in verticale e giuntate a coda di
rondine.
Voglio essere etico
e naturale.
Voglio ragionare
come un falegname di prima della guerra. Voglio ragionar come Dante. Quando il
metallo l’aveva donato, volente o nolente, per la causa nazionale e serviva a
fabbricar cannoni piuttosto che chiodi. Tutto l’affare sta su senza manco una
vite. Solo giunti e un poco di colla a legno. Il piano è unito al sotto per via
di dodici perni in legno diametro dodici altezza settantasette millimetri. La
parte dove di mangia presenta una cornice laterale stondata che si lancia nel
vuoto rispetto ai supporti inferiori. Il grande aggetto e la particolare
sezione son congegnati in modo da nascondere, per quanto possibile, le gambe
alla vista della persona in piedi. Il piano pare galleggiare nell’aere. I posti
a tavola sono segnati da quattro stecche incassate nel piano che anche misurano
l’intorno della stanza. Il primo schizzo è stato fatto il giorno zerocinque del
mese zerosei dell’anno zerosette e perciò quello doveva essere il nome di
battesimo dell’opera. Sei numeri in fila e basta. Poi la lunghezza del piano e
i calcoli strutturali effettuati hanno evidenziato l’opportunità di una gamba
in più rispetto alle quattro canoniche. La quinta sta nel mezzo della
composizione e caratterizza la tavola per il desinare. In casa la si chiama:
“a5” gambe. Quattro ne aveva invece quello con il foro. Quello dove mangiavo da
piccolo. Il primo tavolo che, come il primo amore, non si scorda mai.
Quello delle
mangiari familiari.
La nostra
formazione era composta da otto persone: due anziani, due adulti e quattro
mocciosi. D’estate noi ragazzi si giocava fino a tardi. Si facevano
interminabili partite di calcio nel campino del vicino oppure nascondini
intorno alle mura di casa. I giochi si protraevano fino a tardi. A volte fino
alle prime ombre della sera. E però non c‘erano cristi. Alle sette e ventisette
di ogni pomeriggio la nonna si sporgeva dalla finestra e faceva: “… si mangia …
forza Ciccio … forza Gatto … forza Bronzico … forza Pillola. Si anche te che
sei il più piccino … lasciate perdere tutto.
A tavola
ragazzi”.
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