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House of tuscany, BR 1994 |
Risvegli | 2004
Abito una casa a
torre che siede in cima a un poggio.
La casa è ai
margini di un antico castello battezzato dal nome di un uccello migratore dalle
lunghe zampe che, nell’immaginario dei bambini, si riposa e nidifica sopra ai
camini delle case. Il vicino tiene un pollaio costruito in forma di casa con i
muri di mattoni e il tetto di legno. La casa pollaio è dotata di energia
elettrica e la luce, forse per dimenticanze della nonna o magari perché così le
galline covano sempre e producono più uova, è sempre accesa. Lasciamo perdere
per un momento il giudizio morale sulla dispersione di energia o sullo
sfruttamento sistematico dei pennuti e concentriamoci sul gallo. Il gallo è il
capofamiglia del pollaio e come tutti i capi comanda a bacchetta le sue mogli.
In particolare ricorda loro che, appena fa giorno, è ora di iniziare la
produzione.
E’ ora di
covare.
Alcune volte il
comando viene cantato verso la mezzanotte. Molte altre il chicchirichì si fa
sentire verso le quattro del mattino. Abito la casa dirimpetto al pennuto; ho
il sonno leggero e la sveglia puntata alle sei e trentacinque. La sveglia è
puntualmente anticipata dall’odioso strillare del pollastro.
Chicchirichì…
chicchirichì… chicchirichì.
La giornata di
duro lavoro è cominciata per Pina la gallina. Io apro gli occhi e maledico il
padrone del pollaio. Allungo la mano sul comodino e accendo la luce di cortesia
della sveglia.
Puntuale come
sempre leggo la lancetta delle ore: le quattro del mattino.
La silvia dorme
ma per me è l’ora di alzarsi. Scendo dal giaciglio camminando a piedi nudi sul
pavimento di legno. Mi metto la tuta da lavoro accasciata sopra al servo muto .
Trattasi di vecchio due pezzi da ginnastica di cotone; colore azzurro turchino;
con il cappuccio e il filo a stringere i pantaloni. Tutta consunta e piena di
buchi con ancora la composizione di frutta del gagliardetto attaccata sul
petto. A tentoni trovo le ciabatte e mi approssimo verso il bagno. Accendo la
luce e abbranco spazzolino e dentifricio
dal bicchiere di plastica trasparente. I pesciolini mi salutano dal sottofondo
pieno di uno strano liquido blu che vorrebbe ricordare il mare ma sembra
piuttosto lo sciroppo per la tosse di quando si era bambini.
La mia casa è
fatta a stanze comunicanti una con l’altra.
Dal bagno passo
nell’anticamera dei ragazzi e controllo, dalle porte aperte delle camere, il
beato sonno dell’infanzia. La Giulia è distesa bocconi sul lenzuolo rosso e
soffia sommessamente. In questi giorni è malata; colpita da un brutto virus
intestinale che la notte le tortura le budella e la fa dormire poco e male.
Adesso per fortuna dorme. Nell’altro locale invece Guido è tutto scoperto ed ha
terminato da poco la lotta con il cuscino. Di solito vince lui ma stavolta ha
vinto l’altro lottatore. Il ragazzo giace in terra insieme alle coperte mentre
il poggiatesta troneggia tutto solo sul letto. Ristabilisco l’ordine degli
oggetti: cuscino; testa che poggia sopra al contenitore di piume; corpo disteso
sul materasso e coperta che fa il suo mestiere di riparare l’umano. Ho finito.
Adesso scendo di
sotto. La mia casa è fatta a piani.
I piani sono
collegati da una scala di pietra a
doppia rampa composta da diciotto scalini di cui tre angolari. Una parete della
scala è tutta vetrata così che la luce fievole del lampione del vicino mi
consente di scendere a memoria senza dover attingere all’energia che,
gentilmente a pagamento, il nostro caro ente per l’elettricità ci fornisce.
Scendo a memoria la scala e come sempre inciampo nel gradino numero otto
finendo a sbattere sul vetro-mattone . Al buio faccio la stima dei danni
tastandomi la caviglia destra e la capoccia pelata. Una piccola storta al piede
e la scorticatura della fronte è quanto mi merito per l’avventuroso viaggio
notturno.
Niente di che.
Zoppicando
finisco il percorso fino al piano di sotto dove mi attende la porta aperta del
servizio igienico. Il locale è un cubicolo spartano disegnato sul modello di
quello dei treni. Un metro quadro di pavimento di ceramica verde menta dove
entrano a malapena i due minuscoli sanitari di porcellana bianca. La lampada
incassata nel soffitto si illumina magicamente al mio arrivo. Unica
raffinatezza tecnologica che la casa si è concessa e di cui vado
particolarmente fiero. Il bagno di sotto è il mio regno del mattino. L’erogatore
di ottone nichelato fornisce l’acqua fredda necessaria al lavaggio delle mani e
della faccia. Adesso sono veramente sveglio. Lo spazzolino e il tubetto del
dentifricio sono sulla mensola. Li uso con insistenza per eliminare i residui
della ribollita di cui mi sono lungamente abbuffato la sera prima. Adesso la
parte più importante da quando, passati i quaranta, la colite mi ha assalito.
Sollevo il
coperchio e mi siedo.
Il contenitore
delle riviste alla mia sinistra è colmo di libri e giornali. Scelgo un
classico. Il fumetto che racconta le vicende di un lupo azzurro innamorato di
Marta. Alberto è il suo nome mentre la fidanzata è una delle galline della
fattoria dal cognome vagamente scozzese. Le strisce sono come sempre
all’altezza delle aspettative. Il tempo scorre piano mentre le viscere si
svuotano in fretta. I soliti venti minuti di attenta lettura e di totale
meraviglia per la gentile bellezza delle storie. Poi tiro la catenella che
aziona lo sciacquone e si porta via gli avanzi della cena. Esco dal cubicolo e
passo in cucina.
La mia cucina è
fatta in marmo bianco.
Pavimento,
pareti e tutto compreso il piano di lavoro. Accendo la vecchia lampada anni
trenta recuperata in un cantiere e apro la credenza dove mi attende Lei: la
macchinetta dell’omino con i baffi. La moka in alluminio presso fuso disegnata
da un genio settant’anni or sono. La forma è diventata ormai un classico. Dieci
lati disposti a circolo: una specie di cilindro fatto a segmenti che si rastrema e si schiaccia circa al
centro; composto da due parti che si avvitano una sull’altra; un coperchio che
si apre verso l’alto e la presa antiscottatura in bachelite nera; il beccuccio
erogatore e la valvola in ottone giallo. Dimensioni circa otto per diciassette
centimetri.
Lei: la Bialetti
da uno.
Divido le due
parti ed estraggo il filtro contenitore. Pulisco la macchinetta mentre rammento
i consigli dell’amico di Napoli conosciuto al tempo dell’università: “… prendi la moka e la pulisci sotto l’acqua
bollente. La polvere non la buttare nel cestino dei rifiuti ma direttamente
nello scarico che così pulisce la tubazione. Pulisci bene tutte le parti con
acqua … non usare detersivi che altrimenti sciupano il sapore. Asciuga bene
tutti i pezzi … munisciti di cucchiaino e apri il contenitore dei chicchi.
Prendi il macinino a mano e macina lentamente … non aver fretta che ci vuole il
suo tempo … macina bene. Estrai il cassettino con la polvere e sei quasi
pronto. Adesso ci vuole l’acqua … ma bada che sia fresca, leggera e fredda.
Riempi il contenitore fino alla valvola … non di più e non di meno. Infila il
filtro e mettici dentro quattro cucchiaini. Non pressare la miscela ma forma
una specie di piramide. Ora avvita la parte superiore e vai sul fuoco; scegli
la piastra più piccola e accendi il fiammifero di legno. Apri il gas e vai …
non aver fretta e non abbandonare la caffettiera sul fuoco. Il coperchio; mi
raccomando; va tenuto alzato per evitare la condensa del vapore che altera il
gusto della bevanda. Il liquido deve uscire pian pianino senza fretta e togli la macchinetta dal fuoco appena prima
che termini l’erogazione altrimenti ti tocca bere una ciofeca…”.
Ripeto i
semplici gesti affinati da anni di esercizio e sono pronto al rito del primo
caffè del mattino. Il liquido passa velocemente dalla caffettiera al
bicchierino di vetro. E’ caldo e fumante; di gusto pieno e forte; bello scuro
come piace a me. L’aroma mi entra nelle narici e riempie la stanza del suo
profumo. Lo zucchero di canna gialla lo attingo dal contenitore di coccio
mentre il latte è fresco di frigo. Passo in soggiorno e appoggio il bicchiere
sul vecchio tavolo di quercia scura costruito dal babbo di mia mamma
settant’anni or sono. Li mi attende la Valentina. Tutta di rosso vestita con i
tasti che fremono per l’imminente fatica.
Chicchirichì…
chicchirichì… chicchirichì.
Il gallo canta
di nuovo e ricorda alla Pina che adesso è veramente ora di iniziare il lavoro.
Mi siedo sulla Tonet e prendo il foglio di carta grezza riciclata dal capiente
cassetto sotto il tavolo. Una giornata di duro lavoro sta per cominciare.
M’informo dell’ora dall’orologio di metallo attaccato al muro dipinto di ocra
gialla. Le quattro e trentacinque. Ho ancora due ore prima di svegliare la
Silvia e i ragazzi per la scuola. Ho ancora due ore buone per scrivere il
racconto. Infilo il foglio bianco nel carrello e inizio il viaggio. Il titolo
mi gira in testa da ieri sera e mi pare carino e appropriato all’occasione.
Le bionde mi
sorridono dal pacchetto rosso e bianco semiaperto lì vicino. Il primo sorso di
caffè mi carica al punto giusto. Uccido la prima bionda della giornata e sono
veramente pronto. So già che dopo mi faranno male i polpastrelli; avrò le mani
sporche di inchiostro e la testa indolenzita per le molte bionde arrostite. E’
un lavoro sporco ma qualcuno deve pur farlo. Batto sui tasti della portatile il
titolo e poi proseguo con veemenza che la scrittura è un’arte che s’ha da fare
in velocità.
“Abito una casa a torre che siede in cima a
un poggio. La casa è ai margini di un castello antico battezzato dal nome di un
uccello migratore dalle lunge zampe che …”
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