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Cantiere, San Giovanni V.no, 1972 |
Sei una mezzamestola | 2016
“Mi piace l’odore del
napalm al mattino”.
“I love the smell of napalm in the
morning”
Robert Duvall / colonnello William
Kilgore
Apocalypse
Now, Francis Ford Coppola, 1979
Mi piace l’odore del cemento
al mattino.
Fin da piccino ho amato il
cantiere. Rammento che il babbo mi ci accompagnava la domenica mattina a
bagnare il solaio con la sistola lunga cinquanta metri. I ricordi, come gli
anni, si accavallano col passare del tempo. Alcuni sono più nitidi di altri. Questi
voglio raccontare.
Il primo è di un estate dei primi
anni sessanta.
Era un giorno di festa dalla scuola
materna delle Suore. A Montevarchi lungo la derivazione del canale Battagli. Il
babbo aveva da poco cominciato la costruzione di un palazzo di cinque piani con
quindici appartamenti. Le fondazioni erano state tracciate col gesso,
realizzate dall’escavatore e poi riempite con calcestruzzo rinforzato con
apposito acciaio trafilato. Erano anche stati alzati i primi pilastri fino al
piano. Le travi erano state casse formate e le armature piazzate al loro posto.
Anche il solaio di travetti e pignatte era messo in opera. Mancava solo il
getto. E quel giorno lo si faceva. L’impresa si era appena da poco organizzata
con due macchinari nuovi di zecca: una gru da venti per venti metri con tanto
di secchione capiente assai e una centrale di betonaggio che consentiva di
dimezzare, o anche di più, i tempi di esecuzione. C’erano due enormi cumuli di
sabbia e ghiaia e una grande betoniera da mezzo metro cubo. Appena poco più là
i sacchi del cemento erano accatastati in file ordinate di “sei per sette
quarantadue più due quarantaquattro”. I fusti dell’acqua erano pieni fino
all’orlo. I badili fremevano nell’attesa. Gli operai addetti all’impasto erano
pronti. Ed ecco che alle sei e trenta precise il sistema si mise in moto. Io
c’ero e mi ricordo bene. Avevo cinque anni ed era il mese di luglio prima della
prima. Potevo girare per il cantiere che mi sembrava un posto magico come un
castello in rovina. Li vicino c’era il fossato, le passerelle di legno e il
posto di guardia sopra all’acqua. Che in realtà erano nell’ordine: il
berignolo, gli assoni per attraversarlo e il casotto della latrina.
Ma chi se ne frega.
Erano i migliori giochi che potessi
desiderare. E poi c’erano le scale che potevo liberamente salire fino al piano.
Facendo attenzione potevo camminare sopra agl’impalcati e sporgere fino sopra
al bordo del terrazzo. Li sotto c’era il cumulo di sabbia alto un paio di metri
e forse più. Una roba troppo invitante per un bambino di quel periodo. E quindi
com’è e come non è mi lancio nel vuoto e atterro sulla montagna di terra.
Rotolo velocemente fino alla base e sbatto contro un paio di pantaloni di tela
grezza colore polvere. Son quelli di nonno Silvio che mi fa: “… oh Nini
smettila … stai fermo che ti fai male …”
e si gira ad inforcare un gigantesco badile di ghiaia. Il rimprovero mi
calma per una mezzora durante la quale costruisco un castello di sabbia
all’ombra del salice vicino al fosso. Poi mi chiamano per la colazione delle
nove. Il panino col pomodoro stropicciato è una bomba che ingollo; al solito;
in un lampo lampante.
Poi alla ripresa del lavoro combino
l’ultima della (mia) giornata lavorativa.
Nonostante divieti e rimproveri dei
grandi continuo a gironzolare nei pressi del macchinario per l’impasto. E gira
che ti rigira ci finisco dentro. Proprio dentro all’impasto del calcestruzzo.
Quello appena svuotato dal secchione sulla cassaforma della trave. A distanza
di decine d’anni ricordo ancora le urla, gli strepiti, e forse anche qualche
moccolo, di babbo oltre poi allo sconforto di mamma per i nuovissimi stivalini
di gomma rosso fiammante rovinati per sempre.
L’estate è stata la mia stagione di
contatto col lavoro del genitore.
Quella della fine della seconda
media è la stata la mia prima di lavoro. Per me e per il cugino Vittorio di un anno più grande. Lo è stata
per una decina d’anni a seguire. Il cantiere era lungo la strada di raccordo
tra il nuovo casello dell’Autostrada del Sole e San Giovanni Valdarno.
Una casa per quattro fratelli che volevano riunire le famiglie. Ecco i numeri
di riferimento: una scala a quattro rampe e quarantaquattro gradini, quattro
pianerottoli e quattro porte, quattro appartamenti e quattro logge, al piano terreno
quattro cantine e altrettante autorimesse, un giardino davanti per tutti ma un
retro diviso in quattro orti. Una costruzione di mattoni murati a due teste per
tre piani più un tetto (ndr. 3+1=4). Se la memoria non m’inganna
quell’estate del settanta fu, per l’impresa, un susseguirsi di problemi: la
nuova gru non era ancora arrivata, il montacarichi era in officina per
manutenzione, delle due betoniere la grande era montata in altro cantiere e
all’altra si era appena rotto il motore. Ergo che allora fino al primo piano e
anche un poco di più si lavorò senza ausilio di macchine edili. E i due giovani
nuovi operai fecero comodo. Qui, con l’intenzione di diventare grande,
c’imparai a fumare. I compagni di lavoro mi iniziarono al vizio che mi ha accompagnato
per gli anni a venire.
La mia prima sigaretta: nazionale
esportazione col filtro.
Durante le mie prime estati
lavorative ho svolto la mansione di aiuto manovale. Poi pian pianino mi sono
stai assegnati lavori più complessi e son salito al livello di manovale. E
finalmente un giorno dell’estate del settantaquattro il titolare mi avvicina e
mi propone un impiego con maggiore responsabilità. In quei giorni si facevano i
pavimenti di un palazzo di cinque appartamenti in vicinanza dello “Stradone”
di Loro Ciuffenna. Ero stato impegnato ad aiutare Franchino a preparare e
stendere il sottofondo. Gli passavo le mattonelle di ceramica e l’aiutavo
durante le operazioni finali dell’imboiaccatura, battitura e pulizia.
Si diceva dell’avanzamento di
grado.
La proposta era semplice: “… fai
il pavimento del terrazzino di cucina … quello che misura uno e venti per tre …
con le mattonelle di gres rosso sette e mezzo per quindici … che dici …?”.
Naturalmente accetto e mi accingo al lavoro. Mentre preparo il materiale ripasso
a mente le operazioni da eseguire per arrivare alla fine dell’opera. E poi
comincio. Mi ci metto a capofitto per tutto il giorno. Quando suonano le
dodici non mi fermo neanche per mangiare. Mi arrangio con un panino fatto
lì per lì con pane e pomodoro dall’orto del vicino.
E finalmente riesco a finire.
Ecco. Il terrazzo adesso ha un
pavimento calpestabile. Ci sono alcune imperfezioni: pendenza, fughe, onde e
avvallamenti. E tutto questo concentrato in tre metri quadrati e spiccioli. Ma,
come recita la battuta finale del grande “A qualcuno piace caldo” : “beh...
nessuno è perfetto!”. Questo penso quando alzo il capo e mi trovo di fronte
il babbo. Mancano pochi minuti alle sei del pomeriggio e alla fine della
giornata di lavoro.
Sessanta secondi che mi ricordo
tutti.
Il titolare mi fa scostare verso la
porta della stanza e si mette in ginocchio. Abbassa la testa e lo sguardo verso
il prodotto finito. Piazza il regolo d’abete e ci mette sopra la livella. Li
biffa attentamente. Poi storce la bocca, arriccia il naso e deforma la faccia
in un ghigno.
E se n’esce con: “niente da fare
Nini … sei proprio una mezzamestola … credo che da grande ti converrà fare
l’architetto!”.
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