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Ful(l)mine



010488, 1988

Ful(l)mine | 2016- 17
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ful(l)mine
traduzione | Pienodimine


Per cinque anni dal duemilacinque ho insegnato disegno industriale presso l’omonimo corso di laurea della facoltà di architettura di Firenze. Ero stato ingaggiato all’ultimo momento in sostituzione di un transfugo virato verso Milano. Ero l’ultimo e datosi che nella vita reale “… gli ultimi non saranno mai i primi” a me non è mai toccato in sorte l’insegnamento di una materia per più di un anno di seguito. Quindi ogni maledetto settembre mi son dovuto preparare sullo specifico consultando libri e argomenti e programmi diversi. Ma tutto questo non sarebbe bastato ad evitare la classica figuraccia se non mi fossi rivolto alle metodologie in uso nei mitici anni settanta. Questo è il decennio della mia formazione a cavallo tra la maturità e i primi anni universitari. Nel solco delle ideologie del momento è il periodo dell’aiutiamoci a vicenda. Mutuando queste idee mi son deciso a cercare aiuto tra amici esperti in campi specifici.

Tra questi invito Bruno, amico carissimo e grande architetto, che nel suo intervento barra lezione ci racconta che, a quel tempo e quindi circa dieci anni or sono; il nostro paese ha in dotazione un architetto ogni quattrocentoventitre persone. Se al totale degli architetti ci sommiamo le altre figure tecniche operanti nel settore scendiamo ad un tecnico ogni trentotto cittadini. Questo significa che più o meno ogni nucleo familiare allargato, composto da 6/7 famiglie imparentate tra loro, ha a disposizione una persona che si intende di ingegneria o geometria o estimo o arredamento e via con la rumba. Tutto quanto fa scendere drasticamente la percentuale di possibilità di lavoro dei praticanti della nostra disciplina.

Se ripenso a quei dati mi convinco che sono, se pur in altre discipline, attuali anche oggi. Tanto per info nella mia tribù abbiamo in campo sanitario: una zia ex infermiera, una cugina ex aiutante in casa di riposo, un infermiere di sala chirurgica,  una nipote medico condotto, un fratello e cognata fisioterapisti oltre a una figlia assistente sanitario per un totale di ben sei esperti di salute su una cinquantina di persone. Se poi vado indietro nel tempo ricordo che potevo essere il settimo. Degli esperti sanitari intendo. A quel tempo, correva la metà e poco più dei sessanta, avevo il sogno professionale del medico chirurgo.

Venite con me nel 1968. È un giorno qualsiasi del mese di agosto: la telecamera inquadra un gruppo di ragazzetti coi calzoni corti, le magliette sporche di terra con tangibili spruzzate di “eau di puzze”. Sono le tre del pomeriggio e la combriccola si è stancata di giocare a nascondino. È un caldo mortale e non si muove un filo d’erba. Il carrello si allarga e l’immagine mostra i giovani stravaccati sotto il grande sambuco delle Carbonaie. Pensano e borbottano. Borbottano e pensano. I cervelli fumano per lo sforzo non preventivato.

E finalmente uno dei più vispi; come al solito non io; partorisce l’idea di andare in Bucallino al bosco del Parroco per costruire la capanna del gruppo. L’idea pare geniale. A tutti e anche a me che avevo appena ricevuto in regalo il manuale delle “Giovani Marmotte”. Approvata l’iniziativa ognuno di noi se ne va a casa per l’approvvigionamento della bisogna. L’appuntamento è fissato, di lì a mezz’ora, al piazzale della cantina interrata appena dopo il Fornino. E ognuno degli eroi è puntuale come non mai con dotazione di panino e arnese tagliente. C’è chi è tornato con scure da boscaiolo e chi con forbici da potatura; chi con marraccio e chi con scurcino. Io son riuscito a carpire il segolo del nonno; quello che usa quando si balocca nell’orto;  quello appena ieri affilato e tagliente assai. Con le armi e le merende ci avviamo per il discesone verso l’Ascione. Dopo il ponte si piglia a destra verso il campo sportivo, strada sterrata, salitina e finalmente siamo in vista del bosco. Ci siamo proposti di addentrarsi quanto basta nella macchia per non essere importunati da curiosi o parenti. Progettiamo di cercare una piccola radura dove costruire la casetta che abbiamo in mente. Ma non ci arrivammo mai. Né alla radura e neanche dentro il bosco.

La camera è adesso fissata all’aquilone. La veduta dall’alto si allarga dal bosco ai fanciulli intenti alla camminata. Stanno percorrendo in fila indiana un viottolo impervio pieno di rami spezzati e fogliame avvitorcolato. Avanzano piano, con circospezione, anche per via della probabile presenza di serpenti e rettili vari.

Stiamo facendo tutto questo quando improvvisamente inciampo e cado malamente. Il segolo mi scappa di mano e si incastra nella biforcazione tra due rami. La mano sinistra cerca di proteggere il corpo dall’impatto a terra. Ma la traiettoria è ormai definita. La sfida è lanciata. Mano contro segolo 0 – 1. Il dito mignolo della sinistra è quello che ne soffre di più. È lui che sbatte preciso sopra la lama. Ricordo di aver chiuso gli occhi per un momento. Quando li riapro la scena è dipinta di rosso sangue. Sull’arto e in terra ci pare passata una mano di quel liquido denso e appiccicoso. Non sento nessun dolore anche se  son quantomeno confuso. I ragazzi più grandi prendono in mano la situazione. “Bisogna correre a casa … veloce … presto che perde sangue” fa il capo branco. Mi fasciano la mano con la maglietta che indossavo poco prima e via. A piedi saranno un paio di chilometri. Tra bosco, viottolo, campo di calcio, stradina sterrata, discesa al fiume, ponte, salitona del Valcello e casa ci vogliono di solito venticinque minuti o poco meno. Ecco. Ce ne vollero diciassette compreso la sosta al grande cipresso che sta a mezza costa appena sotto l’ingresso al paese. La sosta dura circa un minuto. E tanto basta per, nell’ordine: sfasciare il bendaggio per vedere le condizioni della ferita, notare il dito penzolante quasi diviso in due, inorridire alla vista di un pezzo di bianco in mezzo a tutto quel rosso, realizzare che trattasi dell’osso prossimale o in difetto del nervo digitale, pensare che mi frega un piffero che cosa fosse quella roba bianca, decidere che mai e poi mai avrei onorato il proposito di provare la carriera del dottore. Olè. 

E considerato che a nessuno interessa che fine fece quel dito stendiamo un velo sulla vicenda e sul mancato sanitario e parliamo della pianta.

Amo i cipressi.

Adoro il loro legno appena tagliato; l’odore, l’aroma e la consistenza della segatura. Ho lungamente frequentato, per mestiere e parentela, laboratori di falegnameria e segherie e non ho vergogna a dichiarare amore eterno per quel legno. Godo come un riccio quando riesco a realizzarci infissi e mobili. In casa, per la gran parte costruita in economia, di questo legno c’abbiamo, con grande rammarico, solo la porta d’ingresso.
Rammento anche che tra quegli intrigati rami gli amici più svelti riuscivano a trovare nidi di passero e uova anche per sopperire alla mancanza di merenda. Non ho mai nascosto la smodata passione estetica per quest’albero puntuto che ha la grande particolarità morfologica di avere lunghe appendici volte in giù  e altrettante verso il cielo.

Ho la fissa dei cipressi.

Li disegno da sempre. Con lapis e chine e anche pennelli. Una volta ne ho disegnato uno in scala reale. Ero in spiaggia e ne incisi la sagoma sulla sabbia. Ho ingaggiato  la bambina milanese dalle trecce indiane e l’ho trascinata per le gambe in modo che il suo didietro scavasse sul terreno un solco vagamente tondeggiante. Ho costruito la pista per la gara col le palline di plastica; quelle con dentro le foto dei ciclisti. Rammento che con lei feci un figurone anche se il mio Bitossi fu battuto come di regola.

Una domenica pomeriggio di fine settembre mi sono seduto sotto a quello del Valcello e ne ho rilevato le misure al centimetro. Quel disegno è servito come traccia per innumerevoli alberi appuntiti; in filari ordinati o in solitaria; nei miei modesti progetti fin dai tempi dell’università. Ho rinvenuto da poco un disegno, a china su carta lucida, dove l’albero piega appena la punta al vento di ponente. Si tratta del progetto, “scala uno a venti”, dove usai i play-mobil;  omini di plastica per l’appunto della medesima scala grafica; che si muovevano sopra a piante e sezioni. Una bomba. Da quella volta in avanti da alcuni, professor RB compreso, son rammentato  come “l’uomo che disegnava i cipressi”.

Un’altra volta questa mania mi costò cara. Avevo la commessa per progettare tre nuove case per altrettanti parenti. Le disegno attaccate e aperte verso valle: una “C” con un albero acuminato nel mezzo. Al tempo ero fissato con l’architettura dei luoghi. In quel caso  mi ero guardato le case rurali toscane con l’aia sul davanti. Mi presi una barca di tempo a scegliere la posizione e disegnare l’albero. E poi banalmente lo piazzai preciso nel mezzo. Inviai il disegno ai competenti uffici e la commissione edilizia del Comune mi stroncò il progetto per via dell’incongruenza vegetale troppo ingombrante. Sapete che c’è? “affare in tasca alla commissione”.


E ora  che si ragioni del cipressone.

Qualcuno l’ha lì piantato da cent’anni o forse più. Sta a metà della salita che dal fiume conduce all’abitato; all’incrocio con la campestre che conduce al podere Valcellino, appena prima del cancellone d’ingresso al giardino botanico Della Nave; nobile famiglia fiorentina il cui capostipite pare fosse un valente navigatore. Il cipresso come segnale di confine e atto poetico che disegna l’intorno. Quello stesso della sosta col mignolo rosso sangue. Isso che alla fine dello scorso agosto è stato colpito da una saetta.
Saranno state le due del pomeriggio e un violento temporale aveva fatto mancare, al solito, la corrente elettrica. Ergo avevo appena aperto la cassetta dei contatori esterni nella speranza di risolvere il problema. Intanto piove e il fortunale aumenta d’intensità proprio mentre una luce improvvisa mi lampeggia sopra e scarica tutta la sua energia poco più in la. Conto un secondo e poco più. Poi arriva il rumore assordante unito ad uno schiocco tremendo del tipo: “bum stump bada bum blam screck vlam”. Il fulmine si è sfogato proprio in vicinanza. Continua il temporale ma la curiosità è troppa. Mi armo di calosce verdi e cerata gialla e mi metto in moto. Percorro veloce il vecchio borgo e imbocco la discesa del Valcello. Conto i passi e anzi le falcate. Alla terza curva a scendere provo un rapido calcolo rammentando la misura media della mia camminata: zero settantaquattro per trecentocinquantatre produce circa duecentosessanta e rotti. Svolto la curva e stimo il percorso restante in una quarantina di metri. A trecento metri da casa c’è il cipressone colpito dal fulmine. Brucia come una torcia imbevuta di pece. È stato colpito di striscio ma il danno è notevole. Le fiamme si divertono a percorrere indisturbate il groviglio dei rami interni. Le foglie, le prime attaccate dal fuoco, sono oramai cenere e in volo verso le nuvole. Solo una parte dell’impalcato e il tronco fanno resistenza ad oltranza. Ma è chiaro che  non ce la possono fare. La lotta è impari.  Poi, come non spesso accade, succede un fatto inaspettato: a sirene spiegate arriva un pick-up del servizio antincendio che per caso passava sulla provinciale. Ha sul cassone un grande deposito d’acqua e la pompa d’ordinanza. L’operatore opera e spegne in poco tempo l’incendio. L’albero è salvo. Malridotto ma ancora in vita. A dir la verità solo un quinto del fogliame pare esente da bruciature o danni visibili. Se si fosse trattato di una persona con l’ottanta per cento di pelle riarsa non ci sarebbe stato più nulla da fare. Ma qui si tratta di un centenario che “ne ha viste di cose che voi umani ….” e di sicuro ce la farà.

Infatti la mattina dopo il nostro eroe è ancora in piedi. Pare anzi che stia migliorando. Son partito presto per fare una camminata; quella lunga dei sette chilometri. E tornando mi son fermato in riposo a sedergli accanto. Abbraccio il tronco e accarezzo la chioma. Decido sul momento che ci passerò ogni giorno per tutta l’estate e poi ad ottobre e anche a novembre e via nei mesi a venire. Anche stamani ci son andato. Con l’auto scendendo la discesa.  Ascoltando il giornale radio delle sete e mezzo. Alla terza curva a scendere mi appare il vuoto. Lui non c’è più. Al suo posto c’è un tronco tagliato a filo terra e un po’ di segatura sparsa. È bastata una passata grossolana di una banale motosega armata; meschino che non ne riconosce il valore; dal padron del greppo.

E più non dir conviene.

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