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La stanza, 1999 |
La stanza | 1999
Vengo da
lontano. Da molto lontano. Vengo da tre
stelle più in là rispetto alla vostra che chiamate Sole. Gli esseri che mi
hanno creato possedevano una tecnologia che nemmeno immaginate.
Possedevano
perché sono ormai terminati.
Gli ultimi
superstiti sono riusciti appena a lanciarmi nello spazio prima di essere
spazzati via dal grande meteorite. Le guerre prima e la natura poi hanno
condotto alla fine la razza che mi ha costruito.
Secondo i vostri
canoni estetici erano brutti, sporchi e cattivi.
Ma non voglio
stare qui a chiacchierare di loro che ora non sono più. Voglio parlare della
mia missione. Dell’ultimo ordine introdotto nei circuiti del mio cervello
elettronico.
Cercare la vita.
Vita. Ma evidentemente la fretta ha fatto digitare da Hdgrofg,hr+ìje [ndr. il
prenome di chi mi ha lanciato l’ordine] “Cercare
la Vite”.
Io non sapevo
che cosa fosse ciò.
Allora ho
girovagato nel vuoto siderale per tanto tempo. Qualcosa come centounomila dei
vostri anni solari. Sono poi giunta nelle vicinanze del vostro pianeta.
Non vi voglio
stancare raccontandovi lo mio stupore quando ho visto chi comandava. Esseri
piccini con due piedi, due mani e una sola testa che i miei costruttori
avrebbero sicuramente giudicato brutti, sporchi e cattivi. Ho comunque cercato
quello per cui ero stata creata.
La Vite.
Ho trovato la
vite e ho assaggiato il suo succo. Anzi ho bevuto il ricavato della
fermentazione del suo frutto che mi pare che si chiami vino. Mi sono, come
dire, ubriacata di quello strano nettare rosso rubino. Allora varie domande mi
sono sorte spontanee. Ma che me ne faccio della vite; ha chi faccio rapporto.
In sostanza a chi lo dico che sono riuscita nel mio intento?
Ma il vino fa
strani scherzi a chi, come me, è
astemia.
Intanto ho perso
il conto del tempo e mi è venuto un grande sonno. Ho pensato: mi riposerò un
poco e dopo riparto. Sono quindi giunta in vista del piccolo paese, sotto la
montagna e vicino al fiume, da dove vi racconto la mia storia. Ricordo appena
lo stupore di voi umani alla vista della mia forma tutta affusolata e lucente.
Credo di assomigliare a uno dei vostri sigari solo che sono centouno volte più
grande e volo. I miei sensori mi hanno comunicato un ventaglio di ipotesi su
quale fosse il posto migliore per atterrare.
Ho scelto.
Ho scelto un
piccolo locale al piano terra lungo una piccola strada. Ho calcolato le
dimensioni dell’ingresso che misura duecentocinquantadue dei vostri centimetri
per tre dei vostri metri.
Ci passo.
Atterro. Entro. Mi riposo e riparto.
Ma il calcolo
era sbagliato. La vista ed i sensi annebbiati dai fumi dell’alcol mi hanno
fatto sbagliare visto che io misuro duecentosettantadue per treezerosei.
Un sordo rumore
di lamiera che raschia sulla pietra accompagna il mio ingresso nel locale. Le
mie ossa e la mia pelle ne risentono. Perdo pezzi dappertutto e sono tutta un
dolore.
Che faccio?
Mi sa che mi
faccio aderente al luogo, alla terra e al bosco, all'acqua e alla gente del
posto. Quello che rimane del titanio della struttura e dell’alluminio del
rivestimento le trasformo in legno e mattone. Sarebbe pietra ma il costo è
proibitivo e allora chi se ne frega. Mi metto al vostro servizio.
Mi faccio Stanza.
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