Lettori fissi

Timbri

Cerchio + inclinato, 2010



Timbri | 2010

Mio babbo è nato il primo giorno di primavera di diversi anni fa.

Per la precisione tre anni dopo il trenta. Abitava una casa a pigione composta di tre stanze. Nella prima c’era un grande camino e poco altro: un tavolo con delle sedie, una vetrina e una madia. L’acquaio era incassato in una nicchia a muro insieme ad alcuni ripiani di legno. La seconda stanza era usata come camera per tutta la famiglia composta da persone cinque. Il terzo locale; dotato di una minuscola finestrina e quindi mica tanto abitabile; aveva usi molteplici: ripostiglio, dispensa, legnaia e magazzino. Per arrivare all’appartamento si doveva salire una buia scala composta da due ripide rampe di ventuno più ventidue scalini di pietra tutti consumati. Prima di salire la scala bisognava aprire una porta a tirare in fuori. La porta dava su un vicolo stretto pavimentato con consumati lastroni di pietra. Un muraglione; alto sei metri e trenta o giù di li; fiancheggiava il vicolo e impediva la vista dello splendido parco padronale. Il caseggiato faceva parte del quartiere più povero del paese ed era battezzato “il Fornino”. Il nome deriva evidentemente dalla presenza di un piccolo forno; fornino appunto; per cuocere il pane.

Questo è quello che ricordo dopo un sopraluogo allo stabile.

La visita è stata effettuata da un ragazzo di anni dieci. In paese si diceva che quella zona; disabitata da diversi anni; era infestata dai fantasmi. Il moccioso abitava una casa nuova nel nuovo quartiere “Pian di maggio” per via di una processione che vi si svolgeva il giorno del patrono del paese. E il giorno è la seconda domenica, guarda caso, di maggio. Il fanciullo sentiva che doveva condurre un esplorazione alla ricerca delle sue radici. E la doveva fare da solo.

Senza i compagni di merende.

E da solo mi son recato nel vicolo dopo la piazza della chiesa. Mi par di essere dentro le prime caselle del gioco da tavolo da poco avuto in regalo. Sono indeciso se percorrere il vicolo corto o quello stretto. Di sicuro non sono al parco della  vittoria. Saranno state le otto e trenta di un pomeriggio del mese della Madonna e la stradina è in penombra. Una penombra che sta virando verso il buio viste le dimensioni della viuzza e l’altezza dei caseggiati circostanti. In fondo al percorso c’è una porticina semiaperta. E subito dopo cominciano le scale. Le percorro in fretta che sono buie e maleodoranti. Al secondo piano il buio è; se possibile; ancora più buio. Si affetta con il coltello. L’uscio è chiuso. Ma non con una chiave o con un lucchetto. Il legno è rigonfiato o lo stipite si è mosso. Fatto sta che è incastrato. Non mi perdo d’animo che la ricognizione “s’a da fare”. Spingo con forza e entro. Dentro ci sono le stanze che mi ha descritto il babbo. Con i pavimenti di mezzane dipinti di cinabrese, il camino e tutto il resto descritto dal genitore. Manca solo la scarsa mobilia. Resta però quel senso di povertà che mi son sempre immaginato. I solai sono imbarcati verso il basso e dal soffitto, in diversi punti, si vede il cielo. Le imposte sono socchiuse e l’aria è impregnata del puzzo di escrementi. E’ il regno dei piccioni. C’è un silenzio innaturale. L’esploratore fa il suo mestiere e si avventura nella terza stanza: la più buia. E mentre sono intento a cercare la mezzina di rame; che la nonna è sicura di aver lasciato “ … in quel rientro dietro la porta della legnaia” al tempo dell’abbandono della casa; sento un rumore. La paura mi assale e smetto i panni di Indiana Jones e mi vesto da Vil coyote.

Scappo via.

Correva l’anno del Maggio francese e io corro con lui giù per le scale. Corro  veloce verso la piazza e il lampione da cento watt che illumina il portone della casa del signore. La funzione del mese di Maria è appena terminata e le mamme sciamano fuori. Mi confondo con gli amici del pallone e mentre mi asciugo il sudore freddo la mamma mi vede. E mi fa: “ …  ‘o te nini … in dove tu sei stato? In chiesa non ti ho visto”. Smetto i panni del pavido e mi travesto da raccontatore di bugie. E faccio: “ … come un tu mi hai visto; ero su vicino all’altare. Ero accanto alla porta della sagrestia”. Si vede lontano un miglio che la menzogna non è raccontata bene per niente. Ma la genitrice fa spallucce e si avvia verso le panchine a ragionar con le altre comari. Non son mai stato bravo a raccontar frottole. Non riesco mai a farla franca. Sia che provi il bluff al poker o che inventi una panzana su chi ha rotto un timbro. Proprio ieri, nel mettere ordine in casa del genitore lo trovo.

Il timbro intendo.

E’ in fondo ad un cassetto nella stanza adibita a ripostiglio della quinta casa abitata dalla mamma. Facciamo le pulizie di primavera e mi trovo per le mani il primo sigillo che mi ricordo. E’ proprio quello che ho rotto il pomeriggio della mia spedizione alla casa disabitata. Ricordo che al tempo incolpai Ringo: il cane da caccia del padre. E anche rammento che lui mica ci credé; anzi appena lo scoprì si inalberò moltissimo. Era il suo primo timbro da imprenditore e ne andava particolarmente fiero. Il babbo proviene da una famiglia modesta (eufemismo per non dire povera … ndr). Suo padre era stato bracciante di fattoria e sua madre badava alla casa e ai figlioli oltre a fare il battitore libero che vuole dire che faceva quello che trovava da fare. Daddy (all’inglese … ndr) ha fatto diversi mestieri. E’ stato badante di maiali per due estati di seguito nel quaranta e quarantuno. Poi aiutante verniciatore di carri nei doposcuola fino alla fine delle elementari. Dopo la licenza di quinta si è impiegato come aiuto manovale nell’impresa di costruzioni del cognato. Poi è salito i gradini della gerarchia della calce e dei mattoni.

Prima manovale e poi mezza mestola e poi ancora muratore di prima.

Appena terminata la ferma militare si è messo in proprio e si è fatto fare il timbro. Il marchio serviva ad annullare la firma in fondo ad un documento ufficiale dato che non aveva la carta intestata e manco la macchina per scrivere. Il timbro in questione è di legno e riporta: cognome e nome, la qualifica di muratore e l’indirizzo. E basta. Adesso è riposto nel cassetto della vetrina della nonna. Lo riconosco dall’impugnatura sagomata di legno lucido con il pallino rosso per facilitare l’azione di timbrare per il giusto verso.

Ed è ancora rotto.

Proprio nel punto che ricordo quando mi divertivo a pressarlo sul quaderno a quadretti di aritmetica. Volevo emulare il signor Mario; l’uomo con un braccio solo. L’unico impiegato dell’ufficio del dazio giù al paese di Poggio. Lo ricordo bene. Ci andavo con il babbo sopra al furgoncino verde mela. Si parcheggiava proprio di fronte all’ingresso e si entrava dalla porta a vetri. Si doveva pagare una qualche imposta e lui pigliava uno stampato. Ci scriveva sopra dei numeri e tirava delle somme. E poi ci dava giù di timbratura. L’operazione era per lui abbastanza complicata visto che mancava della metà dell’arto sinistro perso al tempo della guerra. Rammento bene tutti i movimenti bizzarri che doveva fare. Si contorceva per trovare la posizione giusta e poi con il moncherino della mancina teneva fermo il documento. Con la mano buona impugnava il sigillo, lo bagnava sul tampone dell’inchiostro  e lo sbatteva con forza sul foglio. E ancora. E ancora. Per tutte le prescritte cinque copie. Una per l’ufficio e una per il babbo. Mi sono sempre domandato a chi erano destinate le tre copie in eccedenza.

Forse per accendere il fuoco della stufa del ministro delle imposte.

Di timbri ne rammento altri. Intanto riporto il suo significato tratto dal Vocabolario della lingua italiana, compilato da Nicola Zingarelli, edizioni Zanichelli (BO), anno 1968: “Timbr o, m. *fr. TIMBRE. Bollo.|dell’ufficio.| a secco.|di voce, Metallo. || Tempera. –are, a. Bollare. ||ato. Pt., ag.” Il mio primo è auto costruito. Durante il progetto della tesi disegno l’assonometria, da sotto,di un bastione di mattoni e pietre. Il disegno mi appassiona al punto che ne disegno una versione ridotta della sagoma su un pezzo di gomma da timbri. Incido la superficie con il taglierino e se ne escono due figure. L’una complementare dell’altra. Un positivo e un negativo. La sagoma interna ricorda una rondine in volo vista da lontano. Una specie di “vu” frastagliata. Con lo scotch biadesivo l’appiccico sopra un pezzetto di legno avanzato dal corrimano di una scala. Acquisto un tampone vergine e lo impregno di inchiostro rosso vermiglio. Con lo stampino ci annullo tutte le tavole.

Ho costruito il logo del progetto.

Al momento di scrivere i testi sui disegni il gruppo della tesi si inventa una serie di linee diritte e inclinate. In somiglianza ai bastoncini che si facevano i primi giorni di scuola per imparare a scrivere. E con quelle stanghette si architetta una specie di strano font con cui si scrivono: pianta, prospetto, sezione e via e via. Dopo che mi hanno conferito la licenza per disegnar case e cose e chiese mi ritrovo con molto tempo libero.

Le case e le cose e le chiese mica le fanno disegnare a me.

Mi ritrovo con una barca di tempo a disposizione e allora recupero una di quelle lettere. Per la precisione quella con cui inizia il mio nome di battesimo. La disegno per benino con linee inclinate, raccordi, curve e frecce. Se ne esce fuori un altro marchio. Di questo ne faccio una copia sopra a un cartoncino grigio martellato avanzato dalla copertina del progetto del bastione. Ho imparato il trucco. Ritaglio il positivo e il negativo e li uso per prove grafiche. Nel frattempo la Silvia mi ha regalato uno strano aggeggio che spara aria a pressione insieme all’inchiostro. L’ho visto usare, con maestria, da un grande disegnatore di moto e di autobus e di treni. Un signore con i baffi che adesso non è più tra di noi e che mi ha imparato una barca di cose tra cui i rudimenti della grafica. Con l’aerografo mi vesto da spruzzatore e faccio diverse prove che non mi soddisfano per niente. Allora cerco un vero tipografo per avere un vero timbro. Questo misura millimetri quindici per venticinque.

E ci timbro i disegni a mano.

Lo adopro come un sigillo che provi la paternità dell’idea. Questo piccolo logo, insieme al suo tampone inchiostrato di rosso, mi accompagna, ormai da un quarto di secolo, nei miei spostamenti di architetto condotto. Adesso travaglio nel tredicesimo luogo di lavoro e il bollo mi ha sempre seguito come un compagno fedele. E’ il primo oggetto che impacchetto quando arriva il momento del trasloco. Ci annullo sempre e i disegni a mano e, da qualche tempo, tutti i libri. Poi un signore conosciuto al tempo del servizio civile mi ingaggia per disegnare una piscina e un ristorante e una pizzeria. E’ il mio primo lavoro da professionista.

Occorre il timbro ufficiale dell’ordine.

Lo richiedo alla segreteria e intanto progetto i volumi. L’urgenza della commessa mi sprona a far veloce. Disegno di giorno e anche di notte. Faccio in fretta che l’architettura aspetta. E son talmente lesto che il mio piano arriva prima del marchio del tipografo del mio ordine. Son costretto ad annullare le tavole del progetto senza il timbro tondo. Mi arrangio con una scritta a mano che riporta: nome e qualifica, ordine e provincia di appartenenza e numero. E mi tocca farlo per le trentatre tavole del lavoro. E per le prescritte cinque copie. E mi domando, come quando ero piccino, a chi sono destinate tutte ‘ste copie.

Magari è vero che in comune ci accendono la stufa.

In quei mesi mi capita di partecipare a una competizione per il disegno di  “nuove forme per il marmo”. Lo faccio insieme a tre amici. Due sposi e anche architetti e una ceramista. Il nostri disegni hanno la ventura di ricevere il primo premio. Un milione delle vecchie lire o giù di li. La cifra è investita nella costruzione del prototipo (al vero … ndr) di due oggetti: un tavolo e un paravento di pietra e marmo e terracotta.

Bellissimi.

Ma di ‘ste vicende se ne ragiona in altri scritti. Qui occorre dar conto di marchi e bolli e logotipi. E questo lo si disegna sopra a un pezzo di pietra del cardoso. Secondo noi ha le proporzioni delle tavole della legge. Quelle dei dieci comandamenti. Il nostro ambisce a diventare il manifesto di intenti di una società per la costruzione di oggetti di pietra che mai sarà scritta nel registro delle imprese. Il disegno è fatto per incisione su pietra. La pietra misura centimetri cinquanta per trentacinque con spessore due e cinque. A sinistra in alto c’è un labirinto circolare preso dal duomo di Lucca. Sotto ci son tre quadratini con prove di incisione. Nel mezzo, per il verso dei trentacinque, c’è incassata una striscia di terracotta. Sul coccio, che è in altorilievo, è riportato un decoro, sagomato prima della cottura, copiato par pari dalla facciata della Santa e Maria e Novella disegnata dal buon Leone. Sul lato destro in alto c’è un quadrato con dentro un altro quadrato ruotato di quarantacinque gradi. E via con quadrati successivi ruotati e sempre più piccoli. In basso si leggono tre lettere in fila più una sotto rigo. Son di carattere bodoni e sono incise anch’esse: O P V S. Se le volete decifrare dovete ricorrere ad un vocabolario di latino e ricordarvi che per i nostri tris trisavoli la V era in realtà la nostra U. Dopo di che potete, se avete voglia, tradurre la parola. Questa opera è adesso piazzata sopra alla porta della stanza di ricevimento. La vedo tutte le mattine quando mi siedo al tavolo con le ruote e disegno a mano. Le quattro lettere le ho poi adoprate per diversi usi.

Una volta sono stato dal tipografo a cercarle.

Le ho trovate in una versione che assomiglia all’arial del programma di scrittura della gran parte dei computer. I caratteri da stampa in piombo non son più usati visto che la composizione a mano è stata sostituita da quella virtuale ed elettronica. Li ho trovati e mi son vestito da falegname. Un fondo di medium density e quattro listelli di legno compongono la base e i bordi del nuovo timbro che mi son costruito. L’aggeggio di legno misura cinquantotto per ottantaquattro spessore trenta millimetri. Mi son aiutato con un seghetto, colla vinavil e una barca di pazienza. Le lettere adesso sono dieci: quattro grandi e sei piccole. Con quelle piccine ho composto: studio. Le ho montate dentro a una figura rettangolare composta da sei immaginari quadrati. Sono in rilievo e con questo stampino ho costruito dieci biglietti da visita ingombranti.

Li ho fatti in terracotta.

Mi son ricordato che da ragazzi si andava a giocare in un anfratto sotto al paese. Una specie di canale scavato dall’acqua e dai movimenti del terreno. Ci si replicavano battaglie immaginarie e ci si riparava dal sole estivo al momento della merenda. Ci son tornato. il canalone è cambiato appena un poco. Sul fondo c’è sempre la terra grigia. Ne prendo una generosa porzione e la ripongo in garage involtata dentro un cencio bagnato. A tempo debito, sempre la mattina presto, distendo e sagomo l’argilla seguendo le misure del timbro auto costruito. Poi ci presso sopra il sigillo. Dieci rettangoli di argilla per dieci biglietti. Li vado a cuocere in una fornace di mattoni che cuoce ancora a carbone e che abita un luogo che ricorda la parola laterizio declinata in versione latina. I dieci rettangoli che escono dalla cottura son tutti deformati. Uno differente dall’altro. Alcuni, durante la cottura, hanno incorporato le polveri del carbone e presentano un colore rosso brunastro. Altri, evidentemente più lontani dalla fiamma, sono di un rosso tenue quasi rosato.

Tutti sono imbarcati secondo nessuna regola.

Uno spettacolo per la vista, per il tatto e per il cuore del ceramista improvvisato. La scritta è impressa da un negativo e quindi il bassorilievo produce una serie di ombre che si confondono con il colore del cotto. Decido di usare i biglietti di coccio come regalo di buon auspicio per le case di disegnerò. E cinque li ho piazzati in altrettante famiglie. Quattro li ho adoprati per fare esperimenti di colore che non meritano di essere raccontati. L’ultimo, il più bello, l’ho riposto in un luogo talmente segreto che non riesco neanche a ricordarlo. La tecnica adoprata mi sollazza e mi conduce verso il disegno di un timbro a secco. Stesse proporzioni del rettangolo da pigliare in mano ma con dimensioni ridotte in maniera esponenziale.

Questo ha una forma ergonomica e spaziale.

E’ tutto di acciaio cromato e sta dentro un sacchetto di tessuto verde scuro con la scritta del produttore. Circa al centro dell’oggetto c’è il posto per inserire un foglio di carta. Con il “secco” ci bollo i disegni che mi vengono meglio. E visto la mia notoria mano legnosa, goffa e impacciata di disegni ne ho bollati ben pochi. Però alcuni anni fa l’ho adoprato per un giorno intero e per almeno cinquanta volte. Ho annullato le prove grafiche di una classe di studenti di disegno industriale in occasione del progetto per l’allestimento di un piccolo museo del territorio. Dopo quasi quarantanni son riuscito  veramente ha emulare il signor Mario bollatore del dazio. Un altro stampino che ricordo bene l’ho acquistato da un rigattiere fiorentino una trentina di anni or sono.

Era un regalo natalizio per un amico e socio di lavoro.

C’era stampigliato un gallettino e mi pareva un ottimo presente per segnalargli in maniera discreta il suo voler essere sempre, anche troppo,  il capetto del pollaio. Sempre alla ricerca di galline da impalmare. Ho perso di vista il compagno e anche il sigillo. E un po’ me ne rammarico. Soprattutto per il marchio. Ci sono poi altre timbrate che rammento. Queste sono sopra alla ceralacca e servono a sigillare le buste di certe offerte progettuali o economiche. Io mi sono organizzato con: una stecca di cera da colare, un vasetto di coccio, una scatola di fiammiferi di legno, una candela e il piedino di alluminio di una vecchia cassettiera recuperata in un cantiere. La cassettiera è stata accompagnata a discarica ma il piedino di allumino sta ancora dentro la scatolina della ceralacca con cui sigillo i disegni dei concorsi a cui spesso partecipo e che di rado ho la ventura di vincere.

Ho la fissa per i timbri.

Viviamo un periodo di firme certificate e digitali, di piccioni elettronici e di collegamenti virtuali. Loro (i timbri … ndr) rimangono per fortuna oggetti da prendere in mano e sbattere con forza sopra ad un pezzo di carta. Quando li adopro ripenso spesso a Mario. E ci pensavo; chissà come mai; un giorno di inverno di diciassette anni fa. Avevo in mano la chiave di una grande fabbrica di piatti di ceramica. Il luogo di lavoro era dismesso da diversi anni. Ci erano stati impiegati un centinaio di cristiani tra operai, tecnici e impiegati. L’opificio era stato impiantato nella seconda metà dell’ottocento da un illuminato signore di sangue blu. Ed aveva prodotto scodelle e vassoi e brocche e fruttiere eccetera fin verso la fine degli anni ottanta. Poi la produzione era stata trasferita in altro luogo più moderno.

E la manifattura adesso era vuota.

Era in attesa di altri usi. Ero appena stato incaricato di dirigere i lavori del progetto di riattamento di tutti quei fabbricati che compongono un isolato lungo metri duecento per trenta di altezza variabile da sette a quindici. Era la domenica dopo la Befana e il giorno prima che gli operai iniziassero i lavori. Avevo visionato una barca di foto e di disegni ma non ero mai stato dentro. Adesso ho la chiave e ci vado da solo. Ci vado subito dopo desinare che il sette di gennaio fa buio presto. Ci entro armato della fida reflex giapponese trentacinque millimetri vecchia di quindici anni. Con la borsetta di plastica nera, un flash e i tre obbiettivi di ordinanza: ventotto, cinquanta e centotrentacinque. E almeno cinque rullini di pellicola da trentasei pose in bianco e nero ‘ché le foto di architettura hanno da essere fatte con i toni del grigio e mica a colori. Il luogo è spettrale. E’ stato abbandonato da almeno un paio d’anni e adesso è il regno di topi e piccioni. Ho buona memoria e rammento bene l’esplorazione alla casa del babbo di ventisette anni prima. Sono ancora pavido ma adesso ho in mano una pila da cantiere e un coltellino in tasca. E mentre uccido la quinta bionda  varco il cancello del primo capannone vicino alla cabina elettrica.

Ecco adesso sono dentro.

Esploro con calma e meticolosità. Cerco oggetti per gli anni a venire. In questo assomiglio al nonno e alla mamma. Ho bisogno di oggetti da toccare per ricordare le cose della vita. Negli anni ho accumulato una tale quantità di cianfrusaglie con cui potrei arredare un mini appartamento. Ma anche ‘sta storia magari la scrivo a tempo debito. Intanto Indiana Jones è tornato. Adesso ricerca piatti di ceramica e timbri. E li trova. I primi in fondo ad uno stanzino buio. In uno scaffale di legno ce ne sono almeno trecento e sono tutti alla prima cottura. Nel senso che ci manca lo strato colore e l’ultima cottura per farli diventare di ceramica. Probabilmente sono scarti di lavorazione che altrimenti mica venivano abbandonati. Molti sono sbrecciati e diversi sono incrinati. Ne scelgo almeno trenta tra vassoi e scodelle e insalatiere. Li caccio in macchina con l’intento di farli diventare oggetti d’arte. Decorarli con certi disegni che ho in mente e farci una mostra. E come diversi miei buoni propositi stanno ancora nello scaffale di metallo giù in garage. Ma questo non è uno scritto di pensieri o filosofia. Le parole devono scorrere veloci per catturare il lettore

Adesso è l’ora della ricognizione alla ricerca della scatola dei timbri.

Allora mi rimetto in marcia. Mi caccio in testa il cappello sgualcito e mi allaccio la frusta alla cinta. Sono pronto. Sono un perfetto scopritore di tesori. E non ho manco bisogno della mappa. Mi son disegnato tutta la planimetria in testa. L’ho mandata a memoria giusto la notte prima. La certezza di sapere dove si trova a “ics” mi accompagna verso la palazzina degli uffici. Salgo la “buia scala composta da due ripide rampe di ventuno più ventidue scalini” e sono al piano che mi interessa. Percorro in fretta il corridoio dove, a pettine, si affacciano le varie stanze. In fondo c‘è quella del direttore. Il locale affaccia proprio sotto il grande rosone della Basilica di Maria Santa delle Grazie. Se mi affaccio alla finestra e tendo il braccio lo posso quasi toccare. E volendo potrei ragionare delle sue vetrate colorate che raccontano la storia della chiesa e della città.

Ma con i panni dell’architetto me ci vesto domattina presto.

In questo momento sono Marlowe. Anche se al posto dell’impermeabile bianco ho il piumino per sciare colore verde ramarro mi sento tanto investigatore privato. Cavo di tasca la lente d’ingrandimento e comincio la ricerca. E cerca e cerca finalmente trovo la scatola. La trovo, nell’ultimo cassetto dell’ultima scrivania, coperta da una serie di bolle di consegna rosicchiate dai nuovi abitatori dell’edificio. Anche la custodia, che è di cartone, è tutta rosicchiata dai dentini dei topini che l’hanno eletta a domicilio. Sono un bravo detective e la deduzione è il mio mestiere. Ad onor del vero devo dire che l’informazione è suffragata dalla presenza di una barca di escrementi secchi di alcuni mesi almeno. Evidentemente, viste le dimensioni, il posto non manca e gli inquilini si sono spostati verso altre scatole.

Finite le elementari deduzioni mi guardo i timbri.

Ce ne sono una marea. Sono quasi tutti di legno ma ce ne sono anche tre di plastica. Per affezione mi concentro sui più vecchi. Quelli con hanno la parte che sbatte sul foglio in lega di rame e zinco. Quelli di ottone. E tra questi uno tondo con le stesse dimensioni di quello ho avuto in dono dal mio ordine insieme al numero a tre cifre che mi rappresenta professionalmente. La somma delle mie tre cifre fa nove. Poco sopra ai numeri, quasi al centro, leggo le mie credenziali di battesimo e a coronamento, tutto intorno in circolo, c’è una frase composta da sette parole. La frase inizia con una “O” e termina ancora con un’altra lettera uguale a quella iniziale solo che questa è a carattere minuscolo. Altro non interessa. Interessa magari sapere cosa leggo nel foglietto che incarta quello trovato nel cassetto in quel giorno d’inverno.

Bene.

Ci sono tre parole attaccate che riporto fedelmente così come ricordo: “grullochilegge”. Evidentemente l’ultimo scherzo del buontempone che ha messo i lucchetti alla fabbrica. Allora raccatto in fretta i restanti altri bolli. Li caccio nello zaino arancione che ho saldamente fissato sulle spalle. Con la scatola di cartone rosicchiata e le merde e tutto. Li esaminerò con calma dopo arrivato a casa. Adesso devo finire la visita dell’opificio deserto prima che scendano le prime ombre della sera e si facciano vivi i padroni dagli occhietti gialli e le unghie affilate. Sono già le quatto e cinquantanove della “tarde” e in verità le ombre sono belle che venute. Evidentemente mi sono attardato troppo nella ricerca del “mio tesssoro” e loro (né le ombre e manco gli abitatori … ndr) mica aspettano me e neanche le mie perlustrazioni. Sento tutta una serie di rumori che prima non c’erano. Mi ripigliano i sudori freddi avuti al tempo del maggio francese e mi rivesto in fretta dal coyote vile dei cartoni animati. E faccio il mio mestiere.

Scappo via verso il rifugio dell’automobile parcheggiata lungo la strada.

Sono un lampo. Sono in macchina. Mi vesto da Ascari e scheggio verso la casa in cima al poggio dove mi aspettano la Silvia e i ragazzi. E manco rispetto il programma che mi ero dato. Li appoggio in garage con l’intenzione di ispezionarli dopo almeno diciassette giorni. E sapete com’è andata a finire? E’ successo che adesso non li trovo più. Forse li ho messi nell’ennesimo ripostiglio segreto e non ricordo il posto del nascondiglio. O forse e più probabilmente li ha spostati la mia dolce metà. Ci divide (e magari ci compensa …. ndr) una sottile ma sostanziale differenza. Io tengo tutto e non getterei mai niente. Lei invece appena una roba: un oggetto piuttosto che un maglione o un cibo avanzato; è poco poco sbrecciato o infeltrito o scaduto da un giorno la mette fuori del cancello a disposizione degli operatori ecologici. E son sicuro, al novantanove virgola nove periodico per cento, che il maglione a scacchi bianchi e neri che mi ero disegnato al tempo dei mondiali in Argentina è finito nelle mani di quei signori. Proprio adesso che, passati i secondi anta, mi sento neanche vent’anni e vorrei indossarlo. Lei si ostina a sostenere che: “ … è di sicuro nella stanza di sotto dove tieni tutte le tue puttanate”. Io son certo della mia teoria e lo piango (il pullover fatto a mano dalla mamma … ndr) come scomparso.

Mi rimane solo una piccola immagine del progetto.

Un disegno a colori su un foglio di carta velina. Il tratto di base è incerto e sgraziato. Il figurino è veramente disegnato male. In rosa carne sono abbozzati gli arti non coperti dall’indumento. A sinistra per chi guarda c’è una scritta in stampatello fatta con una matita “duebi”. Tre lettere in fila che dicono: “ska” e denunciano i gusti musicali del disegnatore in quel periodo. Di sicuro non entrerà mai nei libri di grafica e neanche in quelli di storia del design (mi auguro che finisca almeno a far da copertina ad una raccolta di racconti battezzata: Mangiare bere e disegnare … ndr) ma l’autore lo conserva ancora gelosamente nell’ennesimo scomparto segreto.

E per finire, se volete, vi racconto la mia ultima timbrata.

È stata fatta proprio ieri mattina verso le nove. Devo falciare il campo intorno a casa. In realtà il pezzetto di terra è nato giardino visto che il tecnico me lo ha schedato come resede inferiore a cinquemila metri quadrati. E il catasto; ente governativo che si occupa di tasse; ci ha creduto. Anche la mia famiglia si ostina a definirlo in siffatto modo. Solo per me è un pezzo di campagna. E stavolta ho ragione in pieno. Il terreno è proprio fuori di casa e misura un paio di cento metri quadri o giù di li. Del giardino ha le dimensioni ma non le finiture. È infatti un campo che gira per tre dei quattro lati dell’edificio. Da quando è stato disegnato per l’ufficio tecnico erariale non è mai stato lavorato dal giardiniere. E neanche seminato “all’inglese” con le essenze d’ordinanza. Sul confine, lato destro dal fronte, si contano sei alberelli da frutto: due di albicocche, uno di giuggiole e tre di susine piantati dai precedenti proprietari.

Ambirebbe semmai ad essere orto.

Ma quando mi vesto da ortolano mi pigliano le paturnie ‘che; come diceva il nonno: “… sai nini … la terra è bassa”. Lascio perdere quindi tutti i propositi di seminagione di pomodori, zucchine e melanzane e mi concentro solo sulla falciatura del campo. Le piogge di sei mesi e l’incuria del contadino (je suis … ndr) lo fanno assomigliare semmai ad una parte di podere abbandonato. L’erba è incolta e alta mediamente diciasette centimetri. L’ultima tagliata è segnata nel calendario dell’anno passato. Al primo sabato del mese del vin novello c’è scritto: “ … babbo! Ricordati del giardino. Io son con Guido e la mamma a Barberino. Giulia”. E dal quel giorno ne son passati ormai centottanta. Sei mesi di abbandono e negligenza da parte del floricoltore. Perfino i molti vasi pieni di fiori piantati dall’angelo del focolare son sommersi dall’erbacce. E anche la sdraio di plastica bianca che serve per le abbronzature integrali è nascosto dalla gramigna. Evidentemente l’abitatore più vecchio della casa non ha il pollice verde.

Anzi mentre termina ‘ste righe non ha il pollice.

Quello destro è fuori uso per via dell’incontro con la lama della falce. E indovinate chi ha vinto. Ma torniamo a bomba. Eravamo rimasti alla mietitura del campo. Mi munisco dell’abbigliamento da lavoro quando mi travesto da tagliatore d’erbacce. Pantalone corto tipo mare colore blu, maglietta di cotone con la scritta “centrale aperta” e il logo rosso dell’Enel, cappellino marroncino a tesa tipo “Che” e scarpa ginnica sbertucciata e rotta in più punti. Mi manca solo la falciatrice che mi faccio prestare dal vicino di casa e genitore. La macchina ha un motore a quattro tempi di 50 cc. Quattro ruotine di gomma nera e il carter giallo. Basta un poco di benzina verde, quattro pompate al pulsante dell’aria e va subito in moto.

Comincio dal davanti e procedo lentamente.

L’erba alta blocca le lame e il motore si imballa e si spegne. E questo succede per una cinquantina di volte almeno. Sudo come se fosse il quindici di agosto e di mestiere facessi il muratore. Sono anche stanco. Alle nove ho acceso il motore e adesso; che son le dieci e diciassette; avrò scalpato due terzi del campo tra il si e il no. Mi rimane la parte dietro casa. Quella fatta a triangolo. Quella  confinante con una rampa carrabile di porfido montato a opera incerta  e un terreno incolto destinato al deposito dei materiali edili avanzati al tempo della costruzione della casa. Quella dove ho impilato i morali di abete delle dimensioni di “… centimetri sei per dodici lunghezza quanto basta finiti a mensola da un lato”, con cui ho costruito il mio undicesimo luogo di lavoro.

Quelli che ho messo da parte per realizzare la pensilina per la macchina.

Il disegno del gazebo è il numero diciassette del diciassettesimo quaderno di appunti. Lo ricordo bene così come so con sicurezza che ‘sto stabile verrà realizzato; se va bene ma molto bene; tra almeno anni dieci. Sette anni dopo che li coperti con cura e amore e messi laggiù in fondo all’orto. E i travetti sono sempre li. La copertura di plastica non c’è più e loro sono diventati di un bel grigio legno stagionato proprio come piace a me. Mi ora mi merito una bionda. E mentre fumo la cicca numero diciassette mi viene un idea.

Voglio timbrare l’erba.

Rammento che alcuni mesi or sono ho disegnato l’ennesimo logotipo per lo studio. Questo ha le proporzioni del rettangolo aureo. In basso c’è una parola in stampatello carattere futura bk bt e una crocetta arancione sanguinante. Lo scritto è composto da sei lettere colore viola melanzana su fondo bianco. Il quadrato in alto porta al centro due linee del medesimo colore della crocetta. In effetti le due linee, che si incrociano al centro, sono la crocetta ingrandita sei volte. Una linea è parallela al rettangolo mentre l’altra è inclinata, rispetto alla verticale, di dieci gradi sessa decimali verso destra. I due trattini sono colorati come la crocetta e stanno su un fondo color porpora scontornato di bianco. E con in testa ‘sto incrocio di segmenti mi accingo all’opera.

Accendo la falciatrice e mieto.

Mi rappresento un cerchio e lo disegno con la macchina che uccide l’erba. Appena fatto mi rendo conto che la figura non è manco lontanamente parente alle perfette “o” del pastorello degli affreschi degli Scrovegni. E neanche somigliante ai mitici cerchi del grano che hanno fatto impazzire gli studiosi di mezzo mondo. Ma oramai lo so che sono un mediocre disegnatore. Non mi perdo d’animo e vado avanti. Adesso sollevo la falce a scoppio e faccio strage di margherite frammiste alla verzura. Traccio sul campo i due segmenti incrociati e pulisco la restante parte coltivata a gramigna e trifoglio. Solo a destra in basso lascio un ciuffo d’erba. Lo traccio in forma di triangolo perché ricordo che li sotto c’è sepolto Campione. Una specie di tomba a posteriori disegnata dai fiori di campo che amava tanto mangiare. Ecco. Ho finito il marchio.

Ho timbrato anche per oggi e son felice.

Ripongo gli attrezzi e salgo le scale per veder dall’alto l’opera di land art. Dalla camera da letto padronale la visione è potente. Anche se il tondo non è un cerchio il lavoro è ben fatto e aderente al luogo e ai proponimenti artistici. Domani voglio scrivere all’editore del vocabolario online consultato l’altro ieri. Al signor www.dizionario-italiano.it voglio chiedere l’inserimento della quarta definizione alla parola del titolo. Di modo che se mi danno retta si troverà scritto: “tìmbr o  ['timbro] s.m. |1 sm / strumento di metallo o di gomma che serve per imprimere bolli | 2 sm / il bollo che viene impresso con un timbro | 3 sm / qualità di un suono non dipendente dalla sua intensità e frequenza, ma dal tipo delle armoniche che lo compongono | 4 [atura] sf / segno o marchio o annullo o impronta eseguita su qualunque materiale, anche sull’erba e per mezzo di falciatrice d’ordinanza”  (in corsivo la definizione aggiunta … ndr). Salvo una serie di immagini elettroniche per i posteri e scendo al piano del mangiare dove trovo Guido detto Pavarotti. Gli domando impressioni e commenti sulla falciatura e registro la seguente frase: “ … babbo …ma hai fatto la stessa roba già disegnata sul quadernetto di appunti che hai sul tavolo dello studio … hai disegnato una croce celtica”. E mentre pronuncia le parole tende il braccio destro e sbatte i tacchi nel saluto del nazi e del fascio. E’ inutile ribattere che quel segno è un + e il trattino inclinato significa movimento e contemporaneità. Che la roba inclinata è il segno del moderno e dei nostri tempi sempre + di corsa. Che son obiettore di coscienza, non violento, democratico e mai sarò celtico.

E via e via.

‘Sta è una discussione già fatta a tavola ieri sera e persa in partenza per via che io sono uno e loro sono in tre. E la maggioranza a casa nostra vince. Allora mi allontano con le orecchie che rasentano il pavimento e faccio tutt’altro per tutto il giorno. Poi stamattina mi sveglio con una missione da compiere. Ciondolo per casa e cazzeggio fino alle dieci e sedici. Salgo i diciassette scalini verso le camere e apro la porta della stanza di Giulia detta Pippolina. Lei dorme alla grossa con il sonno dei suoi diciotto anni visto che oggi è Pasqua e le scuole son serrate. Ma io, a malincuore, la devo svegliare ‘che la sua presenza è fondamentale per il mandato che mi son dato. E lo faccio con garbo. Gli soffio con delicatezza sui capelli, la bacio sulla fronte e faccio: “ … ciao tata … tu si che mi capisci … mica la mamma e manco tuo frate’ … fammi un piacere … sono le dieci e diciassette … ti ricordi la promessa che mi hai fatto ieri? Dai fammi i capelli.

Prendi il rasoio e rapami a zero”.

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