Lettori fissi

06/01/21

E' sicuro?

 

È sicuro? | 2020-21

Babe:     È sicuro cosa?
                Il tono della voce racconta i suoi timori.
Szell:     Sollievo e sofferenza: quale dei due applicherò, adesso dipende unicamente da lei. Quindi ci pensi su e mi risponda: è sicuro?
L’aguzzino srotola un involto pieno di attrezzi odontoiatrici.
Babe :    Ha dimenticato il soggetto della frase.
                Angosciato alla vista di punte, trapani e tenaglie.
Babe :    Non so di che cosa sta parlando, non posso dirle se qualcosa è sicuro se non so con precisione di che costa sta parlando.
Szell:     È sicuro?
Regolando la lampada sul soggetto.              
Babe :    No, non è sicuro, è pericoloso, bisogna che stia attento.
E poi il carceriere impugna quello con la punta ricurva.
Il maratoneta (1976)

 Come un sacco di patate.

Son caduto di schiena come una tartaruga rovesciata. Un attimo fa ero su in alto; circa due metri; in ginocchio sul trabattello usato per pitturare le pareti in casa. Senza parapetto o altra protezione e vestito tipo mare; ciabatte infradito, pantalone corto, maglietta in cotone e cappello da pescatore: un perfetto idiota. E adesso son disteso in terra spiaggiato sul dorso; rintronato, tramortito e tutto un dolore. La campana della chiesa ha appena battuto i due tocchi dopo desinare. Non rammento il giorno ma son certo del resto: è il quindici di agosto del Novantacinque e rischio di passare il resto del pomeriggio disteso sotto il solleone.

Son quantomeno preoccupato.

Il secondo pargolo è nato da poco e il resto della famiglia si trova in camera grande; quella esposta a nord e perfetta nei pisolini estivi; cercando di addormentarlo. Mi rivedo poco fa lassù sul ponteggio intento a stuccare l’architrave della porta del garage. Mi son sporto appena un pochino di più e son venuto giù cadendo sul didietro. Non so come e né perché ma tutto il rumore dell’urto è andato a finire sulla punta dell’osso sacro. Come un lampo lampante.

Stack!

E poi un dolore lancinante sul dietro della gabbia toracica. Provo a chiamare aiuto ma il volume è a zero. Provo a muovere gli arti ma questo peggiora la situazione nelle costole. Tento di accedere alla tasca del jeans dove c’è il telefonino ma poi realizzo che il maledetto aggeggio è in carica alla presa della consolle. I vicini a sinistra sono a bisbocciare sotto le pendici del Pratomagno mentre il resto del vicinato è in vacanza lontano da qui.  Anche i parenti a destra sono fuori valle con amici: in Casentino alla sagra dei funghi. Mi sento veramente male e abbandonato da tutti.

Realizzo di essere solo per almeno le prossime due ore. 

E per ammazzare il tempo, come un presunto condannato a morte, metto in piazza tre pensieri. Il primo è la paura di aver perso l’uso dei comandi della spina con tutte le conseguenze del caso. Il secondo è l’indicibile dolore che provo ogni volta che il dentista mi divarica la bocca per cercar carie con quelle sonde appuntite. E ogni volta mi passa davanti la scena de Il maratoneta. Lo scambio surreale di battute tra dentista e paziente mentre intanto la mia bocca si sovrappone a quella di Babe. Anche oggi mi son visto al cinema. Solo che, causa assenza voce, non posso urlare.

Il terzo dei tre fa un salto indietro di trent’anni.

La scuola è finita da pochi giorni. Ho finito, come al solito senza infamia e manco un pochino di lode, la II media e adesso son qui nel mezzo del niente; un luogo imprecisato della valle dell’Arno in vicinanza ad una fabbrica di vetro. Il cantiere serve alla costruzione di una palazzina di tre piani capace di quattro appartamenti per altrettanti fratelli che chiedono di riunirsi sotto un unico tetto. Come quando erano piccini lassù sotto la montagna e il nonno capoccia lavorava per il padrone della fattoria delle Belle speranze.

Sono intento ad ululare in silenzio per non essere canzonato dai lavoratori.

Mimando alcuni passi di danza saltello sui tavoloni del ponteggio “innocenti” mentre al contempo mi scorrono in mente alcune frasi indicibili; in certi ambienti le chiamano bestemmie e son soggette a punizioni anche corporali; imparate i giorni scorsi dagli operai. Son entrato al lavoro, sottopagato e sfruttato, il primo lunedì del mese di luglio. E fino a tre minuti prima cercavo di fissare una tavola al muro di mattoni. Uso un apposito chiodo d’acciaio e il martello da carpentiere. La prima bulletta è andata bene e la tavola comincia a stare al suo posto. La seconda causa l’incidente. Il martello batte l’asse con il pollice della sinistra pericolosamente vicino alla zona di combattimento.

E come spesso succede tra i due contendenti vince, ops perde, il terzo.

Dopo due colpi andati a segno il terzo trova il dito e causa la danza sull’impalcatura e la disperata ricerca del secchio d’acqua per cercare refrigerio e mitigare il dolore. Lo trovo svoltato l’angolo e incrocio anche il resto della truppa. Cui non occorre molto per farmi cantare. Provo a inventare una storta o simile accadimento ma loro sono impietosi. Prima mi fanno raccontare la martellata e poi mi prendono per i fondelli fino a fine turno.

Per alcune altre estati ho lavorato in cantieri edili.

Una volta capitò di dover sistemare un tetto con quell’ operazione che si definisce ripassatura del manto. La casa confinava sul lato lungo con orto di vicino che non concedeva il suolo per il ponteggio.  I muratori non si persero d’animo e lavorarono da sopra la copertura legati con canapi ai camini sul tetto. E con la stessa tecnica sostituirono i canali di gronda: operai legati ai camini e pluviali strisciati pian piano sul tetto fino ai ferri sagomati. A me, che non soffro di vertigini, toccò in sorte di guidare la posa finale di un lato del manufatto. Disteso sulla pancia, sul tetto in pendenza, alla fine della sporgenza di gronda che parevo l’uomo ragno.

Incoscienza della gioventù.

In quegli anni di lavoro estivo ho girato in altri cantieri; tutti o quasi con l’asticella delle regole di sicurezza molto bassa che prevedeva, per esempio, scarponi e caschi in baracca in compagnia  degli altri più elementari dispositivi individuali.

L’estate dei miei sedici anni lavoravo ad un palazzo di sei piani.

L’impresa era intenta alle sistemazioni esterne e la gru su binario; ventiquattro alta per venti di braccio; era piazzata proprio all’imbocco delle autorimesse. Ergo occorreva un celere smontaggio. Fu ingaggiata apposita ditta specializzata che la mattina del sabato seguente, nonostante fosse giorno di riposo, si presentò alle otto precise. Gli accordi prevedevano la presenza  del titolare smontatore capo con l’assistente che quella notte aveva avuto un attacco di appendicite e in quelle ore stava sotto operazione. Io e il manovale Anacleto accompagnavamo il capomastro che, conoscendo la complessità del lavoro da svolgere, s’irritò con veemenza. Si calmò appena un poco quando fu informato del perché e percome della defezione e fece una domanda agli astanti.

E ora?

Per non farla troppo lunga ecco il succo. Occorreva qualcuno che non presentasse timori nei confronti del vuoto e fosse abbastanza incosciente da salir fin lassù, senza nessun tipo di formazione, scalare il traliccio e avventurarsi sul braccio a porgere attrezzi e bulloni al mastro smontatore. I due esperti lavoratori si chiamarono fuori e a me toccò l’onere di impersonificare l’uomo delle ragnatele.

Quelle due ore furono tra le più divertenti che ricordi.

Alla faccia della sicurezza: D.lgs. 494/96 e seguenti, Coordinatori e Corsi di formazione di centoventi ore. Che mi son toccate tutte compreso esame finale. L’anno passato ho terminato l’ultimo di quaranta obbligatorio ogni cinque anni come se fosse una specie di richiamo del vaccino dell’ultimo virus. E ieri l’ho fatto di nuovo. L’ispezione periodica della copertura di casa ha evidenziato un canale di gronda che non riceve tutto quanto arriva. Il risultato è che l’acqua tracima copiosamente sulla strada.

Mi son calzato la tuta rossa e blu, la maschera e i guanti. Son pronto alla manutenzione della grondaia. M’affaccio alla finestrina su in soffitta. Studio il percorso e via. Su per i tre scalini della scaletta fino all’apertura e oltre. Adesso son sul tetto di marsigliesi. Con tre passi arrivo al colmo. Aziono l’altimetro che racconta: dieci metri sopra il terreno. Faccio un salto e poi un altro e dopo la giravolta. Un giro completo d’orologio. Una veduta a trecentosessanta come un angolo giro: Arno, Firenze. Pratomagno, Arezzo.

Entusiasmante.

Ma adesso bando alle ciance; è il momento della pulizia. Mi appiattisco sulla terracotta e striscio sul ventre verso la fine del tetto. Non ho nessuna corda o cordino di sicurezza e neanche ganci o qualsivoglia aggeggio. Solo tuta da lavoro e guanti. Pendenza trenta per cento che equivale a diciassette gradi e lunghezza di centimetri cinquecento ventidue; questi sono i numeri su cui striscio. Per gli ultimi ottantadue centimetri smetto i panni del super eroe e mi faccio serpente. Avete presente quelle bisce d’acqua dolce che ogni tanto si avvicinano alle case in campagna? Ecco; preciso identico.

Poi pulisco.


1 commento:

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...