Sento stereo | 2019 - 21
Soffro d’Otite.
Da sempre. Ci
soffro da quando ricordo anche se poi ho scoperto; mal comune mezzo gaudio; che
tanti da ragazzi ne han patito. I nonni lo chiamavano “mal d’orecchio” con questo significando che non era niente di
strano ma anzi un dolorino come un altro tra i molteplici malori infantili.
Come sia quando mi prendeva il dolore, unito allo sturbo per il fastidio,
correvo dagli anziani che avevano sempre un qualche rimedio. M’ infilavo nel
lettone di ferro, quello con i pomelli ai quattro cantoni, a chiedere conforto e
protezione.
A seguire alcuni
loro rimedi romanzati e mutuati dalla saggezza popolare.
“Appoggia
sulla parte che ti fa male un panno molto caldo, quasi a bollore, con dentro un
pizzico di sale grosso. Funziona di certo. Altrimenti prepara una mistura con
alcune gocce d’olio evo e altrettante d’essenziale di lavanda. Con l’intruglio
inumidisci una pallina di cotone da appoggiare all’ingresso del canale. Il seguente
è il classico che va sempre su tutto: applica un impacco di acqua calda e
salata, caldissima. Ripeti più volte. Adesso andiamo in cucina a prendere una
cipolla che va tritata fine finissima, racchiusa in un sacchetto di lino e
appoggiata sull’orecchio per tutta la notte”.
L’aglio invece
sull’Amatriciana non ci va.
E di questo ne
son adesso consapevole assertore da alcune decine d’anni. Non lo sapevo invece
l’estate dei miei venticinque. Una delle prime vacanze in tenda; tre coppie per
altrettante Canadesi e un'unica piazzola. La regola quell’anno prevedeva che i
lavori di casa barra cucina erano appaltati ai fidanzati. Spesa e
vettovagliamento invece erano gestite delle tre megere. Noi ci dividemmo, al
meglio delle tre partite a tresette, il resto: sistemare la tavola, rigovernare
e cucinare. I primi due lavori mi son sempre stati pesanti e per mia fortuna al
tresette sono imbattibile. A pranzo ci arrangiavamo con frutta o panini ma la
sera, ogni sera, preparavo pasta con tutto quanto c’era in dispensa.
E quell’anno
andava forte l’Amatriciana con aglio in camicia e trito di cipolla
Eravamo dalle
parti di Sibari in un luogo neanche particolarmente interessante; niente scogli
o fondo sassoso per le immersioni ma solo banale spiaggia piatta. Due marroni
ma due marroni. Poi il terzo giorno arrivarono le onde. Grandi, alte quasi tre
metri che si frangevano, con forza spropositata e rumore anche, sulla battigia.
Cavalloni mai toccati con mano. Noi tre omini di casa ci lanciammo quindi
nell’avventura con tuffi e spruzzi e lazzi e lungamente profittammo della
novità.
E devo dire ci
divertimmo anche.
Dopo però, poco
prima del tramonto, cominciarono i guai al destro. Dolori lancinanti e pulsioni
a martello. Da non resistere. Il medico della locale farmacia, non c’era altro
a disposizione, consigliò una cura infallibile con un pasticcio d’unguenti di
provenienza sconosciuta e “… niente sole né bagni mi raccomando”. Alle
mie rimostranze per il fatto che questa era la nostra unica vacanza e “…
chissà che palle se devo stare ancora qui per i prossimi cinque giorni senza
neanche fare un tuffo” lui ribatte: “… e va bene caro signore; uno al
giorno nel tardo pomeriggio ma con la cuffia da nuoto”. L’acquistai nel
negozio di fronte dove una gentile vecchietta; fate conto il farmacista vestito
da femmina, ne aveva molte in taglia unica e di colore rosso fuoco. Durante il
tragitto per il parcheggio incrociai ben tre altri turisti, come noi del nord,
con in mano l’involto della cuffia.
“Che magari
la bottegaia e il farmacista son parenti …?” m’interrogai.
Le mie abluzioni
delle sei del pomeriggio restarono mitiche. Dopo la prima, durante la quale
solo gli amici mi prendevano in giro, una delle ragazze m’affibbiò il sopra
nome di “supercazzola”. Il giorno appresso ci si mise la spiaggia tutta.
Il dolore nel frattempo se n’andò.
Tornò durante il
viaggio di ritorno e questa volta picchiò forte e duro.
Insopportabile.
Fino alla visita del giorno appresso quando finalmente l’Otorino ispezionò
l’orecchio e le sue cavità. Guarda e fruga e tocca e spuzza e rispruzza
cominciano ad uscire granelli di sabbia e alcuni piccoli sassolini. Il cavo
libero finalmente.
Libero anch’io
ma non dai problemi uditivi.
Soffro di
sordità. Almeno questa è la convinzione in famiglia. Da alcuni anni sono
tacciato di aver seri problemi d’udito solo perché ogni tanto non rispondo
prontamente alle loro interrogazioni mentre magari son assorto in profondi
pensieri filosofici. E loro in coro. “… rassegnati. Oramai vai verso la
sordità. Ti manca solo l’apparecchio acustico”. “Magari dipende da
quell’otite non curata oltre trent’anni fa?” provo a replicare mentre li
sento beffeggiare. E in effetti se ripenso ai maschi del mio ceppo rammento
che: dopo i settanta ha sofferto nonno forse per i suoi lavori giovanili a
scavar gallerie in Svizzera e a costruir bombe in Germania; dopo gli ottanta ne
patisce babbo che ha lavorato una vita in cantieri edili e si è vestito da
cacciatore per le feste. Tutti e due lavoratori in momenti storici che non
prevedevano l’uso di cuffie, caschi o altri Dpi acustici.
Ma io son
tranquillo; non pratico sport o mestieri o hobby dannosi all’udito.
Comunque mi
attrezzo con prove e visite e controlli prescritti. Con eccesso di zelo mi
sottopongo anche un passaggio di liquidi a pressione per eliminare ogni traccia
di cerume o altro. Questo la settimana passata. Oggi sono dentro un piccolo
ambulatorio pieno di aggeggi elettrici, computer, lancette, visori, cuffie e
tutto quanto lo fa somigliare ad uno studio di registrazione musicale. In un
angolo c’è una cabina, modello le telefoniche del secolo scorso, con seduta
tavolo, cuffie e alcuni pulsanti.
L’ambiente è
perfettamente isolato. Mi sottopongo alle prove.
Queste, compreso
la visita finale, son precise e veloci. Entro la successiva mezz’ora scopro,
come sospettavo da tempo, di essere perfettamente udente. Mi sento come nuovo e
fantastico di potermi sottoporre alle avventure più mirabolanti tipo quelle che
normalmente sono il pane di super Pippo
quando attiva il super udito. Questo vado a raccontare, munito del prescritto
certificato, in famiglia e al resto del mondo. Ma non c’è verso. La sera stessa
si presentano a cena indossando tre cuffie rosse da bagno. Fanno il giro del
tavolo e attaccano la rumba.
“Supercazzola
… za za za … supercazzola … zum zum”.

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