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III, Uffizi Firenze, SB 1968 ca |
Alcuni ricordi | 2010 - 11
Vivo di ricordi.
E per non scordarmi di ricordare mi son costruito una stanza.
È una roba di
ventotto e rotti metri quadrati; le dimensioni di un mini appartamento. Misura
3,40x8,30 con altezza di 240
centimetri . Per entrare da dentro casa ci sono due
porte. Per pigliare luce e aria conto una finestra e tre finestroni. Dalla
parte opposta delle porte c’è una nicchia a sporgere in fuori che accoglie un
caminetto. Il locale è pavimentato con piastrelle di terracotta; centimetri
14x28 spessore uno; chiamate da queste parti mezzane. L’ammattonato è montato a
spina di pesce con fasce lungo le pareti. I muri e il soffitto sono finiti a
intonaco di calce dipinto di bianco color burro. Ci stanno anche due
termosifoni in ghisa e diversi pulsanti e prese elettriche con placche di
acciaio satinato. Ci sono anche un paio di ignobili luci nuove e un neon a
soffitto di recupero. In realtà l’ambiente era stato progettato; ormai
vent’anni anni or sono; come stanza da gioco per i ragazzi e per certe riunioni
collettive tipo desinari o festini (ricchi premi e cotillon … ndr). Al tempo
del battesimo della casa era ammobiliato con pochissimi arredi: un grande
tavolo di legno con alcune sedie, una vecchia credenza della nonna, uno
scaffale auto costruito e poco altro. E per alcuni anni il vano ha accolto i
giochi dei figlioli e dei loro amici e anche diversi trattenimenti danzanti.
Poi, com’è e come non è, si è trasformato pian piano, in un ricettacolo di
mobili e di cose non più usate. I ragazzi son cresciuti e il caminetto ha
smesso di produrre brace per grigliate. La sala ha cominciata a farsi piena di
aggeggi vari: arredi e masserizie, indumenti e giocattoli; suppellettili e
librerie, tavoli e libri e arnesi e scaffali e via e via.
Adesso è una
stanza da sbratto piena zeppa di cianfrusaglie.
Delle due porte
interne solo una è apribile. L’altra è ingombra di scatoloni. L’interno è un
labirinto. O meglio è una specie di percorso di guerra. Tanto per fare un
esempio se voglio aprire la finestra a sinistra della porta devo: scansare lo
stendi panni, eludere il mucchio dei panni sporchi, gattonare sotto il tavolo
ed evitare il divano messo in piedi. Ma la finestra non la posso aprire visto
che il davanzale è affollato di libri. Vi assicuro che è un esperienza unica.
Stamani poi mi
son svegliato con il proposito di cercare la scatola dei ricordi.
In realtà di
scatole di questo tipo ne ho diverse sparse in casa un po’ dappertutto. C’è la
scatola dei giochi di latta e quella delle costruzioni di legno. Ci sono vari
contenitori con dentro oggetti raccattati qua e la nei cantieri o durante i
viaggi. Una ha le dimensioni dello scatolone da sgombero. È di cartone e misura
cinquanta al cubo. Dentro ci sono vecchi libri di tecnica fotografica
appartenuti al babbo di Silvia. Bellissimi.
Ma stamani cerco
quella delle cartoline.
Son sicuro che è
vicino alla finestra e, per arrivarci, faccio tutto il percorso ad ostacoli. Ma
trovo solo libri. Mi guardo intorno e rifletto. Forse il cofanetto si trova sul
piano del caminetto. Rifaccio il percorso inverso e mi fiondo a pesce dentro la
nicchia del fuoco. Ma niente. Che magari l’abbia riposto nel cassetto del
mobile di laminato grigio topo? Macché. Non c’è manco qui. Poi mi si accende la
lampadina di Archimede. Mi ricordo dove l’ho cacciato l’ultima volta. Mi
sovviene che forse si trova al terzo piano del grande scaffale a destra
dell’ingresso. Quello costruito con gli avanzi del negozio di vestiti da
bambini di Gabriella: barre e giunti di acciaio cromato e assi di legno da
cantiere. Quello dove stanno i balocchi dei ragazzi quando erano piccini.
Quello recintato; in un patetico tentativo di ingentilirlo; da un tendaggio blu
a fiori gialli montato come se fosse un sipario teatrale. Faccio il percorso a
ritroso fino alla porta. Giro a destra, saltello tra la carrozzina di Guido e
la culla di Giulia e ci sono. Apro il tendaggio e la trovo.
È una scatolina
in plastica traforata da tanti cuoricini.
Misure
centimetri venti per venti per dieci svasata e stondata ai lati. Colore
celestino. E chissà perché me la ricordavo rosa confetto? Ma è quella che
cerco. È lei: la cassetta dei ricordi. L’agguanto e la porto con me sul tavolo
di cucina. Non faccio il caffè e manco accendo la prima cicca della giornata. Prendo
i primi “pizzini” che trovo.
Son biglietti da
visita delle + diverse dimensioni.
“Paolo
Bresciani, formatore, Pietrasanta” recita il primo. L’ho avuto dall’artista al
tempo dei tavoli di marmo e cotto. Quando, insieme a tre cari amici, volevo
aprire una società per realizzare oggetti in pietra e terracotta da inviare al
di la dell’oceano. Avevamo un nome, biglietti e blocchi per appunti; carta da
lettere e buste e depliant tutti con il logo stampato. Ci eravamo costruiti
alcuni prototipi al vero e una barca di idee in testa. Ci mancava solo il più:
quattrini. L’idea è rimasta sulla carta. Dell’esperienza mi rimane “Saxum:
tavolo da pranzo in pietra del Cardoso incisa, marmo di Carrara, terracotta
ingobbiata e legno massello, collezione Opvs, Firenze (IT), prototipo, 1986” ; che adesso è
carrellato e sopporta il peso di tutte le piante di casa.
(Omissis) … pagine quaranta circa.
Rimangono le
ultime tre. Quelle di formato fuori normativa.
Due son prese
appena fuori del paesello natale. Su di una c’è una salita ripida che svolta a
destra; la facciata di un muraglione coperta d’edera con sopra un grande tetto
a giardino e, sullo sfondo il palazzo del padrone di tutto quanto si vede.
Sull’altra è ripresa una casa colonica toscana. Un edificio ispirato ai colti
modelli rinascimentali e costruito verso la fine del settecento. Nove quadrati
per due piani. Scala centrale, impianto simmetrico, portico e loggia (tamponati
… ndr) e torre per i colombi. Bellissima. “1796” sta inciso sulla volta
in mezzane all’ingresso. Lo so bene per averla avuta, insieme a diversi altri
amici, in locazione per tre anni. Ci organizzavamo feste e ritrovi, cene e
serate danzanti e bische all’ultime mille lire. E anche la si usava come
scannatoio di giovani vergini. In paese le nostre mamme l’avevano battezzata
come la “casa del peccato” e mai sopranome fu più azzeccato.
Ecco. Mi rimane
l’ultima.
Su questa è
rappresentato il piazzale degli Uffizi preso da una finestra di palazzo
Vecchio. Dall’arcone sul fondo si vede l’Arno. Ci sono i tetti di coccio e le
altane fiorentine. Sul piano vedo tre macchine ma neanche una persona. Si
leggono bene le proporzioni tra il vuoto della piazza e il pieno dell’edificio.
E le ombre sulla facciata son talmente precise e nette che paiono disegnate. Pare
una bella foto da rivista d’architettura.
Ma c’è un
dettaglio che mi disturba. Il particolare non è nell’immagine. È nel tipo di
carta usata per la stampa. Io ho sempre adoprato carta lucida Agfa. Questa
stampa è invece impressa sopra un cartoncino opaco del tipo che si usava verso
la fine degli anni sessanta. A me è capitato di eseguire; ai tempi dell’esame di disegno e rilievo; una campagna
fotografica estesa a tutta la piazza della Signoria e dintorni. Era l’estate
del settantotto e l’Italia del calcio stava appiccicata alla televisione a
guardare i mondiali d’Argentina. Io mi alzavo alle quattro per prendere il
treno delle cinque ed essere in piazza alle sei. Scattavo foto e pigliavo
misure insieme a Gianni fin verso le sette. E dopo via di corsa alla stazione
per non padellare il treno delle otto. E poi tutto l’ambaradan per la stampa
l’ho potuto acquistare solo nel settembre di quell’anno. Ergo la foto non è
mia. Il dilemma mi consuma per il tempo della quinta sigaretta della mattina.
Allora svolto l’immagine e trovo un numero romano scritto a lapis: “III”. Non
ho per niente idea del significato del simbolo. Forse un tentativo di
schedatura oppure la terza immagine stampata o anche un semplice segnale per i
posteri. Comunque sia son certo, al di la di ogni ragionevole dubbio, che
l’ultima foto della scatola dei ricordi non è farina del mio sacco. Mi alzo a
preparare la seconda macchinetta di caffè. Quella da una tazzina + un sorso. La
metto sul fornello a fuoco basso e coperchio aperto. Aspetto e frugo nel
cervello dentro al cassetto battezzato “Ricordati di non scordare”. Il liquido
nero comincia a salire e il cassettino si apre. Dentro trovo un giorno di metà
anni ottanta. Sono da mia suocera insieme al mio amore. Si ragiona del di lei
genitore che se né andato in cielo una decina di anni prima. Per lavoro si
occupava di liquori e vini. Per diletto catturava immagini e le stampava pure.
E, secondo le due femmine, par che fosse pure bravo. E per prova provata
Gabriella si alza dal tavolo del salotto e recupera una scatola di cartone
piena zeppa di fotografie. Sono di diverse fogge e dimensioni. A colori e in
bianco e nero. In gran parte hanno per soggetto persone e animali e piante. C’è
né però una piccina picciò.
“Su questa è rappresentato il piazzale degli
Uffizi preso da una finestra di palazzo Vecchio. Dall’arcone sul fondo si vede
l’Arno. Ci sono i tetti di coccio e le altane fiorentine. Sul piano vedo tre
macchine ma neanche una persona. Si leggono bene le proporzioni tra il vuoto
della piazza e il pieno dell’edificio. E le ombre sulla facciata son talmente
precise e nette che paiono disegnate. Pare una bella foto da rivista
d’architettura”.
La chiedo e la
ricevo in dono. Il cassetto si chiude e anch’io sto per chiudere il
componimento. Ripongo le ultime immagini nella scatola ma lascio sul tavolo
quella con il “III”. Ringrazio Silvio con la preghiera del buon riposo e vado a
svegliare sua figlia e i nostri ragazzi. Faccio tutto con molta fretta ché ho
premura di arrivar in studio. Devo onorare il buon proposito che mi son messo
in capo mentre salivo le scale. Devo recuperare la cornice acquistata durante
l’ultima scorreria all’Ikea. Quella di legno ramino delle dimensioni giuste per
la fotografia.
Sono sicuro che
se lo merita.
Sia l’immagine
che lui.
Voglio proprio
esporla in casa.
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