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Bandella, 2014 |
Ascione | 2014
“Siamo nella Valle dell'Inferno, così chiamata
perché, prima della costruzione della diga di Levane, i ripidi strapiombi
rocciosi delle ripe ricordavano un pauroso meandro dell'Inferno
dantesco. All'interno di tale zona vi è un'area umida periodica, costituita
dalla foce del torrente Ascione, che qui si getta in Arno. È l'area
di Bandella …”
Terranuova Bracciolini. Storia arte ambiente di una
terra murata. Editoriale Tosca srl. Firenze, 1994
Marco Panerai. L’area umida di Bandella, pag. 180
Mio padre aveva una barca
.
La teneva ormeggiata proprio
alla confluenza tra il borro dell’Ascione e l’Arno. Il luogo, da tempo
immemore, è conosciuto dalla gente del posto come Bandella, toponimo mutuato da
un vecchio podere abbandonato. Adesso i cartelli stradali lo indicano come Oasi Naturale ma al tempo dei fatti era
solo il paradiso dei pescatori. Lo sbarramento che forma l’invaso superiore
della diga di Levane si costruisce alla fine dei cinquanta. Da allora
tremilioni di metri cubi d’acqua sono disponibili per la produzione d’energia e
per gli amici del babbo.
Ricordo che durante
l’inverno precedente si trovavano a casa nostra per lunghe serate a discutere
sopra certi progetti malamente disegnati su carta a quadretti che mi
strappavano dal quaderno di scuola. E come in ogni paesetto di campagna che si
rispetti ognuno aveva un sopra nome. C’era Gino
che in realtà si chiamava Luigino, poi Fulvione
per via del fisico e dell’altezza che gli faceva abbassare il capo nel varcare
la porta di casa e infine Giolli per
l’acume e la destrezza con le carte da gioco. Sulla falsariga della canzone del
Modugno nazionale che raccontava di “Tre
somari e Tre briganti” il trio discuteva lungamente su assi di legno e
lamiere di acciaio. La discussione sui materiali derivava dalla conoscenza che
ognuno di loro aveva di un determinato prodotto e soprattutto del mestiere che
svolgevano.
Comunque, com’è e come non
è, una sera la discussione finisce presto.
Uno dei tre se n’era venuto accompagnato
dall’amico fabbro che evidentemente aveva convinto gli altri della bontà della
sua proposta. In barba a chiglia strutturale, costole sagomate e fasciame
imbullettato; di cui tra l’altro i proponenti sapevano poco o niente ma che
avevano caldeggiato per il loro mestiere di carpentieri anche se da cemento
armato; la confraternita si accordò. Il fabbro si presentò accompagnato da un
disegnaccio appena abbozzato, da un
preventivo per la manodopera e da una stima di massima del costo del materiale.
Tubolari, lamiere e vernice antiruggine furono acquistato direttamente dal di
lui fornitore di Pistoia. Al resto: tagli, piegature, sagomature e saldature,
pensò l’artigiano, aiutato dai nostri eroi, lavorando le sere dei mesi
successivi.
E poi la barca fu pronta.
Lunga metri tre e sessanta
per uno e venti. In verità assai sgraziata e con il fondo piatto. Tanto che
ricordo di aver beccato un cinque
sulla nuca perché me n’ero uscito con: “ … oh babbo. È brutta forte. Da come
l’è squadrata e informe mi pare la Prinz
dello zio”. Tutta dipinta a spruzzo con una mano di minio al piombo e due di
verde palude. Con i remi comprati da Mario, l’amico che d’estate comandava il
patino di salvataggio del bagno Maria al Forte.
Ricordo che al varo fui
invitato anch’io.
Erano gli ultimi giorni di
maggio del settanta. Da lì a poco sarebbero iniziati i mondiali di calcio in
Messico che assegnavano la coppa Rimet.
Jannacci già spopolava con “Mexico e
nuvole” e il sabato trenta del mese della Madonna il natante si bagnò. Il
furgone WW verde pisello del babbo servì al trasporto dall’officina fin sul
bordo della diga. Un pianoro appena sopra il livello dell’acqua e appena sotto
il ponte di Bandella. Quello costruito, nel millenovecentocinquantotto, con
quattro basse arcate in cemento armato e pietrame murato ad opera incerta stuccata
a filo.
Proprio dov’era la capanna
dell’omino delle merende.
Quello che durante la
settimana girava con l’Ape, modello D 175 cc. furgonato colore blu navy, paese
per paese a vendere di tutto. Dalle scope agli stracci, dal detersivo alla
pasta e finanche frutta e verdura. Il signor Gallai, com’era chiamato da tutti tanto che anche lui si era
scordato il nome di battesimo, apriva la capanna, di legno e lamiera coperta
con lastre di eternit, tutte le domeniche mattine verso le sette a.m. e
preparava panini ai salumi fin verso le undici. Poi si metteva ai fornelli e si
vestiva da chef per i pescatori che gradivano i maccheroni al ragù sulla lepre
cacciata di frodo o la trippa alla fiorentina. Per la bella stagione poi
accendeva la carbonella e metteva in funzione la griglia che lasciava,
democraticamente, anche a disposizione dei cacciatori di pesci e delle loro
prede.
Quella mattina, avvertito da
Gino, ci aspettava armato di una
bottiglia di President Reserve Riccadonna
Brut 11,5° cl. 75 pronto alla bagnatura. Alle sei di fine maggio il sole è
già fatto capolino dalle colline del
Pian di Chena e comincia a scaldare. I grandi scendono la scialuppa dal
camioncino e la trascinano fin sul margine dell’invaso. Il ragazzo, che sono
io, sta in disparte a guardare. Loro improvvisano uno scivolo con tavoloni di
legno presi dal cantiere del babbo. E via. E spingi. E vai. E insisti. E spingi
ancora. Ma il metallo fa corpo con le tavole. La vernice, ancora fresca per via
che l’ultima mano era stata passata la sera prima, fa presa con il legno e la
barca si muove solo di pochi centimetri. Poi qualcuno ha la brillante idea di
usare il barattolo, e il suo contenuto liquido, che sta sul cassone del
veicolo. È olio lubrificante per il motore della gru.
È un barattolo da cinque
litri e lo usano tutto.
È denso e scivola lentamente
sopra alle tavole. Ma scorre. E pian piano smuove la pesante chiatta. Che
infine, dopo l’ultimo “… oooh issa” cui partecipo anch’io, acquista
improvvisamente velocità e finisce, finalmente, in acqua.
Ma l’imbarcazione è pesante.
Molto pesante. Qualcosa come due quintali e trecento chili di metallo
desiderosi di fare il bagno. E lo fanno con tale rapidità che ci colgono alla
sprovvista. Gli operatori addetti all’anti ribaltamento laterale, due pescatori
di passaggio ingaggiati alla bisogna, non sono abbastanza pronti con i bastoni
a forcella. E comunque sia l’oggetto s’infila, si ribalta e s’inabissa in un
lampo lampante.
Non ci provo neanche a
descrivere nel dettaglio gli accadimenti successivi.
Anche se son ben impressi in
memoria son troppo dolorosi. La contrizione dei due aiutanti assoldati per un
panino al prosciutto e pecorino. Le facce dei nostri tre pescatori. Le loro
espressioni dallo stupore, all’incredulità fino all’arrabbiatura totale del
tutti contro tutti. Il rumore del tappo della bottiglia di spumante e la risata
a crepapelle del Gallai. Le lacrime
del vostro raccontatore. Nelle ore successive, aiutati da buoni samaritani di
passaggio e da imprecazioni che mi rifiuto di riportare anche sotto tortura,
riuscimmo a tirare in secco il natante. Il peschereccio fu poi portato, di
nascosto da tutto il paese e anche dalle famiglie, in officina per i necessari
lavori di restauro e soprattutto per la modifica al fondo che fu diretta dal
bagnino Mario.
Le sere seguenti i compagni
s’inventarono le scuse più assurde per recarsi alla bottega del lavoratore del
ferro. E finalmente, dopo alcune settimane tutto fu pronto. Il secondo varo fu
un successo. All’evento non fu fatta nessuna pubblicità per timore che gli
amici del bar li potessero pigliare in giro per gli anni a venire. Non fu
avvertito neanche ‘i Gallai che si
era preparato una bottiglia di moscato scadente del fantastico valore di
seicento lire e che, secondo i padroni della barca, portava sfortuna.
Solo io ebbi l’onore.
Unico spettatore perché: “…
Va bene Nini. Ti ci porto. Ma tu mi prometti di stare lontano dalla barca ché
se fa il verso dell’altra volta si finisce tutti in acqua”.
Il giorno scelto fu il
pomeriggio di mercoledì diciassette giugno, alcune ore prima della semifinale
Italia – Germania. Tutta l’Italia si era fermata e anche i nostri marinai si
erano presi il pomeriggio di riposo dal lavoro. Tutti sappiamo come finì la
partita.
Io e pochi altri sappiamo
del secondo varo.
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