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Tomba Brion, Altivole. Carlo Scarpa, 2013 |
1 a 25 | 2019
Son fissato con
le scale.
Soprattutto
quelle a pioli con le molteplici declinazioni: pollaio, acrobata, vigile del
fuoco, corda, elettricista, scaleo, cimitero, scorrevole, biblioteca, salvataggio,
panchetto, soppalco, cantiere, telescopica, cavalletto, anticaduta, svedese, lenzuola
legate ad uso fuga e ancora e ancora.
Molte ne ho
incontrate. Alcune le ho proprio amate. Di
un paio ho memoria indelebile. Son concepite tutte e due per la casa di San
Giovanni Valdarno in via Alberti al numero ottantaquattro piano primo. Di tutte
due ne ragiono col tempo presente per via che; nonostante non si abiti più in
quel luogo; ci risultano attive ed esistenti e forse anche funzionanti.
Uno).
Stiamo
sistemando quelle stanze per farne residenza quando una difficoltà nella
realizzazione del disimpegno diventa occasione di notevole miglioria funzionale
ed estetica. Il corridoio; di superficie inferiore al metro quadro e mezzo; è
tanto occidentale nel disegno a terra delineato dalla metà di un decagono;
quanto orientale negli alzati con le pareti di abete rosso e carta di riso che,
mannaggia e perdindirindina, durante il montaggio è diventata, per i soliti
affari di pecunia, un più banale policarbonato. Delle cinque facce le due pari
son a scorrere e lanciano nel vuoto i loro
pannelli aperti. Il quattro batte a muro e pari e patta. Il due è quello che ha
determinato il progetto della scala a pioli, tutta in larice dal pavimento al
soffitto, dalle tre funzioni: blocco della barra del sistema scorrevole, servo
muto di una camera di neanche nove metri quadrati e scaletta per l’accesso ai libri
incastrati nella nicchia a muro.
Due).
Il regalo di
nozze di due cari amici. Si tratta di un “affiche”
che da conto dell’installazione poetica di un artista contemporaneo: una
base di basalto nero lucido, due morali di legno di quercia perfettamente
incastrati nella pietra come se fossero due moderne “spada nella roccia” e sette bastoni di neon dai colori elettrici
dell’arcobaleno. Il risultato dell’accrocco è una scala a pioli, leggermente
inclinata come se fosse appoggiata ad un muro inesistente, che porta da nessuna
parte o forse ”verso l’infinito e oltre” e per questo invita alla riflessione sul
senso delle cose e del resto.
In tutte due ho
(abbiamo) lasciato un pezzo di cuore.
Altre scale
invece mi han lasciato un segno. Una in particolare. Al tempo delle scuole
elementari sono andato con la mamma a trovare una sua amica che abitava una
palazzina dei primi del novecento in piazza Savonarola a Firenze. Ella usava il
palazzo e ne gestiva tutte le chiavi in quanto custode e portinaia, insieme al
marito, della Galleria lascito di un noto pittore. Le due amiche, molto legate
in gioventù, non si vedevano da alcuni anni e perciò si dedicarono al
passatempo preferito: chiacchiere, pettegolezzi e indiscrezioni su vicende e persone
del paese natale. Mentre le due si fronteggiavano in cucina davanti a tè e
biscottini la noia, unita all’incoscienza dell’infanzia, mi indusse a sentirmi
libero di esplorare indisturbato il palazzo. Tutto l’edificio compreso sale e
studi, corridoi e scale. Ecco. In quella principale mi c’incastrai. Anzi
meglio: la mia testa; anche da piccino di ragguardevoli dimensioni; s’incastrò
nell’elaborata ringhiera in fusione di ghisa stile liberty.
Chissà mai, visto
che le misure non lo consentivano, come c’era infilata.
La fisica
raccontava l’impossibile del corpo di un ragazzino in piedi sul terzultimo
gradino della rampa di pietra serena. Tutto dritto esclusa la zucca che
penzolava nel vuoto oltre la balaustra. E poi c’era il fatto che l’adolescente
piangeva a fontana. Anzi un poco di più
visto che addirittura invocava l’aiuto e l’intercessione del suo eroe “007” di cui portava, con orgoglio, la
sigla blu cobalto in rilievo sulla maglietta di cotone celeste fatta dalla
mamma.
Questo fu quello
che i grandi raccontarono poi ai vigili del fuoco.
Da parte mia ho
vaghi ricordi. Solo alcuni flash scolpiti nell’emisfero di destra. Uno di
questi narra del tentativo con schiuma e vapore: un secchio pieno di acqua saponosa a bollore e un telo a
coprire tutto secondo la teoria dell’anello
sfilato dal dito insaponato. Che col
piffero funzionò. Dopo che anche le preghiere alla Madonna risultarono
vane tutto si risolse con l’intervento
del fabbro ferraio con bottega al numero
otto. L’omone coi baffi a manubrio, i pantaloni blu e la canottiera pure arrivò
trafelato insieme alla cassetta degli attrezzi. Un seghetto a ferro, alcune
imprecazioni condite da gocciole di sudore e una mazza furono bastevoli per
liberare l’incauto esploratore.
D’allora disegno
solo scale e parapetti certificati a prova di Charlie Brown.
D’allora osservo
ogni sistema di collegamento, tra il sotto e il sopra, con reverenziale timore.
Prima di affrontare il periglio della scesa/salita controllo protezione e
gradini. Soprattutto quelli con alzata doppia con cui mi sono confrontato la
prima volta durante l’estate del sessantotto. Eravamo al mare sulla costa
tirrenica e i genitori ci portarono in gita all’Isola d’Elba. La nave che ci
toccò in sorte era un residuato bellico dell’ultima guerra riattato a traghetto
per macchine e persone. L’Innocenti IM3, color bianco latte e finiture cromate
di grido in quegl’anni, si infilò nel
ventre della balena di metallo. Con grande difficoltà, era la sua prima volta,
il babbo riuscì a parcheggiarla nel posto assegnato. Poi si dovette salire ai
ponti superiori con una serie di scale che più ripide non avevo salito mai. In
vicinanza di Portoferraio una voce
metallica avvertì dell’arrivo imminente e quindi “ … i signori conducenti, sono pregati di recarsi alle auto … i signori
passeggeri si preparino allo sbarco …. servendosi delle scale esterne“.
Con italico fare
furbetto e circospetto la famiglia agì in tutt’altro modo.
In barba alle
istruzioni, che ancora gracchiavano dentro gli altoparlanti a trombetta,
provammo il percorso inverso dell’andata. Tutto bene fino alla prima rampa
quando; nella foga di arrivar per primo al sottoponte; mi feci largo a spintoni
e nell’impeto della corsa mi distesi a pelle di leone capitombolando malamente lungo
la ripidissima scala. Naturalmente finimmo la serata al pronto soccorso e
quell’anno finirono anche le mie vacanze.
La lunga degenza
servì per riflettere sulle “scale alla
marinara”.
D’allora ne ho
salite tante di scale di quel modello. Alcune anche solo con la fantasia come
quelle dei primi progetti di Le Corbusier. Quelle di Carlo Scarpa invece me le
sono andate a cercare al Castelvecchio di Verona e alla Brion di San Vito di
Altivole. E infine alla buon ora uno dei primi lavori dopo il diploma mi offre
l’occasione di realizzarne una mia. Si trattava di salire ad una stanza
mansardata di un’abitazione a tre piani. Il costruttore aveva previsto lo
spazio per un’ampia chiocciola quadrata lato 120 centimetri. Questa tipologia
ha il vantaggio del minimo ingombro ma la grande pecca di non essere pratica
per il trasporto di oggetti e addirittura è negata al transito di piccoli
mobili. La nuova proposta invece aveva tutti numeri positivi. Si saliva col
passo dell’anatra e si discendeva pure con lo stesso movimento accompagnati
agevolmente da oggetti più ingombranti. Fu facile convincere il committente.
La “scala a gradini sfalsati per mansarda” fu
un successone.
E pensare che in
fondo in fondo si trattava di un progetto replicato par pari dal tempo degli
studi. Il disegno, calcoli strutturali, misure, finiture e tutto il resto erano
copiati; anzi meglio fotocopiati; dall’esame di Arredamento del quart’anno. A
Firenze in quegl’anni era di gran moda progettare dentro una griglia di volumi
definiti. Quell’anno toccò al parallelepipedo di dieci per venti alto dieci. Nel
volume ci potevano stare le funzioni più diverse purché pubbliche. Mi fiondai a
corpo morto sopra al progetto di un generico “magazzino multimediale”, dimensionato con le regole della sezione
aurea, con cortili fantastici, stanze accessibili dal tetto a scendere e una successione
di scale.
Tra queste “Quella”.
Rappresentai il
progetto solo con l’ausilio dei canonici disegni di proiezione ortogonale:
piante, prospetti e sezioni su lucidi formato A1. Prima a lapis con riga, squadra
e compasso poi ripassato a mano con penna a china di vario spessore. La scelta
della scala grafica del progetto cadde su quella che i manuali di disegno
tecnico dell’epoca definivano ”farlocca”
perché ingannevole. L’uno a venticinque è infatti molto vicina all’usatissima
rappresentazione “uno a venti” che si usa per gli esecutivi e può facilmente
beffare il fruitore del disegno.
In barba alla
buona creanza quella fu la scelta.
Furono disegnati
diversi spazi eminentemente funzionali opposti ad altri esclusivamente
emozionali. Ne ricordo particolarmente uno: la Stanza delle abluzioni dove
c’erano tutta una serie di sotto locali legati all’acqua e al vapore. Una roba
minimamente rituale con influenze mutuate dal bagno turco, dalle terme romane e
dalla sauna finlandese. L’ingresso avveniva da sotto terra tramite un serie di cunicoli
copiati dalla Talpa europea. Il soffitto a tutt’altezza, vetrato ai bordi,
rappresentava l’unica forma di luce naturale. Il suo centro era occupato da un
vaso fuori misura, a sporgere in basso, contenente un cipresso, anche lui molto
grande. Le radici dell’albero percolavano l’acqua che riforniva tutto il sistema riempiendo gli
invasi a terra. Quel progetto rivisto oggi racconta grande passione e altrettanta
ingenuità.
In scala 1 a 25
erano pure i pupazzetti che ci camminavano sopra.
Nostro fratello
minore, quella primavera, ci giocava continuamente e certe volte io con lui. Un
giorno, durante una battaglia navale tra pirati e marinai, mi trovai in tasca
il metro della mamma sarta. Dal nastro alla misurazione bastò poco. Poi la
calcolatrice vomitò il numero venticinque e subito sbottai: “… ecco la scala del progetto”.
In venti giorni
naturali e consecutivi, compreso le revisioni, lo terminai.
Il trenta di
giugno, accompagnato da un gruppo di bambolotti colorati, mi recai all’esame.
Srotolai i lucidi e sopra, secondo i vari piani di rappresentazione, posizionai
i personaggi di plastica: in pianta, in prospetto, di fianco e in sezione. Sul
bianco a nero della china l’effetto, ne ero certo per averlo lungamente
testato, fu esplosivo. Con soddisfazione di tutti compreso i miei eroi.
“Playmobil”.
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