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La frittata

Frittata | Ricetta per immagini, mg 2016

La frittata | 2009 - 10

Della serie due piccioni con una fava ecco un titolo per due storie che in comune hanno per l’appunto solo il titolo.

1
Ieri è stato il mio compleanno. Son nato giusto cinquanta più uno anni or sono. Ho passato da un anno e un giorno la “elle” degli antichi romani. E sempre ieri mi è arrivata una lettera senza la busta. Lo scritto è su fondo grigio; caratteri Futura Lt Bt, punti quindici, spaziatura doppia; centrato sulla pagina.

Il testo è inviato dalle cortesi segretarie del mio ordine professionale.

La comunicazione, tralasciando i convenevoli dell’introduzione e  i saluti alla fine, recita + o meno così: “… per gli imbranati di tecnologia ed elettronica si allegano opportune istruzioni …”. Il messaggio è un piccione elettronico e l’oggetto ragiona delle istruzioni per configurare la posta elettronica certificata che una legge di una paio di anni fa ha reso obbligatoria per tutti i professionisti. E ‘sta roba è la quinta volta che mi arriva. Loro (Laura e Tatiana … ndr) son veramente insistenti e sanno bene che hanno a che fare con soggetti come me. Perennemente restii alle novità della contemporaneità e abitatori di un mondo tutto all’indietro. Pieni di ricordi per i tempi passati piuttosto che proiettati verso il futuro. Per quelli che, insomma, vivono sulle nuvole.

E forse anche più sopra.

La scadenza per dotarsi della “pec” è ormai passata da undici giorni e oggi è proprio il momento giusto visto che la legge; all’articolo diciassette comma cinque lettera zeta; recita: “… occhio che domani scattano le penali”. Rifletto sulle sette sanzioni proposte dal Ministro per la Semplicità. Quello alto appena metri uno e spiccioli. Il tipo perennemente incazzato con tutto e tutti. L’essere che ho visto ieri sera al “tigiuno” mentre si recava alla festa del suo compleanno accompagnato dalla fidanzata dai lunghi capelli e dalle lunghe gambe. E anche discreta un casino. Lui che ha scritto le sette pene: “ … dire, fare, baciare, lettera, testamento, orologio e mulino a vento”. Assomigliano tanto; anzi son proprio uguali; alle penitenze che ci si commutavano da ragazzi durante gli interminabili giochi estivi. Ragiono su ‘ste robe e apro l’allegato virtuale. Non ci capisco un piffero di niente. Son sette pagine di frasi e simboli assurdi. Lo mando in stampa per capirci qualcosa di più. Inutile. Sono veramente negato. Nonostante le istruzioni non mi riesce l’esercizio elettronico.

Rinuncio e rimando a domani.

Rammento però altre istruzioni lette appena stamattina. Queste sono molto più facili. Trattano di argomenti a “moi” (me alla francese … ndr) più congeniali. Mi son alzato con l’idea di prepararmi un panino. Il companatico lo voglio cucinare con tutte le regole. Piglio dallo scaffale di cucina un vecchio libro con il dorso di pelle e la scritta in caratteri oro. Il testo riporta: “ Artusi - La scienza in cucina”. Lo ha portato in dote la mia compagna quando siamo andati a stare da soli. Il volumetto misura 18x12e5 spessore trentatre millimetri per quattrocentosessanta pagine ingiallite. Diverse di queste sono anche poco poco rovinate e riparate con nastro adesivo trasparente. Alcune sono consumate dall’uso della zia Miranda. Sopra ad altre ci sono scritte e disegni di gente piccina. E non mi pare la mano del ministro. Il “Manuale pratico per le famiglie” è stato compilato da un certo Pellegrino Artusi verso la metà del secolo prima di quello appena passato. L’edizione che abbiamo a casa è la “Terza edizione corretta e ampliata”. Alla pagina novantasette si trova il capitolo numero 112 che tratta del tema che mi interessa.

L’articolo racconta di “Frittate diverse”.

Tanto per entrare nell’argomento di mio interesse ne copio par pari un paio di frasi: “Chi è che non sa fare le frittate ? e chi è nel mondo che in vita sua non abbia fatta una qualche frittata ? Pure non sarà del tutto superfluo dirne due parole”. E via con la rumba sulle uova e sul loro mescolamento. Sul fatto che ‘ste robe da mangiare si facciano semplici e composte. Io mi concentro; come il nostro buon membro del governo; sulle semplici. E in particolare su quella che il compilatore del testo chiama “in foglio alla fiorentina”. Quella ignuda. Uova sbattute, sale qb, eccellente olio toscano, padella di ferro, fuoco arzillo e basta. Cottura da una sola parte e piatto piano pronto ad accogliere il ribaltamento di questa bontà per il palato e per lo spirito. Secondo me la morte sua (della frittata … ndr) è insieme a due fette di pane scipito e del giorno prima. Il panino con la frittata è sinonimo di gita in pullman. Almeno questo è quello che ricordo fin dai primi viaggi con la scuola o con la parrocchia.

Quello che mi faceva la mamma.
Quello che ho imparato io.
Quello che cerco, inutilmente, di insegnare ai miei figli.

Ma loro si ostinano a chiedere prosciutto crudo depurato da ogni traccia di grasso. Quello affettato fino fino dalle lame affilate del signor “Coop”. Quel salume che: “ … babbo … mi raccomando levami tutti i nervetti e anche il sale e il pepe sul bordo”. Quello dolce che viaggia per trecentosette chilometri prima di finire sulla nostra tavola. Niente. Non mi riesce iniziarli al culto dei mangiari semplici.

Alla faccia della filiera corta.

E qui salto un par di mesi e passo all’anno nuovo. Arrivo al giorno ventisei del mese del carnevale e racconto della preparazione per un viaggio.

2
Ragiono della girata fatta a Padova in compagnia di una ventina di amici. Si va in tale luogo a vedere la mostra di una nota progettista di musei. Una tipa che nasce in Mesopotamia e abita adesso nella città del Tamigi. Una di quelle che la critica delle riviste del settore definisce “archistar”.

La Zaha Hadid del “maxxi” romano.

La sera prima del pellegrinaggio mi capita di aprire il frigorifero alla ricerca della materia prima per il panino dell’escursione. E perdindirindina trovo una paio di uova incrinate. Evidentemente durante il trasporto, dall’aia del contadino fino a casa , il contenitore del pulcino è stato strapazzato un po’ troppo. E non posso che incolparmi visto che sono io l’autista delle uova. Non mi perdo d’animo e le rompo definitivamente. Le caccio dentro il contenitore sterile di plastica trasparente. Quello dotato di tappo a pressione di colore verdolino. Il nome di battesimo del recipiente non lo ricordo e qui non interessa. Ripongo la scatola e il suo contenuto nel mobile refrigerato e mi impegno in altre faccende.

La mattina del giorno della scampagnata mi levo prima del sole.

Ho da fare una barca di cose prima di partire per il paese del “Prato della valle”. Scendo al piano di sotto e accendo il portatile. Preparo la moka per il caffè e la metto sul fuoco. Intanto apro le solite quattro finestre per dare aria alle stanze e soprattutto per mascherare l’odore delle bionde che ucciderò. Alla quarta finestra; quella che prospetta verso il giardino del vicino; mi salutano Jago e Golia: i due cani del babbo; un pastore tedesco e un barboncino bianco; che son fuori per bisogni.
Loro abbaiano a me e io abbaio a loro.

È il nostro saluto prima dell’alba.

La macchinetta da tre dell’omino con i baffi si è intanto fatta piena del fumante liquido nero. Me ne verso una porzione abbondante che macchio con uno schizzo di latte e accompagno con una zolletta di zucchero giallo. Son pronto al lavoro. Devo controllare il materiale consegnato ieri al tipografo. Devo anche scrivere un piccione elettronico a Paola. Accidenti alla compagnia telefonica che; nonostante la chiavetta superveloce da otto mega byte nominali di cui son dotato; non mi lancia rapido in rete. “Adesso sei connesso” recita il messaggio che appare sul display del pc. Col piffero. Dal momento della connessione all’accesso alla mia casella di posta passano almeno una decina di minuti. Nell’attesa mi bevo il caffè e accendo la prima cicca. Appena il maledetto personal computer si degna di esser pronto ed operativo scrivo la lettera e ci allego i biglietti e le cartoline e il resto. Pigio enter e inoltro la missiva che riguarda la “festaxBruno”. Quella che si sta organizzando per il cinque del mese prossimo.

Adesso bisogna che prepari lo zaino arancione da portare per la girata

Ci ficco dentro la macchina giapponese per la cattura delle immagini e il quaderno nero per imprigionare gli appunti e i disegni; il telefono mobile e il pennarello nero a punta fine; la sciarpina di cotone a scacchi bianco-neri e il cappello di lana bianco-verde; il portadocumenti e l’agenda di plastica simil pelle di pitone. Lascio il posto per il panino e sono pronto. Devo però prima svegliare la Silvia e i ragazzi. Lei perché mi deve accompagnare al luogo dell’appuntamento con l’autobus. Loro perché si devono preparare. Uno per la partita di calcio e l’altra per il compito dell’indomani. Devo anche cercare una busta capiente per far fare il viaggio a certi disegni stampati ieri dal copista.
I disegni son quelli del Bruno della festa del 5. Le immagini sono impresse su carta adesiva lucida e attaccate su cartoncini di diversi formati: Atre, Aquattro e Acinque. Son quasi tutti in bianco e nero e discretamente belli. Non mi pare male l’idea di fargli fare una girata a vedere musei. E poi bisogna che li faccia vedere ai colleghi con cui si organizza l’evento. Cerco all’uopo una borsa capiente.

Cerco e cerco e non trovo.

Frugo in tutti i pertugi che conosco ma niente. Non riesco a trovare una sacca che li contenga. Allora vado al piano di sopra e trovo la mia metà in bagno. Le domando aiuto e lei, al solito, mi risponde con la gentilezza che la contraddistingue. E mi fa: “… tanto lo sapevo che ci devo pensare sempre io … mai una volta che ti trovi una roba da solo. Magari non era male se ci pensavi ieri sera. Mai una volta che ti levi un ditino di bocca … sei veramente imbranato … cercala nella stanza delle tue cianfrusaglie che di sicuro la trovi”. E via con queste gentilezze.

Mi ritiro di buon ordine e seguo il suo consiglio.

Scendo i diciotto più quindici scalini e apro la porta del luogo delle meraviglie. Il posto dove ripongo da anni tutto quello che trovo. E in un quarto di secolo di robe ne ho trovate. E anche riposte o meglio accatastate. Una quantità industriale. Mobili e oggetti bastanti per arredare un alloggio da ventotto. Ma il sacchetto mica lo trovo. Allora me ne ritorno di sopra nel locale del mangiare e finalmente eccola. Incastrata tra il mobile delle pentole e il muro. Nascosta da altre sporte per la spesa.

La trovo. Mi aiuta il signor Ikea da Stoccolma.

È un contenitore di tessuto blu molto grande. La versione aperta misura all’ingrosso 40 per 80 per 40 di altezza. Ha quattro robusti manici dove son riportate in giallo le lettere del primo proprietario. Ci accomodo i disegni e mi faccio l’ultimo tiro di bionda. Ora son quasi pronto per davvero. Si è fatto giorno e devo solo andare a trovare il genitore che abita la casa accanto alla mia.

Lui è di sicuro già in piedi.

Ha sempre dormito poco e ultimamente; da quando è mancata la mamma; riposa ancora meno. Quattro o cinque ore gli bastano. In questo momento, lo so per certo, è in camera sua vicino alla finestra a recitare le devozioni ascoltando la radio delle preghiere. Ridiscendo le scale e sono fuori. E’ giorno fatto e abbastanza freddo. Il parabrezza dell’automobile è ghiacciato. Registro in mente che dopo lo dovrò scongelare con un secchio di acqua a bollore e mi avvio per chiacchiere. Ho preso quest’abitudine dal nove scorso. Tutte le mattine prima di andare al lavoro mi faccio una mezz’ora di discorsi col babbo. Si ragiona del più e del meno e anche di altre robe che qui non interessano.

Qui interessa la fine del racconto. Eccola.

Dopo i ragionamenti saluto e vado. In macchina mi aspetta l’autista femmina che ho ingaggiato stamani in bagno. È abbastanza imbronciata visto che ha dovuto sbrinare da sola i vetri della macchina. Anzi è incazzata per il fatto che: “… sei sempre il solito … ti sei svegliato alle tre e mezzo … non dormi punto … va a finire che ti rovini … eccetera”.  La tiritera ormai la conosco e i suoi malumori di prima mattina pure. Ci passo sopra e faccio: “ … carissima … grazie veramente che mi accompagni al casello … te ne sarò sempre grato”. A ‘sti discorsi lei, se possibile, si imbufalisce ancor di più e si mette zitta e muta. Ci son dieci chilometri e dieci minuti tra noi e l’uscita dell’autostrada e li facciamo in silenzio. Ognuno assorto nei propri pensieri. I miei galoppano, al solito, nelle praterie del fantastico. I suoi non so. Si arriva finalmente a destinazione. Al luogo dell’appuntamento ci son già quattro persone che conosco e saluto. Saluto con un bacio sulla guancia che la Silvia mi porge, in luogo delle prescritte labbra, e scendo.

L’attesa è breve.

Il pullman arriva strombazzando. Si sale dalla portiera davanti e si salutano gli altri escursionisti. Mi accomodo su di un sedile da due ‘che di posto c’è né in abbondanza visto che siamo in venti compreso l’autista sopra un veicolo da posti cinquanta. Mi siedo e mi assale un presentimento. Sento un sudore freddo che scende sulla schiena. Quello che mi aggredisce quando mi dimentico delle robe importanti. E mi faccio tra me e me: “Chissà se l’ho portata?”. Ma che cosa farete voi? “Cribbio.” Faccio io.

“Mi son scordato il panino con la frittata.”

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