Why? | 2005
“Cosa che cosa ?”.
Pronuncia con la
“o” aperta tipo dialetto pugliese. Questa frase mi risuona in testa verso le
sei e ventinove anti meridiane dell’ultimo giorno del mese dei gemelli. Ho
passato la notte con i compagni itineranti dell’architettura a chiudere
l’ennesimo concorso. Sarebbe del progetto ma l’acronimo che ne esce fuori “cip”
è stato pronunciato così tante volte dentro il gruppo che mi è venuto a noia
mentre questo nuovo “cia” non mi pare male e anzi mi ricorda il mistero e anche
la “zinganetta”. Ma gli acronimi non sono il tema di questa novella.
Il tema è altro.
Torniamoci. Si
tratta del progetto numero tre battezzato dall’inizio dell’anno o meglio
dall’inizio del mese. Tre concorsi in un mese. Una media impossibile tipo
quella del Valentino che guida la moto e noi non siamo mica lui. Ma sarà meglio
tornare alla novella. Saluto Leonardo che se torna dentro lo studio a riposar
un paio d’ore e salgo in macchina. Arnolfo se n’è andato mezz’ora prima mentre
Caterina ormai dorme. Lei è partita verso le due e trenta. Aveva urgenza di
andare a cercare certi maiali selvatici che gli hanno rovinato l’auto la
settimana scorsa. “… E se li trovo li
sistemo per le feste…” aveva detto girando la chiave del quadro comandi.
Chissà se li ha
trovati.
Magari dopo la
chiamo. A me che sono il fratello minore di Tommaso (ndr. da essegivu) è
toccato in sorte l’onere del trasporto del pacco. Pigio il bottone dell’ultima
diavoleria elettronica dei cugini francesi e mi allaccio la cintura sicura. Ho
un sonno che levati ma devo andare. Percorro in fretta i viali del Poggi fino
al mercato di Sant’Ambrogio e mi fermo in via della Mattonaia proprio di fronte
a Santa Teresa adesso sede di una parte dell’università che mi ha dato la
licenza di uccidere il paesaggio. In barba a tutte le convenzioni mi sdraio
sopra al sedile di dietro e chiudo gli occhi. Ho puntato la sveglia del
telefono portatile per le sette e cinquantacinque. Ho ancora un ora e un quarto
di sonno prima di iniziare la
passeggiata in centro. Come al solito la anticipo perché gli occhi mi si aprono
alle sette e trentatre.
Tolgo la soneria
e scendo.
Il bar è subito
dietro l’angolo. Caffè macchiato e sfoglia alla crema per svegliare il cervello
stanco dalla prova notturna. E poi domando al padrone della bottega se posso
lasciare l’auto lungo la strada. Lui risponde con fare gentile e mi racconta
che: “… occhio che verso le otto passano
i vigili. E spesso anche il caro attrezzi”. Mi informa che appena cento
metri addietro c’è un grande parcheggio sotto terra da poco consegnato alla
città. A quest’ora con un euro ci posso stare due ore e allora ne approfitto.
Riparto e
ritorno sui viali.
Il traffico a
‘sta ora è assai scarso e il viaggio è breve. Svolto sotto l’ingresso del
palazzo che un tempo ospitava il giornale “La Nazione ” e mi avvicino
alla rampa che sparisce nell’interrato. Prima però mi fermo e apro il fedele
compagno di viaggio. Apro la zip dello zaino arancione accattato in un centro
del commercio di Venezia alcuni inverni oro sono. Tiro fuori la scatoletta
d’alluminio satinato e accendo la lucina blu.
Sono pronto per
lo scatto.
Click.
L’immagine della piazza del Ghiberti riformata è catturata dalla memoria
elettronica. La vista racconta di uno spiazzo di pietra grigio; forse finito in
fretta e furia; con sopra due casottini in pietra color marroncino coperti a
padiglione con manto in lamiera di rame. Roba normale. Di lato c’è la rampa che
scende sotto e accanto un muro tutto rotto e sbrecciato. Forse un tempo c’era
un edificio che magari è stato demolito in occasione dei lavori del deposito
delle carrozze a motore. Sarebbe il caso che qualcuno ci mettesse mano. Sarebbe
bene che la piazza venisse ridisegnata e magari anche l’edificio. Lo faremo
alla fine dell’estate. Ma adesso è ora che si scenda la rampa e si parcheggi
l’auto al primo livello interrato.
Quello con i
pilastri blu.
Piglio il pacco
dal sedile posteriore e mi avvio verso il fuori. Salgo le scale ed esco di
fronte al mercato ottocentesco. La città comincia a svegliarsi. I venditori
delle erbe lo hanno fatto alcune ore prima e adesso sono intenti ad accomodare
le merci sopra le bancarelle. Mi avvio per le stradine stette verso il
mercatino delle pulci. Piazza de’ Ciompi mi accoglie insieme al suo loggiato.
La loggia fa da filtro rispetto alla strada tangente allo spazio pubblico.
Bella.
Ma il nostro
viaggiatore ha da continuare il viaggio verso la via dei Bufali(ni). In via
Pietrapiana ci sono le Poste. C’è l’edificio in pietra a filaretto e cemento
armato del buon Giovanni. Sono anni che non torno da queste parti e mi sento
una specie di turista. Un turista curioso. Il viaggio della consegna diventa
allora una “promenade” di architettura alla (ri)scoperta dei luoghi della
Firenze di fine secolo scorso. Fidando dei ricordi del tempo degli studi prendo
una scorciatoia che dovrebbe condurmi velocemente alla meta.
Dovrebbe perché
come al solito sbaglio.
Giro come una
trottola per i vicoli e le stradine della città medievale. Il pacco non è
pesante ma ingombrante. Il pacco è rivestito di carta marrone e misura
centimetri cinquantanove e quattro per ottantaquattro e uno. Le mani cominciano
a sudare e il pacco comincia a scivolare. E giro e giro. E mi perdo e mi perdo.
Ripenso ad
Arianna e al suo filo rosso.
Ci ripenso e mi
domando perché non lo ho portato. Il filo rosso intendo. Vabbè che il mio è
arancio e misura solo seicento ventidue metri e cinquantatre centimetri e forse
non bastava. Ma forse se lo tendevo non mi perdevo. Sono di campagna e mi perdo
spesso nei labirinti delle città storiche. Anche di quelle che in teoria dovrei
conoscere bene. Lo dice sempre la
Silvia che ho la testa fra le nuvole.
Ma tant’è.
Poco prima delle
otto indovino un vicolo e finalmente sbuco di fronte al porticato di Santa
Maria Nuova. I lavori di rimessa in pristino fervono. Una ristrutturazione è in
corso. Sono vicino alla via della banca. Gli otto tocchi di una vicina chiesa
mi ricordano l’ora e il motivo del viaggio. Sarà meglio che cerchi l’ingresso.
Lo trovo e entro nel palazzo. In fondo all’atrio mi accolgo due strani
personaggi. Credo che siano uscieri ma sono vestiti come guardie della
sicurezza. Assomigliano (giuro parola di giovane marmotta) al Gianni e Pinotto
attori.
Chi ha più di
quarant’anni come me sa di cosa parlo.
Parlo di una
coppia di attori americani dei film in bianco e nero degli anni quaranta e
cinquanta. Io li vedevo al cinema della parrocchia i primi del sessanta e li
ricordo molto bene. Due sagome. Proprio come i portinai della banca. Io tiro
fuori dallo zaino il foglietto con il nome della persona a cui devo consegnare
il pacco. Certo dottor… adesso non ricordo e comunque non è importante. E loro
iniziano a sfogliare un grande libro pieno di numeri e nomi. Saranno
ottantacinque pagine per ottantacinque numeri e nomi a pagina. Il conto lo fate
voi se volete. Da parte mia realizzo che la struttura deve essere gigantesca
per ospitare tutti ‘sti numeri di telefono.
Inizia il valzer
delle telefonate alla ricerca della primula rossa.
Non si trova la
persona che cerco. Non c’è verso. Che sia sbagliata la mia informazione
chiedono loro. Allora rileggo il foglietto a voce alta. “Dottor….. presso Ente Cassa di Risparmio, via Bufalini sei, Firenze”.
E loro.
“Cosa che cosa ?”.