Lettori fissi

19/12/19

Why?



Why? | 2005

“Cosa che cosa ?”.

Pronuncia con la “o” aperta tipo dialetto pugliese. Questa frase mi risuona in testa verso le sei e ventinove anti meridiane dell’ultimo giorno del mese dei gemelli. Ho passato la notte con i compagni itineranti dell’architettura a chiudere l’ennesimo concorso. Sarebbe del progetto ma l’acronimo che ne esce fuori “cip” è stato pronunciato così tante volte dentro il gruppo che mi è venuto a noia mentre questo nuovo “cia” non mi pare male e anzi mi ricorda il mistero e anche la “zinganetta”. Ma gli acronimi non sono il tema di questa novella.

Il tema è altro.

Torniamoci. Si tratta del progetto numero tre battezzato dall’inizio dell’anno o meglio dall’inizio del mese. Tre concorsi in un mese. Una media impossibile tipo quella del Valentino che guida la moto e noi non siamo mica lui. Ma sarà meglio tornare alla novella. Saluto Leonardo che se torna dentro lo studio a riposar un paio d’ore e salgo in macchina. Arnolfo se n’è andato mezz’ora prima mentre Caterina ormai dorme. Lei è partita verso le due e trenta. Aveva urgenza di andare a cercare certi maiali selvatici che gli hanno rovinato l’auto la settimana scorsa. “… E se li trovo li sistemo per le feste…” aveva detto girando la chiave del quadro comandi.

Chissà se li ha trovati.

Magari dopo la chiamo. A me che sono il fratello minore di Tommaso (ndr. da essegivu) è toccato in sorte l’onere del trasporto del pacco. Pigio il bottone dell’ultima diavoleria elettronica dei cugini francesi e mi allaccio la cintura sicura. Ho un sonno che levati ma devo andare. Percorro in fretta i viali del Poggi fino al mercato di Sant’Ambrogio e mi fermo in via della Mattonaia proprio di fronte a Santa Teresa adesso sede di una parte dell’università che mi ha dato la licenza di uccidere il paesaggio. In barba a tutte le convenzioni mi sdraio sopra al sedile di dietro e chiudo gli occhi. Ho puntato la sveglia del telefono portatile per le sette e cinquantacinque. Ho ancora un ora e un quarto di sonno  prima di iniziare la passeggiata in centro. Come al solito la anticipo perché gli occhi mi si aprono alle sette e trentatre.

Tolgo la soneria e scendo.

Il bar è subito dietro l’angolo. Caffè macchiato e sfoglia alla crema per svegliare il cervello stanco dalla prova notturna. E poi domando al padrone della bottega se posso lasciare l’auto lungo la strada. Lui risponde con fare gentile e mi racconta che: “… occhio che verso le otto passano i vigili. E spesso anche il caro attrezzi”. Mi informa che appena cento metri addietro c’è un grande parcheggio sotto terra da poco consegnato alla città. A quest’ora con un euro ci posso stare due ore e allora ne approfitto.

Riparto e ritorno sui viali.

Il traffico a ‘sta ora è assai scarso e il viaggio è breve. Svolto sotto l’ingresso del palazzo che un tempo ospitava il giornale “La Nazione” e mi avvicino alla rampa che sparisce nell’interrato. Prima però mi fermo e apro il fedele compagno di viaggio. Apro la zip dello zaino arancione accattato in un centro del commercio di Venezia alcuni inverni oro sono. Tiro fuori la scatoletta d’alluminio satinato e accendo la lucina blu.

Sono pronto per lo scatto.

Click. L’immagine della piazza del Ghiberti riformata è catturata dalla memoria elettronica. La vista racconta di uno spiazzo di pietra grigio; forse finito in fretta e furia; con sopra due casottini in pietra color marroncino coperti a padiglione con manto in lamiera di rame. Roba normale. Di lato c’è la rampa che scende sotto e accanto un muro tutto rotto e sbrecciato. Forse un tempo c’era un edificio che magari è stato demolito in occasione dei lavori del deposito delle carrozze a motore. Sarebbe il caso che qualcuno ci mettesse mano. Sarebbe bene che la piazza venisse ridisegnata e magari anche l’edificio. Lo faremo alla fine dell’estate. Ma adesso è ora che si scenda la rampa e si parcheggi l’auto al primo livello interrato.

Quello con i pilastri blu.

Piglio il pacco dal sedile posteriore e mi avvio verso il fuori. Salgo le scale ed esco di fronte al mercato ottocentesco. La città comincia a svegliarsi. I venditori delle erbe lo hanno fatto alcune ore prima e adesso sono intenti ad accomodare le merci sopra le bancarelle. Mi avvio per le stradine stette verso il mercatino delle pulci. Piazza de’ Ciompi mi accoglie insieme al suo loggiato. La loggia fa da filtro rispetto alla strada tangente allo spazio pubblico.

Bella.

Ma il nostro viaggiatore ha da continuare il viaggio verso la via dei Bufali(ni). In via Pietrapiana ci sono le Poste. C’è l’edificio in pietra a filaretto e cemento armato del buon Giovanni. Sono anni che non torno da queste parti e mi sento una specie di turista. Un turista curioso. Il viaggio della consegna diventa allora una “promenade” di architettura alla (ri)scoperta dei luoghi della Firenze di fine secolo scorso. Fidando dei ricordi del tempo degli studi prendo una scorciatoia che dovrebbe condurmi velocemente alla meta.

Dovrebbe perché come al solito sbaglio.

Giro come una trottola per i vicoli e le stradine della città medievale. Il pacco non è pesante ma ingombrante. Il pacco è rivestito di carta marrone e misura centimetri cinquantanove e quattro per ottantaquattro e uno. Le mani cominciano a sudare e il pacco comincia a scivolare. E giro e giro. E mi perdo e mi perdo.


Ripenso ad Arianna e al suo filo rosso.

Ci ripenso e mi domando perché non lo ho portato. Il filo rosso intendo. Vabbè che il mio è arancio e misura solo seicento ventidue metri e cinquantatre centimetri e forse non bastava. Ma forse se lo tendevo non mi perdevo. Sono di campagna e mi perdo spesso nei labirinti delle città storiche. Anche di quelle che in teoria dovrei conoscere bene. Lo dice sempre la Silvia che ho la testa fra le nuvole.

Ma tant’è.

Poco prima delle otto indovino un vicolo e finalmente sbuco di fronte al porticato di Santa Maria Nuova. I lavori di rimessa in pristino fervono. Una ristrutturazione è in corso. Sono vicino alla via della banca. Gli otto tocchi di una vicina chiesa mi ricordano l’ora e il motivo del viaggio. Sarà meglio che cerchi l’ingresso. Lo trovo e entro nel palazzo. In fondo all’atrio mi accolgo due strani personaggi. Credo che siano uscieri ma sono vestiti come guardie della sicurezza. Assomigliano (giuro parola di giovane marmotta) al Gianni e Pinotto attori.

Chi ha più di quarant’anni come me sa di cosa parlo.

Parlo di una coppia di attori americani dei film in bianco e nero degli anni quaranta e cinquanta. Io li vedevo al cinema della parrocchia i primi del sessanta e li ricordo molto bene. Due sagome. Proprio come i portinai della banca. Io tiro fuori dallo zaino il foglietto con il nome della persona a cui devo consegnare il pacco. Certo dottor… adesso non ricordo e comunque non è importante. E loro iniziano a sfogliare un grande libro pieno di numeri e nomi. Saranno ottantacinque pagine per ottantacinque numeri e nomi a pagina. Il conto lo fate voi se volete. Da parte mia realizzo che la struttura deve essere gigantesca per ospitare tutti ‘sti numeri di telefono.
Inizia il valzer delle telefonate alla ricerca della primula rossa.

Non si trova la persona che cerco. Non c’è verso. Che sia sbagliata la mia informazione chiedono loro. Allora rileggo il foglietto a voce alta. “Dottor….. presso Ente Cassa di Risparmio, via Bufalini sei, Firenze”. E loro.

“Cosa che cosa ?”.


Non ci sono santi e neanche eroi  nel labirinto dei vicoli di Firenze mi ci perdo ancora.
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12/12/19


Attento nacchero … se non finisci tutto … ti accendo il ditino.
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05/12/19


Alcuni concerti e dischi.
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