Lettori fissi

Stai fermo

Ponte, cantiere, 1949


Stai fermo | 2009
        
 “Stai fermo nini … quante volte te lo devo dire … stai attento che caschi”.

Questa frase è una delle prime che ricordo in maniera nitida dei miei primi anni di vita. Per chi interessa siamo negli anni sessanta. All’incirca verso il sessantacinque del secolo passato. Vivo in un piccolo paesino battezzato con il nome di un maestoso uccello migratore dalle lunghe zampe che; dicono i grandi; trasporta i bambini appena nati dalle loro mamme. E naturalmente io ci credo. Sono infatti credulone, goffo, grassottello e sgraziato. E per di più abbastanza imbranato nei rapporti con i coetanei. Tant’è che appena arriva l’estate e le meritate vacanze scolastiche,  invece di organizzare interminabili partite di calcio con gli amici, mi fiondo a pesce nel cantiere del babbo.

Sveglia la mattina presto, colazione e via.

Via sul camioncino tedesco color viola melanzana. Via verso il cantiere e verso sogni troppo grandi per un bambino. Volevo seguire le orme del genitore e anzi sorpassarle. Volevo costruir cattedrali. E intanto passavo le mie estati a imparar il mestiere. In realtà a sei/sette anni non riuscivo, come si pole facilmente immaginare, neanche a reggere una cazzuola e manco a spingere una carriola. Allora mi allenavo tracciando segni e disegni sui mucchi della sabbia vicino alla vasca della calce spenta. L’impasto della malta da muratura veniva eseguito senza l’ausilio di mezzi meccanici e il dosaggio degli elementi ad occhio. Due parti di sabbia di fiume, una parte di acqua e una di calce spenta.

Impasti e rimescoli mentre fai la danza della pioggia intorno al cratere.

E impasti e rimescoli. E ancora e ancora. E la calce è pronta. Se poi ci spargi sopra alcune manciate di cemento in polvere, prelevato dal sacco da chili cinquanta che si trova in baracca, migliori la resistenza della calcina. Mentre i manovali sono intenti a rimestare io mi balocco con la rena. E il nonno, bracciante in pensione assunto nel cantiere con la qualifica di “addirizzatore di chiodi”, che mi assilla con la frase d’apertura. “Stai fermo nini … quante volte te lo devo dire … stai attento che caschi”. Ma il vostro raccontatore, intento com’è a costruir castelli di sabbia, è sordo ai consigli del babbo del babbo. Anzi a un certo punto si alza e comincia a zampettare intorno alla melma grigia già pronta per essere maritata ai mattoni. Saltella simulando una specie di girotondo e inciampa su una pietra.

E ci cade sopra.

Non sopra al sasso ma sulla fanghiglia. Ci finisce dentro con tutto il corpo. La faccia, le mani, le ginocchia e tutto quanto. Si rialza a fatica e si mette a piangere. E il sessantacinquenne, mentre se la ride bellamente sotto i baffi che non ha, se ne esce con la solita litania.

“Che ti dicevo nini? … stai FERMO”.

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