Lettori fissi

29/10/20

Goraiolo

 

Goraiolo | 2019 -20

 

Non sapevo che ci fosse anche quello “alto”.

 

Da piccino avevo notizia di Montecatini perché c’andava a passare le acque la famiglia della cugina Sabrina di cui ero segretamente innamorato. C’ero anche stato in gita con la Parrocchia di Santa Lucia quando c’avevamo fatto sosta durante il pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Montenero. Giusto un giro di un’ora tra le Terme. Il tempo di una tazza d’acqua, bella piena di  bromo, calcio, cloro, iodio, litio, magnesio, potassio, sodio e solfato, oppure, io tra questi, una spettacolare colazione alla pasticceria Impero.

 

Giuro e spergiuro che la parte alta della città mi è stata lungamente ignota.

 

Almeno fin quando son cominciati gli spostamenti autonomi. Dopo i diciotto e a seguire ci son passato a fianco sotto la collina, percorrendo la Firenze - Mare, una miriade di volte. Una volta ci trovai la fidanzata. Era giusto del paese e bella molto. L’avevo incontrata in piazza dei Ciompi e fu amore al secondo sguardo visto che il primo lo consumai sopra al colore dei suoi occhi grigio verdi come il sottobosco il ventiquattro di ottobre. Peccato che per incontrarci, sempre a me toccava spostarmi. E occorreva una cifra di carburante che uno studente dei settanta non poteva permettersi. Ci lasciammo di buon grado e non ci siamo più nemmeno cercati neanche con i nuovi sistemi elettronico - virtuali.

 

Alcuni anni dopo si rammentarono quei luoghi durante un desinare.

 

In realtà era una cena a festeggiare il termine degli esami di fine anno. A quei tempi usava farne una ad ogni sessione d’esame. Di solito la sera e di regola in una trattoria nelle vicinanze di piazza Brunelleschi. Si mangiava e si ragionava d’architettura e non di rado ci si scambiavano battute e aneddoti. Rammento la sera del trenta giugno dell’ottantanove quando il tenutario del Corso raccontò che la sua famiglia aveva vissuto per generazioni coltivando un grande podere, assai produttivo, appena sotto l’abitato alto. Il Capoccia gestiva a bacchetta la casa e i suoi abitanti pontificando, su tutte le vicende della casa, in special modo durante il desinare della domenica. C’era una battuta che aveva fatto il giro della montagnola e questa ci raccontò il professore: Massaia: “ … O Primo … che la gradite un pochina d’insalata?” Capoccia; noto carnivoro e donnaiolo : “ Insalata?  … Erba … l’erba alle bestie … io mangio la ciccia!”

 

E giù tutti a ridere a bocca aperta.

 

In cima al poggio sopra la città delle Terme ci son tornato altre molte volte. Quasi sempre in compagnia di un amico con mi ha aiutato alla docenza di un corso universitario e un paio di concorsi d’idee. A fasi alterne  a cavallo tra la fine e l’inizio del millennio. Per un gelato, il suo matrimonio e il battesimo dei bambini. Questo per dire che conosco abbastanza il luogo Montecatini Alto da potermi permettere di dargli del tu.

 

Altre volte ci son transitato in basso per andare verso Marliana.

 

Ecco. Questo è un paese vicino di cui non ho cognizione o informazione alcuna. Per alcuni anni al tempo dell’università ci son passato da fuori sempre con l’intenzione del “… passa e vai ché tanto che ti fermi a fare?”. Poi scoprii che un caro amico aveva le chiavi di uno chalet appena fuori l’abitato di Goraiolo; amena località turistica forte di un centinaio di residenti che lievitano fino a più di cinquecento durante la buona stagione. Il paese è distante una quindicina di chilometri dal capoluogo ed è rinomato per l’aria buona e le sue foreste  secolari.

 

La casa era stata costruita da suo nonno materno a cavallo dei cinquanta.

 

Era un periodo di grandi rivolgimenti sociali e politici. Il costruttore, nato da quelle parti ma formatosi professionalmente intorno alla città del giglio, era tornato alle origini dopo aver imparato il mestiere di capomastro e aver ricevuto diverse gratificazioni economiche quando si era messo in proprio a costruir condomini lungo la strada per Sesto. Aveva quindi comprato un terreno a mezza costa poco distante dalla bottega del paese e scavato fondazioni e muri di pietra del resede. Poi, usando i semplici materiali del posto, nell’arco di un paio di estati, aiutato dal progetto disegnato su un quaderno a quadretti, frutto del missaggio di case costruite dall’impresa, aveva completato il resto della casa di villeggiatura usata lungamente  dalla numerosa famiglia nell’arco dei trent’anni successivi.

 

Alla scomparsa del muratore anche i figli l’avevano pian piano lasciata.

 

Come sia durante i primi anni ottanta il fabbricato era, ogni tanto, in uso al nostro anfitrione. Per molti di noi erano gli anni dell’università. Ancora persistevano i ritmi e le convenzioni del decennio precedente con riunioni, che adesso erano meno politiche e più operative nel campo della ricerca d’architettura. Quindi capitava spesso di trovarsi a ragionar di questo o di quell’altro progetto che c’aveva ispirato per i nostri esami. Erano anche i primi vagiti della “Milano da bere” e si sa che le mode del Nord scendono presto da noi. Ricapitolando ecco per sommi capi le condizioni al contorno: no politica, si riunioni e discussioni, sesso il giusto, molta voglia di festa e quattrini pochi.

 

Pro e contro considerati l’offerta del Goraiolo fu accettata al volo.

 

Durante l’autunno-inverno dell’ottantadue il casale ci ospitò più volte. A ricordo almeno tre e forse quattro con una media di ospiti che sfiorava i trenta. Naturalmente c’erano anche individui assolutamente non interessati al tema principale che ci si trovavano per altre occupazioni come passeggiar per boschi, tagliar legna, cercare funghi, fidanzamento, amicizia eccetera compreso la rinomata aria buona che aveva all’inizio stimolato la costruzione dell’edificio.

 

Al primo Goraiolo eravamo ventuno.

 

Eccoli a seguire in ordine casuale: a, b ,c, d, e, f, g, h, i, l, m, n, o, p, q, r, s, t, u, v, z, oltre al bracco Baldo. C’erano alcune coppie e c’erano gli eterni singoli insieme a chi era venuto per incontrare o per essere incontrato. Eterogenei anche negli interessi principali anche se, come già ricordato, la prima delle arti la faceva da padrone. Come sia nell’arco dei tre giorni si organizzarono seminari, proiezioni, laboratori di scrittura, taglio della legna, letture di poesia e passeggiate. Tutta questa cultura fu bilanciata dal passatempo preferito dell’italiano medio: grandi mangiate.

 

Memorabile fu quella a base di fritto misto.

 

Come sanno oramai anche i muri si dice che “ … fritta è buona pure una ciabatta”. E quel sabato sera di fine maggio lo confermarono pure i muri di quella che poi fu della battezzata osteria “da Omis”. Il mese della madonna è uno dei migliori per le grandi abbuffate a base di fritto. Il cielo era terso e il sole stava calando quando partirono le danze. Musica a palla e vino rosso delle più diverse provenienze: quello dozzinale del supermercato accostato alla bottiglia invecchiata una cifra oppure mischiato con quello avviato la settimana prima. Un delirio di liquidi. Da mangiare niente crostini o bruschette e neanche tortellini panna e prosciutto. No.

 

Niente di tutto ciò.

 

Fritto e basta. Si cominciò la preparazione verso le sei del pomeriggio pulendo, tagliuzzando, infarinando, sbattendo, impanando e quanto altro alla bisogna. Al battere dei sette tocchi della chiesina del paese furono accesi i fuochi della cucina, oltre a quello supplementare del fornello da campeggio, e l’olio super extra vergine del vicino oliveto principiò l’avventura. Prima scaldato poi sempre di più e infine a bollore alla giusta temperatura dei centocinquanta circa.

 

Fritto misto alla toscana.

 

Pollo e coniglio nostrali del contadino del podere di  Sottosopra. Frattaglie varie e verdure tutte. Tutte quelle disponibili nell’orto di nonno Nanni. E per non farsi mancare niente anche fette di pane toscano raffermo. Carta paglia per asciugare e sale in abbondanza. Alcuni cesti d’insalata riccia oltre a cetrioli  e pinzimoni vari per ripulire il palato.

 

Antichi vassoi di terraglia furono scoperti e arruolati alla bisogna.

 

Intanto il sole chiede permesso e se ne va a riposare. Son precise le otto e quarantatre. È il momento: “Si mangia ragazzi … uuu … in tavola … uuuu …” ulula il padron di casa salutando il gruppo dei giocatori di poker in rientro dal portico esterno.

 

E proprio uno di questi causò il dramma.

 

La prima avvisaglia durante la cena, per il resto alcolica e gioiosa, quando se ne uscì con questa infelice battuta: “ Buono … per carità … anzi complimenti a cucinieri e apparecchiatori … comunque bisogna ammettere che il “fritto alla ragnatela” della trattoria di Cercina ha un altro passo”. E con questo indispose più della metà degli astanti. “Quelli che … ”, come si dice da queste parti, “… hanno il buco torto”. Poi verso la fine, mentre giravano cantucci con vinsanto e la moka sul fuoco sobbolliva lentamente, successe il resto. Per far incazzare la comitiva tutta bastò un commento su Baldo; il meticcio trovato a dormire sotto la scala all’arrivo del giorno prima; che se ne stava tranquillo sotto il tavolo a sbafar avanzi. Per primo parti il doppio calcio; violento, intenzionale e assolutamente maligno: “ … Katum … katum …” seguito da “… pussa via brutto cagnaccio” oltre al preciso sputo di catarro giallo-verde evidentemente serbato alla bisogna.

 

Guaendo vistosamente il poverino schizzo fuori dalla porta aperta.

 

La festa era rovinata. Una serie di improperi al nostro eroe:  “ fanculo … pezzo di merda …  cervello avariato … ” e quant’altro possa venir in mente; confermarono la fine della serata. La prevista sessione di proiezione diapositive di un viaggio nel sud della Francia sulle tracce di Le Corbusier fu cancellata. A nessuno venne in mente di sistemare la cucina o mettere in ordine la tavola e soprattutto andare a cercare Baldo.

 

Per tutti il rumore che prevalse fu il “click” di spengi il cervello e la luce.

 

Si stesero lenzuoli su lettoni doppia piazza, si aprirono brande o lettini da campeggio e si posizionarono sacchi a pelo. L’unico bagno, di solito preso d’assalto e conteso all’arma bianca, fu usato con parsimonia e velocità inaspettata. In poco tempo ognuno si sistemò per la notte. A quel tempo la comitiva contava tre fidanzamenti stabili, due storie in corso oltre ad un paio di simpatie che avrebbero potuto sfociare in feroci accoppiamenti notturni. Ma niente sesso quella notte. Un buon samaritano passò di stanza in stanza a spegnere le luci e stop.

 

E comunque dopo nove mesi non ci furono fiocchi fuori dalla porta.

 

Il mattino lo passammo ciondolando per casa occupandoci a sistemare le stanze e i resti della festa. Verso l’ora di pranzo, che nessuno onorò, la comitiva si sciolse. Prima un giro per casa a controllare chiusure di porte, finestre e contatori. Dopo di ché fu il momento di caricar zaini, persone, cose e partire in fila indiana lungo lo sterro fino alla Comunale asfaltata.

 

C’erano sei normali automobili utilitarie e una Guzzi California nera.

 

Il fondo era sconnesso e pieno di buche. Il serpentone procedeva lento e guardingo. E poi le vedemmo. Alla terza svolta nel bosco le macchie di sangue spiccarono con evidenza sul tappeto erboso poco li a destra. Erano copiose e fresche e ci indussero alla sosta. Tutti scesero tranne il conducente della motocicletta troppo intento a piacersi nello specchietto retrovisore. Somigliava lontanamente al “damned Jim” morto ai ventisette e di questi scimmiottava alcuni atteggiamenti col risultato che stava sulla palle a gran parte della comitiva. Anzi se ci penso non ricordo chi l’aveva invitato considerato che se ne stava sovente in disparte rollando cicche puzzolenti o tracannare lo scadente rosso che si era portato. Forse si era semplicemente imboscato.

 

E basta.

 

Intanto, mentre il motociclista si lisciava i lunghi capelli corvini e si rimirava sopra la cromatura del serbatoio, il gruppo  saltò il fossato e accerchiò il lago rosso rubino. L’odore era nauseabondo e la vista non certo piacevole. Per questo il più debole di stomaco degli astanti; che sono io; si produsse nel numero del “lascio qui il caffè di stamattina” che finì preciso in terra al centro del liquido.

 

L’ipotesi dei più propense per sangue animale.

 

Magari era successo che i due calci, satanicamente potenti e vigliaccamente cattivi, avevano causato emorragie interne che poi erano sfociate in perdite dagli orifizi. Il poveretto allora si era rifugiato nel bosco per la notte e adesso scappava chissà dove. Per i venti riuniti  intorno alla pozza rosso violacea un fatto era certo: chiunque fosse il malcapitato non avrebbe vissuto abbastanza da vedere la prossima alba.

 

“È suo. È del bracco randagio. È di Baldo!”. Questo esclamammo all’unisono.

 

Risalimmo in macchina visibilmente tristi e anche un poco incattiviti con il motociclista che non aveva dato nessun segno di interesse o pentimento. “Che se ne andasse pure per i fatti suoi … all’inferno … potrebbe essere un buon posto”, pensai fra me e me mentre giravo la chiave dell’accensione della R4 color sabbia.

 

La fila si rimise in moto e lentamente si diresse verso la città.

 

Ci giungemmo al tramonto dopo diverse fermate tattiche per bisogni fisiologici e pianti vari. Ci salutammo all’inizio del raccordo in una piazzola di sosta poco prima dell’aeroporto di Peretola. Estremamente provati e tristi; alcuni in silenzio e altri con gli occhi ancora lucidi. Tutti molto arrabbiati, forse anche di più, con il provocatore del drammatico episodio.

 

Non li rivedemmo più. Non il bracco  Baldo e neanche il giocatore di carte.

22/10/20

Volino _ Le formichine



Volino_ Le formichine | 2010

Scelgo due delle molteplici filastrocche e novelle inventate di sana pianta per Giulia e Guido quando erano piccini picciò. Adesso son due ragazzoni di diciotto e rotti e quindici e un pezzettino rispettivamente. Prima dei componimenti mi corre l’obbligo di raccontare i luoghi e i tempi delle composizioni. Il primo. Millenovecentonovantadue o giù di li. San Giovanni Valdarno, centro storico, via Alberti 84, piano primo. Stanzino adibito a camerina con affaccio sul cortile di dietro e di centimetri centonovantasette per quattro meno tre. Pavimento in legno di abete rosso a listelli lunghi tipo teatro (ad ogni passo rimbomba), soffitto in legno di quercia restaurato dagli utilizzatori (e quindi con i piedi). Intonaco civile a seguire le pareti tinteggiato bianco latte. Luce a parete, lettino di mondo bimbo di legno laccato white, lenzuola e coperta di lino colore rosa pallido, mensole di metallo traforato, fasciatoio su ruote, lavandino della nonna (di recupero) dipinto rosa pelle umana con specchiera e piani di granito. Pannelli, lato armadio della mamma, in medium density dipinti da Gianluca e giochi, compreso tappetino attività, in ordine sparso. Molto sparso e quindi anche per terra. ‘Sta è la camera della bambina che al tempo contava mesi tredici all’ingrosso. Il secondo. Fine del secolo scorso meno quattro all’incirca. Terranuova Bracciolini, frazione Cicogna 61 barra emme, piano secondo di casa a quattro livelli compreso il terrazzo per osservar le stelle. Camera regolare da una persona di metri quadrati dodici e novantatre precisi. Pavimento di legno di rovere nodino appiccicato sopra a mattonella di ceramica e soffitto a volta intonacato come le pareti con finestra a tetto. La stanza confina con quella della sorella (stesse dimensioni, misure e finiture) della quale sfrutta l’armadio. La luce a parete è quella di via Alberti così come il fasciatoio, le mensole e il lavandino di recupero. Il letto apparteneva al babbo quando era adolescente e abitava con i genitori. Anche lui è di recupero. Le lenzuola però sono bellissime. Le ha regalate nonna Dina e appartenevano al fratello più piccolo del genitore. Sopra ci sono stampati tutti i super eroi della Marvel. Il tappetino attività è appeso alla parete. Al posto dell’armadio c’è un grande scaffale in laminato, color sabbia,  con tanti ripiani pieni di giochi. Il disordine, anche qui, regna sovrano. Certo non dipende dai figli che gattonavano fino a pochi mesi fa e adesso a malapena camminano. Ho il sospetto, che vi posso confermare, che il caos sia da attribuire ai di loro genitori. Adesso le due filastrocche prevedono che le mani del narratore si muovano, in libertà, sul corpo dell’infante. Mi raccomando le dita. Morbide e mobili. Veloci, scorrevoli e con le unghie fatte. Fila … . VOLINO. Vieni volino … batti il becchino sul vetrino … vola nella stanzina … e sveglia ‘sta bambina. … Stroccha. LE FORMICHINE. Le formichine … che vanno … che vanno … dove andranno … chiiiii lo sa.


15/10/20

Non ci va

 


Non ci va | 2019

 

Se fosse possibile ricavare un immagine la potrei stampare.

 

Purtroppo non risulta fattibile, allo stato dell’arte, ricavare una fotografia di una scena che ci compare in testa. E se è per questo neanche di un video. Tutto questo è ancora una faccenda privata e personale. In barba a tutte le pellicole e libri che c’hanno inquinato l’adolescenza, anche il seguito se per questo, non risulta praticabile che un qualunque esploratore della psiche ti infili in testa una pennetta usb e se ne vada via con alcuni tuoi nitidi ricordi. E li possa poi condividere con il resto dell’umano creato.

 

No. Credo proprio che la tecnologia corrente non possa eseguire l’operazione.

 

Magari però mentre noi ci sbattiamo a leggere, in verità io a scrivere, queste banalissime frasi da qualche parte del globo; nella steppa siberiana o nella giungla amazzonica piuttosto che nella stazione spaziale internazionale un mister ics dotato del giusto genio ce l’ha fatta proprio oggi.  Adesso è allo stato della sperimentazione ma entro l’anno troveremo in vendita sul web il kit per estrarre pensieri e parole e immagini dal nostro cervello. E addirittura poterli riprodurre, stampare e anche condividere su Instagram. Chissà!

 

La scena si diceva. È nitida. Ieri notte l’ho rivista precisa identica. Eccola.

 

Primi anni ottanta in Firenze a casa di studenti fuori sede. Piano terreno rialzato con sottofondo di “frenata, fermata, ripartenza” del’autobus linea numero sei. Tre camere; due doppie e una singola più bagno stretto e lungo, comunque dotato di vasca, oltre a cucina abitabile con accesso alla scaletta del giardino sul retro.  Uno dei cinque occupanti proviene dalla “bassa” ma d’altronde anche gli altri son del contado. Il nostro eroe ha appena perso la casa abitata per i primi anni d’università. E l’ha persa in maniera imprevista e improvvisa. Non è questa la sede per raccontare la vicenda e infatti saltiamola.  Comunque sia è rimasto in strada, come si suol dire, con armi e bagagli. Per sua fortuna, anche nostra con grande sincerità, il mese scorso si è liberato un posto in camera del vostro raccontatore. Siamo amici di corso e spesso studiamo per gli stessi esami.

 

Quindi lo sfortunato diventa fortunato restando studente.

 

È il secondo lunedì di maggio e la casa, dopo il fine settimana, si riempie pian piano dei suoi abitatori che arrivano alla spicciolata. E la sera, puntuali come la morte, siamo tutti insieme riuniti per cena. Il nostro se n’è arrivato con valigie e libri e anche quattro sorprese graditissime ai commensali. Una specie di torta Pasqualina è la prima, due bordolesi di lambrusco di gran livello e una scheggia di reggiano di tre anni prima son le altre.

 

In realtà gli ultimi tre sono di normale conosciuti e quindi apprezzati qb.

 

È la torta salata il vero uovo di pasqua. È lei il vero mistero da scoprire. Si chiama “erbazzone”, dalle parti loro si pronuncia con la esse molto strascicata al posto della zeta e quindi il suono completo è “erbasssone”. “Mi … ti … co!” avrebbe per certo azzardato il buon vecchio bisteccone Galeazzi se fosse stato con noi. Eccezionale … superbo … mai mangiato una roba così … gli fa un piffero la Quiche Lorraine” pensarono invece sottotraccia gli altri quatto commensali.

 

Il primo triangolino “ ... per assaggio e basta che ho mangiato troppa pasta”.

 

Gli altri pezzi ce li contendemmo all’arma bianca del quiz in voga in casa in quel periodo. Si trattava di indovinare nome e cognome di battesimo dei personaggi minori dello sceneggiato che la Rai replicava quella sera: “ Il conte di Montecristo”. Con grande sportività il portatore del cibo non partecipò alla singolar tenzone. Rimanemmo in quattro per gli otto pezzi rimanenti. Non ci fu gara perché quella sera scoprimmo, con disappunto, che uno di noi era una specie di fenomeno enciclopedico. Conosceva, con minimi errori, gli attori, principali e non, di gran parte degli adattamenti televisivi. E non solo. Se la cavava bene anche sul resto come aiuti, elettricisti, sarte, arredatori, montatori e via di seguito. Per lui il programma finiva dopo la visione di tutti i titoli di coda. Fino alla fine.

 

Quindi Sergio di Marina di campo si pappò l’intera posta meno pochi ritagli.

 

Dividemmo invece, da buoni amici e abitatori, il resto del desinare. Alla fine il caffè della moka da sei. Toccò a me, che avevo totalizzato tre punti sotto lo zero, l’onore e onere della preparazione.  Intento alla pulitura della macchinetta approfittai del momento di pausa tra risa e schiamazzi per chiedere all’ospite  notizie sulla prelibatezza appena assaggiata e non mangiata.”El bab de mi mamm …” attaccò “… aveva un osteria sotto i portici di Correggio. Stiamo parlando di quei fondi su strada con unico sporto. Tutti umidi, bui e polverosi come erano a quel tempo i locali pubblici usati dalla gente comune. Siamo ai primi dei primi del novecento in un paese della bassa. Avete presente il Novecento di Bertolucci? Ecco. Siete sulla buona strada. Quelle dovevano essere le atmosfere. L’osteria era un posto dove la gente andava per bere. Operai, contadini e generici si portavano il cibo che accomodavano su tavoloni di legno unto e macchiato. L’oste serviva le bevande che consistevano in poche varietà di scadente lambrusco servito in brocche di terraglia sbrecciate oltre ogni limite”. Continuò per una mezz’ora buona catturando la totale attenzione degli astanti. Si spensero le sigarette e si appoggiarono i bicchieri.

 

Anche il caffè si mise all’ascolto evaporando completamente dalla moka.

 

Ad un certo punto raccontò, mi pare che si era poco dopo la prima guerra, che l’oste aveva cominciato a preparare da mangiare. Pochi cibi semplici e non elaborati. L’erbazzone era uno di questi. Sua mamma insegnate lo prepara ancora come allora: stessi ingredienti, materiali, attrezzi e gesti. E via con la ricetta, preparazione e cottura. Rammento che usai il quaderno degli appunti per segnare tutto.

 

Poi qualcuno si accolse del caffè tracimato dappertutto sul piano cottura.

 

Risate e urla.. Tutti contro tutti  per non prendere la colpa dell’incidente. Per parte mia ero intento a scrivere, notoriamente son lento e anche gli appunti li scrivo a stampatello, perché rimasto indietro. Alcuni ingredienti mi parevano quantomeno inusuali comunque con diligenza scrissi tutto compreso la grattata di mezza noce moscata nell’impasto della farcitura.

 

La ricetta mi è servita per innumerevoli occasioni.

 

Feste di compleanno e battesimi, comunioni e matrimoni. E anche semplici inviti tra amici tanto per stare insieme. Ogni volta che mi accompagnava era un successo. Ero diventato “quello dell’erbasssone”. A volte mi baloccavo con delle aggiunte alla ricetta originale; quella del quadernetto; come uova sode a fette prima della chiusura finale oppure spennellata di chiara sulla pasta prima della cottura per ottenere una doratura perfetta. Ma sempre mantenevo gli ingredienti originali. Anche se in casa mi facevano la guerra per la presenza di uno di questi.

 

In quei casi tiravo fuori  il foglio e leggevo a voce alta gli appunti d’allora.

“Prima la pasta: mescolare farina (350), strutto (50 o equivalente olio buono), acqua appena stemperata (quanto ce ne vuole) e sale (fate voi). impasta bene e fai riposare (30-40). Intanto l’erbette lessate: misto spinaci e bietole (1000) in acqua salata. Dopo cottura scolar ben bene. Ora al tegame. Rosola in padella unta: cipollotti col gambo (1 mazzo), aglio (2 – 3 capi) e pancetta tesa (100). Tutti trinati finemente. Ora aggiungi il lessato e fai andare fino alla scomparsa dell’acqua. Sale e pepe in abbondanza. Grattugia la metà della noce moscata (1/2). Fai freddare un poco e grattugia tutto il parmigiano (100 e se te piace anche di +) sull’impasto. La teglia da forno ce l’hai? Meglio di forma circolare ché anche l’occhio abbia la sua parte. Ungila copiosamente anche nel bordo. Metà impasto lo stendi e l’altro lo serbi per la chiusura. Con la forchetta bucherella il fondo. Versa il ripieno Accomodalo per benino da tutte le parti. Riempi i vuoti. Chiudi con il rimasto badando bene di pinzare il fondo col coperchio. Usa ancora la posata per creare un decoro. Se ti è avanzato un poco di strutto o un filo d’olio usali per ungere il sopra. Nel forno statico per trenta minuti (200). Sforna e fai freddare. Una fetta per uno”.

 

Ho ripetuto la scena per anni ancora fino al mese passato.

 

Quando ci siamo visti nei dintorni di Firenze per una rimpatriata tra studenti trattino amici trattino architetti. Quattro da luoghi diversi; ognuno accompagnato da cibi diversi. Dal paese di Allegri pittore Antonio giungono, con il nostro Antonio,  a solleticare il nostro palato, molteplici cibarie. Le conto mentre escono dalla capiente borsa termica: lambrusco due non amabile e quindi super, parmigiano una scheggia gigante, gnocco al forno in quantità industriale, erbazzone di cui ormai sapete tutto, scarpasot che si differenzia dal precedente per l’assenza di pasta e per la lenta cottura in padella, tortelli alle erbette e di zucca tipo alla mantovana.

 

Tutta roba di qualità su superiore.

 

Come anche le altre cibarie che hanno accompagnato noialtri. Da buoni ex gaudenti, con la scusa di un brindisi, ci siamo subito fiondati nell’assaggio di un poco di tutto. Il primo mio boccone, gigantesco, è servito a dimezzare una fetta della torta salata che mi viene meglio. Dopo l’infarto ho abbandonato il fumo e ri - acquistato gusto e sapore. Me lo godo lungamente. Mastico in abbondanza e almeno per trenta o quaranta volte. Ergo ad un certo punto scopro un sapore che non c’è. Che doveva esserci visto che la mia ricetta è una costola dell’origina.

 

Manca la noce moscata.

 

Gli altri non si sono accorti. Delle due una: o hanno il palato riarso dalle troppe cicche oppure non rammentano il retro gusto della cibaria. Decido che non sia cosa  mettersi in mezzo e rovinare il rinfresco. Che in realtà diventa merenda e sfocia in una cena pantagruelica con tanto di dolce e prosecco alla fine. E finalmente siamo alla fine. In attesa del caffè sul fuoco ci si abbandona a domande e ricordi.

 

È il momento mio.

 

M: “Antonio ricordi la prima volta che ci hai portate l’erbasssone?”.

A: “Certo che si. Ti dettai anche la ricetta”.

M: “Si si. Segnai tutto. C’era un casino dell’ottanta ma scrissi ingredienti e passaggi. Ci son campato trent’anni e anche di più con quella torta. Un figurone ogni volta che la portavo in giro.”

A: “È quella del nonno oste. Spettacolare”.

M: “E allora toglimi una curiosità: perché non c’hai messo la noce moscata?”.

 

E lui con fare serafico: “Azzo dici la noce moscata non ci va!”.

08/10/20

Ho quarant'anni ma non li dimostro

 


Ho quarant’anni ma non li dimostro | 2006

 

Fra un paio d’anni ne ho quaranta ma non li dimostro. Sono stata disegnata da un paio di ingegneri che evidentemente avevano bene in mente la lezione del moderno quando si sono messi al tavolo. Buoni tecnici con in testa un edificio specialistico da costruire lungo una strada importante appena fuori delle mura che hanno fatto la storia della città.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

Ma che vuole dire storia? Se leggo il vocabolario della lingua italiana compilato da Nicola Zingarelli per i tipi di Nicola Zanichelli editore in Bologna (1968) trovo la definizione di seguito riportata. Stòri a, f. Istoria - ”Narrazione degli avvenimenti pubblici con il giudizio del loro valore e dell’opera degli uomini e con la critica delle testimonianze o fonti”. Sono nata al tempo del vocabolario. Sono storia.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

Sono stata costruita in pieno boom dell’italico stivale. Quando era tutto un fiorire di pilastri e travi; solette e balconi, muri e tetti e facciate. Costruzioni nuove. Nuove e lucenti. Luccicanti e colorate e anche vetrate. Palazzi e fabbriche tirate su velocemente e, in massima parte, senza costrutto. Robe fatte per durare sul momento. Mica come quelle costruite come “… quando le cattedrali erano bianche …”. Tutt’altro.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

Io per parte mia ho la fortuna di un bello impianto e di una gioiosa destinazione d’uso. Dentro di me ci hanno fatto la CCIA della provincia e poi mi ci hanno costruito intorno un grande parco battezzato col nome di un grande artista che disegnava le “o” come se piovesse. Mi han piazzato lungo la strada ma non mi hanno allineato alla suo filo. In questo modo i miei volumi hanno acquistato maggiore importanza e sono diventati protagonisti della scena urbana. La mia faccia davanti è stortignaccola e arcuata e abbraccia la piazzetta di ingresso.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

Son fatta di metallo e di pietra. Le facce che presento alla città sono grandemente vetrate e trasparenti. Chi percorre le mie viscere trova scale sospese e tocca pareti di legno. Una barca di persone ci si è incontrata per almeno una generazione. E tante altre ci han lavorato dentro. Ricordo che una volta, saranno stati i primi del settanta, un ragazzetto di campagna ci venne a chiedere lumi per un fantomatico marchio di uno sconosciuto podere. Voleva produrre un vino a denominazione controllata ma non ne aveva le caratteristiche imprenditoriali. Mi dispiacque molto che non lo potetti accontentare.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

Mi sento un po’ figlia, o almeno nipote di campagna, di illustri padri e precedenti architetture. Di MVDR e ELLECI e anche PJ che han tirato su, in altre parti del globo, edifici vetrati e lucenti con piani liberi e tutto l’ambaradan del moderno. Mi sento allora un poco cittadina del mondo. Un poco global(e) e un poco di campagna.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

Anche se non lo voglio dire troppo in giro gli anni mi pesano. Mi pesano sulle spalle e sulle coperture piane. Sulle facciate di vetro e sulle strutture di ferro. Non nego che avrei bisogno di restauri precisi e puntuali come quelli che operate sugli edifici che chiamate storici e artistici. Anzi sarebbe l’ora.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

E adesso mi preme raccontarvi di una storia che ho sentito mormorare nei miei corridoi alcuni mesi or sono. Due modesti impiegati si raccontavano a vicenda, con frasi spezzate e quasi bisbigliate, dei miei destini. Quasi avessero timore che potessi ascoltarli e non sapendo che tutti gli aggeggi tecnologici che mi hanno infilato dentro mi parlano continuamente. Telefoni e microfoni e computer e telecamere e gli impianti tutti sono collegati al mio corpo. Anzi meglio sono le mie viscere e mi tengono in vita. E mi raccontano che a breve subirò grandi cambiamenti che prevedono aggiunte di volumi e nuove destinazioni in gran parte abitative.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

E se posso esprimere una modesta opinione. E posso. Per Dio se posso visto che si parla di me. Vorrei essere conservata e restaurata. Vorrei continuare ad essere utilizzata per attività speciali. Vorrei continuare a ricever gente da “mane a sera” e non disdegnerei un poco di musica. Ultimamente, per esempio, ascolto la grande musica dei coglitori di cotone e le voci delle sue grandi donne. E poi mi interesso d’arte. Di quella del passato che tanta ne avete dentro le mura e anche di quella contemporanea.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

Magari nella piazzetta davanti  e nel parco che mi corona ci potreste suonar concerti. Magari nelle mie stanze ci potreste imbastire delle sale dedicate all’arte. Potrei diventare un grande contenitore delle arti tutte. Arte musica e spettacolo.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

 

E permettetemi di presentarmi. Sono la Camera del Commercio Industria e Agricoltura della provincia. Di Arezzo. E voglio un futuro moderno e contemporaneo e sociale.

 

Hoquarantannimanonlidimostro.

01/10/20

Traslochi

 


Traslochi | 2003

 

Sono nato verso la fine degli anni cinquanta appena fuori le mura di una piccola città fondata nel trecento dalla repubblica del giglio. Amo l’architettura e da grande (alcuni sostengono a cinquantanni) voglio fare l’architetto. Ho travagliato in diversi luoghi è città che adesso provo a ricordare e descrivere.

 

Il primo studio era una soffitta vicino all’ospedale di Careggi a Firenze. L’occasione è offerta dal compagno della tesi appena discussa. Non si rifiuta mai un piacere specie se la città è quella dove abita l’amore della vita. C’era un bagno senza acqua calda e il posto per dormire. Grandi finestre e quando era l’ora del mangiare la di lui madre telefonava per avvertire della pasta cotta. Concorsi  e condoni è quanto siamo riusciti a produrre. Grandi ricordi.

 

Il secondo era una specie di seminterrato, ancora a Firenze, attrezzato a luogo di lavoro gentilmente prestato da certi parenti del compagno di sopra. Loro vendevano mattonelle e finiture per le case che tentavamo di progettare. Dividevamo lo spazio con Ulisse che vedevamo pochissimo perché impegnato nella ricerca. Di Itaca? No. Del posto all’università. Lavoravamo per altri in altre stanze. Primi, timidi e imbranati, approcci con l’università e con il Maestro. Un negozio, guarda caso, di mattonelle e il progetto di una piscina è il nostro bottino.

 

Il terzo era un attico nella città del Masaccio offerto dalla mia famiglia che l’aveva avuto in permuta dalla vendita di altro alloggio. Qui anche vivevo provando a insegnare, a pagamento e come supplente precario, presso le scuole della provincia. Mi ricordo della minestra all’uovo con il brodo di dado star e delle serate in compagnia dei progetti che non riuscivo a realizzare. La casa per una carissima coppia, poi separata, e una poltrona rossa è quanto mi rimane. Triste.

 

Il quarto erano due stanze con locale igienico in comune insieme ad un noto notaio. Ero tornato nel paese di nascita.  Ero da solo. Tentavo di pagarmi la locazione continuando l’insegnamento ai ragazzi delle medie e progettando grandi mobili per piccoli spazi che non si riuscivano a murare. Poi un giorno ho avuto una telefonata. Era un collega che conoscevo di vista per averlo incrociato il giorno della mia tesi. Di San Giovanni era lui e mi chiedeva se avevo voglia di fare alcune cose insieme. Mi fiondo a pesce.

 

Il quinto erano tre stanzine con terrazza e ingresso privato da scaletta in pietra interna. Ricordo che si pagavano quattrocento (mila) delle vecchie lire ad un amico del babbo. Mi faccio un amico e un socio di un associato studio. Il nome di battesimo è offerto dall’ottocentesco tram tirato da quattro cavalli bianchi scoperto su un libro di storia o forse da un’iscrizione latina letta sotto all’altare di in una chiesa di campagna. Due persone due opinioni per la stessa parola che aveva, comunque, grandi idee in testa. Case e cose, negozi e piani è quello che facciamo. Sbattiamo i gomiti e i tecnigrafi negli angoli acuti delle stanzine e allora decidiamo lo spostamento verso il centro della città lungo la via principale.

 

Il sesto, ancora lungo l’Arno, si compone di vari locali al piano terra del più bel palazzo della città. Volte a botte, un grande camino, pavimenti di terracotta, finestre piccole e muri umidissimi. Bellissimo. Continuo i rapporti con il maestro e l’università. Insieme al socio proviamo ad agitare la vita culturale della valle proponendo iniziative, sempre poche quelle  realizzate, alle amministrazioni locali. Molti concorsi, alcuni arredi, qualche casa, alcuni luoghi per la musica da ballo e per il mangiare e un parco lungo un fiume è quanto portiamo a casa. Poi a noi si aggiunge un socio e decidiamo per l’allargamento dello spazio.

 

Il settimo è lo stesso di prima però ampliato con altro grande locale, questo veramente buio, per i tavoli del disegno e per un soppalco tecnologico. In tre produciamo, forse per la crisi del settore dovuta alle mani pulite o forse per altro, come in due. Le architetture vanno piano, molto piano fin quasi alla sosta. Uno di noi si assenta dal lavoro per gettarsi nella mischia politica. Scazzamenti e male parole. Si decidono strade diverse. Lo studio muore.

 

L’ottavo è ancora in centro ma in una via laterale battezzata come il grande Leon Battista anche se ho il vago sospetto che il nome derivi da una famiglia del paese. Un appartamento al primo piano da allocamento ad uno studio. Tante stanze. Ma sono solo e triste. Per fortuna continuo a recarmi a  Firenze tutti i venerdi in via Ricasoli e cemento l’amicizia con il socio (ex) di Arezzo. Riesco a produrre anche un libro insieme ad alcuni progetti di concorso e un’abitazione in campagna. Conosco un ingegnere del paese vicino che mi propone dei lavori in compagnia. Vado.

 

Il nono si trova al primo piano di uno stabile nuovo e sgraziato nel paese dei polli e dei vivai. Quattro stanze e un bagno oltre ad uno stanzino per lo spazio privato del nostro eroe. Una grande cantiere di recupero urbano è in procinto di iniziare e  mi si propone di dirigerlo e di revisionare il progetto nel mentre si costruisce. Va bene. Incontro un giovane che poi mi rimane amico. Riusciamo a produrre anche una piccola casa di riposo e poco altro ancora. Ma lo stanzino è veramente piccolo e buio e incapace di contenere i libri e le carte di due lustri di lavoro. Allora una parte del lavoro si fa a casa.

 

Il decimo; contemporaneo al precedente; si trova in una grande stanza con camino al piano terra della casa alla Cicogna. Tavoli per il disegno e scaffali. Si lavora la notte e la mattina presto; il sabato e la domenica. Si fanno abitazioni di campagna e concorsi. Ancora concorsi. Uno si riesce addirittura a vincere. Si tratta della piazza esagona di un paese esagono fondato trecento anni or sono da un principe sotto ad un vulcano in una grande isola triangolare in mezzo al mare nostro. Il caffè con la moka è disponibile sempre. Novelle per i ragazzi e racconti per gli amici escono bene insieme al liquido nero. Non è male lavorare in collina. Ma lo studio madre; quello dei polli e dei vivai; chiude. E’ l’ora di spostarsi di nuovo. Allora si va in montagna.

 

L’undicesimo spazio è una piccola stanza in legno e terracotta entro una grande stanza bianca. Il paese ospitante si trova sotto il magno prato. Deriva il nome dal giallo metallo e il cognome dal fiume che scende a precipizio dalla montagna e lo taglia in due. La stanza un tempo era usata per smistare le missive del paese e forse per questo le novelle aumentano le pagine del libro che mai scriverò. Fortifico l’amicizia con un vecchio amico dei tempi dell’università quando mi recavo in città tutti i venerdì. Ancora concorsi e progetti. Case e oggetti. L’aria frizzante del monte fortifica lo spirito; meno i capelli che diventan bianchi e iniziano ad andarsene per non più tornare. Ma quando si esce in piazza si incontra poca gente. La gente e  gli amici sono giù nella valle. Se maometto non va alla montagna …. Il proverbio mi convince al trasloco. Me ne torno in città. Me ne torno lungo l’Arno.

 

Il dodicesimo luogo è ancora da scrivere. Lo farò insieme a certi amici cari conosciuti negli ultimi anni. Per adesso sarei felice di festeggiare insieme a voi l’addio di questo proponendo l’ultima frase.

 

Credevo di essere uno stanziale e invece mi ritrovo nomade e traslocatore.

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