Traslochi | 2003
Sono nato verso la fine degli anni cinquanta appena fuori le mura di una piccola città fondata nel trecento dalla repubblica del giglio. Amo l’architettura e da grande (alcuni sostengono a cinquantanni) voglio fare l’architetto. Ho travagliato in diversi luoghi è città che adesso provo a ricordare e descrivere.
Il primo studio era una soffitta vicino all’ospedale di Careggi a Firenze. L’occasione è offerta dal compagno della tesi appena discussa. Non si rifiuta mai un piacere specie se la città è quella dove abita l’amore della vita. C’era un bagno senza acqua calda e il posto per dormire. Grandi finestre e quando era l’ora del mangiare la di lui madre telefonava per avvertire della pasta cotta. Concorsi e condoni è quanto siamo riusciti a produrre. Grandi ricordi.
Il secondo era una specie di seminterrato, ancora a Firenze, attrezzato a luogo di lavoro gentilmente prestato da certi parenti del compagno di sopra. Loro vendevano mattonelle e finiture per le case che tentavamo di progettare. Dividevamo lo spazio con Ulisse che vedevamo pochissimo perché impegnato nella ricerca. Di Itaca? No. Del posto all’università. Lavoravamo per altri in altre stanze. Primi, timidi e imbranati, approcci con l’università e con il Maestro. Un negozio, guarda caso, di mattonelle e il progetto di una piscina è il nostro bottino.
Il terzo era un attico nella città del Masaccio offerto dalla mia famiglia che l’aveva avuto in permuta dalla vendita di altro alloggio. Qui anche vivevo provando a insegnare, a pagamento e come supplente precario, presso le scuole della provincia. Mi ricordo della minestra all’uovo con il brodo di dado star e delle serate in compagnia dei progetti che non riuscivo a realizzare. La casa per una carissima coppia, poi separata, e una poltrona rossa è quanto mi rimane. Triste.
Il quarto erano due stanze con locale igienico in comune insieme ad un noto notaio. Ero tornato nel paese di nascita. Ero da solo. Tentavo di pagarmi la locazione continuando l’insegnamento ai ragazzi delle medie e progettando grandi mobili per piccoli spazi che non si riuscivano a murare. Poi un giorno ho avuto una telefonata. Era un collega che conoscevo di vista per averlo incrociato il giorno della mia tesi. Di San Giovanni era lui e mi chiedeva se avevo voglia di fare alcune cose insieme. Mi fiondo a pesce.
Il quinto erano tre stanzine con terrazza e ingresso privato da scaletta in pietra interna. Ricordo che si pagavano quattrocento (mila) delle vecchie lire ad un amico del babbo. Mi faccio un amico e un socio di un associato studio. Il nome di battesimo è offerto dall’ottocentesco tram tirato da quattro cavalli bianchi scoperto su un libro di storia o forse da un’iscrizione latina letta sotto all’altare di in una chiesa di campagna. Due persone due opinioni per la stessa parola che aveva, comunque, grandi idee in testa. Case e cose, negozi e piani è quello che facciamo. Sbattiamo i gomiti e i tecnigrafi negli angoli acuti delle stanzine e allora decidiamo lo spostamento verso il centro della città lungo la via principale.
Il sesto, ancora lungo l’Arno, si compone di vari locali al piano terra del più bel palazzo della città. Volte a botte, un grande camino, pavimenti di terracotta, finestre piccole e muri umidissimi. Bellissimo. Continuo i rapporti con il maestro e l’università. Insieme al socio proviamo ad agitare la vita culturale della valle proponendo iniziative, sempre poche quelle realizzate, alle amministrazioni locali. Molti concorsi, alcuni arredi, qualche casa, alcuni luoghi per la musica da ballo e per il mangiare e un parco lungo un fiume è quanto portiamo a casa. Poi a noi si aggiunge un socio e decidiamo per l’allargamento dello spazio.
Il settimo è lo stesso di prima però ampliato con altro grande locale, questo veramente buio, per i tavoli del disegno e per un soppalco tecnologico. In tre produciamo, forse per la crisi del settore dovuta alle mani pulite o forse per altro, come in due. Le architetture vanno piano, molto piano fin quasi alla sosta. Uno di noi si assenta dal lavoro per gettarsi nella mischia politica. Scazzamenti e male parole. Si decidono strade diverse. Lo studio muore.
L’ottavo è ancora in centro ma in una via laterale battezzata come il grande Leon Battista anche se ho il vago sospetto che il nome derivi da una famiglia del paese. Un appartamento al primo piano da allocamento ad uno studio. Tante stanze. Ma sono solo e triste. Per fortuna continuo a recarmi a Firenze tutti i venerdi in via Ricasoli e cemento l’amicizia con il socio (ex) di Arezzo. Riesco a produrre anche un libro insieme ad alcuni progetti di concorso e un’abitazione in campagna. Conosco un ingegnere del paese vicino che mi propone dei lavori in compagnia. Vado.
Il nono si trova al primo piano di uno stabile nuovo e sgraziato nel paese dei polli e dei vivai. Quattro stanze e un bagno oltre ad uno stanzino per lo spazio privato del nostro eroe. Una grande cantiere di recupero urbano è in procinto di iniziare e mi si propone di dirigerlo e di revisionare il progetto nel mentre si costruisce. Va bene. Incontro un giovane che poi mi rimane amico. Riusciamo a produrre anche una piccola casa di riposo e poco altro ancora. Ma lo stanzino è veramente piccolo e buio e incapace di contenere i libri e le carte di due lustri di lavoro. Allora una parte del lavoro si fa a casa.
Il decimo; contemporaneo al precedente; si trova in una grande stanza con camino al piano terra della casa alla Cicogna. Tavoli per il disegno e scaffali. Si lavora la notte e la mattina presto; il sabato e la domenica. Si fanno abitazioni di campagna e concorsi. Ancora concorsi. Uno si riesce addirittura a vincere. Si tratta della piazza esagona di un paese esagono fondato trecento anni or sono da un principe sotto ad un vulcano in una grande isola triangolare in mezzo al mare nostro. Il caffè con la moka è disponibile sempre. Novelle per i ragazzi e racconti per gli amici escono bene insieme al liquido nero. Non è male lavorare in collina. Ma lo studio madre; quello dei polli e dei vivai; chiude. E’ l’ora di spostarsi di nuovo. Allora si va in montagna.
L’undicesimo spazio è una piccola stanza in legno e terracotta entro una grande stanza bianca. Il paese ospitante si trova sotto il magno prato. Deriva il nome dal giallo metallo e il cognome dal fiume che scende a precipizio dalla montagna e lo taglia in due. La stanza un tempo era usata per smistare le missive del paese e forse per questo le novelle aumentano le pagine del libro che mai scriverò. Fortifico l’amicizia con un vecchio amico dei tempi dell’università quando mi recavo in città tutti i venerdì. Ancora concorsi e progetti. Case e oggetti. L’aria frizzante del monte fortifica lo spirito; meno i capelli che diventan bianchi e iniziano ad andarsene per non più tornare. Ma quando si esce in piazza si incontra poca gente. La gente e gli amici sono giù nella valle. Se maometto non va alla montagna …. Il proverbio mi convince al trasloco. Me ne torno in città. Me ne torno lungo l’Arno.
Il dodicesimo luogo è ancora da scrivere. Lo farò insieme a certi amici cari conosciuti negli ultimi anni. Per adesso sarei felice di festeggiare insieme a voi l’addio di questo proponendo l’ultima frase.
Credevo di essere uno stanziale e invece mi ritrovo nomade e traslocatore.
Nessun commento:
Posta un commento