Lettori fissi

25/03/21

Scrivere in bella


 

Scrivere in bella | 2021

 

Forse son caduto dal seggiolone.

 

O forse no. Chissà? Ai tempi lo chiesi a mamma e parenti tutti ma la risposta era sempre: “Non ricordo … non rammento … ma che dici… di sicuro a me neanche per idea … ci stavo attenta io … ma cosa vai a pensare … semmai hai fatto tutto da solo … eri svelto e agile, certo più di ora, e magari cadere e risalire è stato un tutt’uno”.

 

O magari quella volta che si giocava ad indiani e caoboi.

 

Abitavamo la casa bianca in Circonvallazione; quella con le finestre ad oblò in cucina, il tetto piano e l’ingresso di pietra a filaretto. Quel giorno eravamo io e “... il mio amico culo di gomma famoso meccanico”; ambedue innamorati delle avventure di Rin-Tin-Tin e del suo padroncino ne replicavamo le gesta. La trama prevede che il buono, bianco o pellerossa che sia, vince sempre. E quel pomeriggio sotto il Cako mela del giardino il buono era l’altro. Ergo il perfido viene catturato e legato al palo della morte. Per sovra più subisce l’onta della danza del fuoco durante la quale viene pitturato, in faccia e dintorni, col bastone carbonizzato. Risultato? In bianco le successive tre notti e rottura dell’amicizia.

 

O forse quella volta che la maestra di Prima, ero appena arrivato nella nuova scuola di campagna, mi legò per due giorni la gamba sinistra al banco. Pare che mi alzassi di continuo disturbando la classe. Invece ero solo curioso; venivo dalla città; di capire come potessero funzionare due classi; prima e seconda; in una stessa stanza con una sola insegnante. Oppure quando la suora dell’asilo, oggi si direbbe scuola materna, mi costringeva a mangiare la minestra di cavoli. E se insistevo nelle bizze accompagna il perentorio consiglio con un frustino da fantino.

 

Ops. Fermi tutti.

 

O forse dipende dal compagno di scuola che faceva la cresta sulla merenda di metà mattina? Lui veniva da fuori paese; tre chilometri a piedi su strade vicinali con l’acqua e il resto. Tutti i giorni con un gigantesco pezzo di pane e un minuscolo cioccolato dimensioni tre per quattro o simile.  Non so avete presente quelli con la figurina del calciatore attaccata sul davanti. Come sia il nostro era di tre o quattro anni più grande essendo bocciato una volta per ogni anno. Era anche sviluppato in anticipo e a quattordici, ancora in quinta, ne dimostrava magari diciotto per più di un metro e settanta. Barba, baffi e irti peli sulle gambe scoperte dai pantaloni al ginocchio. Verso la fine dell’anno, poco prima degli esami, si prese a male parole con la maestra; una giovanissima insegnante supplente da poco diplomata; e ad un certo punto la sollevò per il fianco e la mise a sedere sulla cattedra. Successe uno scandalo che si risolse solo col ritorno a scuola della maestra titolare e la promozione dello scolaro senza grembiule.

 

Di sicuro tutti i giorni di quell’anno fece i suoi comodi col panino che mi preparava nonna.

 

O forse tutto nasce dall’invidia per come scriveva la bambina del banco davanti. Quella col grembiulino bianco e il fiocco rosa. Mai scomposta e sempre sorridente. In seconda avevamo abbandonato la scrittura con “inchiostro, penna e calamaio” in favore dei moderni ritrovati della tecnologia: penna bic inchiostro nero. E lei col nuovo sistema ci si era subito trovata bene; seguiva le linee del quaderno di ortografia e componeva lettere precise e tutte uguali come quelle dell’abecedario. I temi poi li scriveva direttamente in bella. Noialtri invece… Avrei dovuto magari odiarla e invece era la mia migliore amica.

 

L’anno successivo con l’arrivo della versione a punta fine il divario diventò incolmabile.

 

Comunque sia andata ho sempre avuto una certa difficoltà nel corsivo. Quando non posso fare a meno della velocità di esecuzione la notoria mia brutta grafia si trasforma nella versione a “zampa di gallina” che diventa illeggibile anche per me. A volte mi sento un poco Leonardo; quel barbone che scrive “a specchio”. Solo che lui lo fa scientemente e nel suo scritto c’intende. I dettati i primi anni o gli appunti veloci di lezioni universitarie son stati sempre un dramma.

 

E dire che le maestre ci hanno anche provato a migliorarmi.

 

A seguire alcuni esempi di correttivi: bacchettate sul dorso delle mani, senza colazione, in ginocchio sui ceci dietro la lavagna, a pensare seduto rivolto verso il fondo della classe e robe simili. Dagli undici in avanti ho provato con lo stampatello con cui me la cavo molto meglio. La cosa funziona ma non è veloce. Allora mi affido alla tecnologia frequentando una scuola di dattilografia che poi rilascia regolare diploma. Ma portarsi in giro sulla Vespa una valigetta 15x30x40 di quattro chili non è proprio agevole.

 

Praticità vicino a zero.

 

La soluzione me la son trovata di fronte un giorno del settantotto. La bottega tagliava l’angolo di una viuzza vicino alla stazione. Ero come al solito in ritardo per il treno delle diciannove e quattordici dopo che mi ero attardato per l’ennesima revisione al progetto. Non ero ancora pratico del dedalo di viuzze che fa da corona al Duomo e quindi il tentativo di prendere una scorciatoia, come se fossi stato sotto le pendici del Pratomagno in luoghi conosciuti, si rivelò un boomerang. Ripensandoci adesso, di anni ne son passati quaranta e oltre, suppongo di aver lungamente girato a vuoto in quel quartiere. L’estate sarebbe iniziata da poco e quella settimana ne fu l’avviso con temperature quasi tropicali. Poi ecco il crocicchio: Spada, Sole e Belle Donne. Su quest’ultima un’insegna nero lucido, come il resto dell’ingresso, e oro che recitava: Babele – Boutique d’arte e libri.

 

La verità?

 

Sbirciai appena l’orologio; oggi è desueto ma un tempo tutti o quasi indossavano e usavano l’oggetto per contare il tempo; che raccontò del treno perso. Il prossimo un’ora dopo. Era un caldo birbone anzi meglio quel trivio pareva essere il ricettacolo di tutti i maledetti venti caldi della Piana. Tanto per fare mi avvicinai alla vetrina con l’intento di sbirciar dentro.

 

Poi la porta si apri.

 

Si aprì a favore di una singolare figura maschile in abito di lino bianco sui toni del burro. Tutto in tinta compreso scarpe e cinta. Bianchi anche i lunghi capelli in tono con una curatissima barba tipo hipster e un Panama da vero dandy. Sulla destra un bastone da passeggio con pomello in osso scolpito a levriero mentre l’altra stringeva con leggiadria un piccolo libro con disegnato in copertina un labirinto su fondo rosso. Il formato e le regole grafiche erano le medesime di quelli esposti. Tre soli accessori uscivano dalla regola del bianco totale che il nostro si era imposto.

 

Papillon, pochette e fascia del copricapo in viola tradivano la sua fede calcistica.

 

Insieme a cotanta eleganza usci una brezza invitante che m’invogliò all’ingresso. L’interno è uno scrigno nero lucido con finiture dorate, anzi proprio oro. Sugli scaffali: esposti e distanziati come oggetti d’arte; libri. Subito m’intrigarono alcuni particolari: la carta, il formato e le illustrazioni. La grafica insomma era di livello superiore.

 

Per gli anni dell’università, anche dopo se per questo, quella è stata la mia bottega del bello.

 

E quasi a volerla tutta per me ricordo di non averla condivisa con nessuno. Amici, fratelli o innamorata che fosse. Doveva rimanere mia. Solo mia. Ci passavo almeno una volta alla settimana, di solito a fine pomeriggio, e mi fermavo giusto il tempo per sfogliare gli ultimi arrivi saggiando carta e contenuto con l’occhio esperto del lettore consapevole e interessato. Una goduria per la mente. Ogni tanto poi, le finanze erano limitate, riuscivo anche a portarne uno con me che avviavo in treno seduto sullo strapuntino del vagone di testa. Adesso, dopo tutto questo tempo, è giunto il momento, se interessa ancora a qualcuno, di svelare il segreto: via delle Belle Donne 41/r, Firenze. 

 

Tanto non c’è più.

 

In questo spazio scopro Bodoni e i suoi caratteri, Borges e i suoi labirinti, la semplice eleganza dell’impaginazione, la rivista con l’acronimo dell’editore e molto altro. Tutte cose che mi porto in cuore, alcune anche in biblioteca, e ogni tanto riaffiorano quando mi trovo indegnamente a disegnar marchi, scritte o copertine sul quaderno nero anche lui.

 

Libri insomma.

 

Come quello ricevuto da poco in regalo dal mio amore. Al solito l’oggetto di carta stampata è sempre estremamente gradito. Ancora di più questo che ha a che fare con scrittura e grafica. “Manuale di calligrafia” recita la scritta bodoniana in copertina su fondo rosso mattone. Dentro scritte e alfabeti, inchiostri e pennini e lettere mirabolanti. Tutte giudicate difficili per la mia “zampa di gallina”. Magari me la prendo comoda. Ne leggo un poco e poi ci provo. E dopo se non basta provo ancora. E poi ancora. Da qualche parte ho letto che le cose difficili, e anche le impossibili se volete, si devono provare almeno sette volte prima che riescano.

 

Quindi con calma mi prendo il tempo che ci vuole.

 

Tanto l’obiettivo lo conosco oramai. Sento che è vicino. Molto vicino. Ne vedo in lontananza il grembiule immacolato. Lo punto dal di dietro da una cinquantina d’anni e forse più. Ci manca; fate con me vi prego il gesto del pennino della stilografica, tanto così. Penso positivo e intanto, hai visto mai, mi son procurato un quaderno a righe e una penna bic punta fine. Ti conosco mascherina e non ho timore di …

 

Scrivere in bella.

18/03/21

Nel tombino

 


Nel tombino | 2021

 

E va bene.

 

Mi è d’uopo confessare a questa illustrissima Corte che questa è la verità; la verace, verissima ed evidente verità sulla vicenda che vado ad esporre. Fin da piccolo son stato impacciato nei movimenti. Ho sempre avuto difficoltà a produrre gesti fluidi e armoniosi.  Ho sempre saputo che non sarei mai stato un ballerino classico. E se è per questo neanche uno non classico.

 

Goffo insomma.

 

Non so se possano entrarci come generici fatti a discarico comunque dovete sapere che dai tre anni in avanti ho sofferto di balbuzie e dai sei e oltre ho difficoltà con la scrittura in corsivo. Mi trovavo meglio con lo stampatello anche se, come è facilmente immaginabile, ne soffriva la velocità d’esecuzione.

 

Il dettato poi era un supplizio.

 

Che vivevo come una delle sette fatiche di Ercole. Signor Pretore ne scelga pure una a suo piacimento. Provi ad immaginarsela al vivo. Ecco; quella. Ricordo alcuni correttivi: bacchettate sul dorso delle mani, senza colazione, in ginocchio sui ceci dietro la lavagna, a pensare seduto verso rivolto verso il fondo della classe e robe simili.

 

La scuola elementare della campagna toscana negli anni sessanta.

 

Son nato impacciato e lo rimasi: cadute da piccino, da ragazzo e d’adulto. Incidenti domestici e stradali. Con la bici la moto e la macchina. Sul lavoro poi signor Cancelliere avrei certe chicche che impegnerebbero per ore la segretaria Verbalizzante; la bella signora mora col tailleur fumo di Londra e le scarpe tacco dodici che batte sui tasti come fosse un direttore d’orchestra.  Ma siccome non è questo il tema se Vossignoria me lo concede lascerei perdere.

 

Anzi veniamo all’oggi.

 

Stamani finisco per tempo la spesa settimanale e rientro in paese. Parcheggio e salgo in casa coi sacchetti ricolmi. Come al solito lascio tutto sopra il tavolo a cinque gambe; quello lungo nel mezzo di stanza accanto alla porta di cucina. Con Silvia addetta a riporre le cose a me il compito di cercare alcuni cibi che ho preso per babbo che ci abita confinante. Li trovo e li agguanto. Sono una confezione di stracchino protetto da una scatola di plastica trasparente e mezzo chilo di fagiolini verdi imbustati dentro nella rete dello stesso colore. Mi munisco del mazzo di chiavi, quello giusto, e di giacca a vento d’ordinanza che non indosso. Scendo alla porta e mi accorgo che non ho la prescritta mascherina chirurgica. Mi tocca tornare indietro e munirmene.

 

Signor Giudice chiedo sia messo agli atti che indossavo la prescritta mascherina anti Covid.

 

Con tutti questi arnesi stretti con mano sinistra esco. Poco prima di arrivare in strada, chissà perché, mi ricordo di controllare la cassetta postale. Il sabato di solito la postina è di festa e non si trova niente. Oggi si. C’è una lettera richiedente quattrini per una qualche agenzia di carità. Il destinatario non sono io quindi acchiappo la missiva con la destra e chiudo la cassetta. Signor giudice saranno diciotto metri o poco più da casa mia al cancello del babbo. Ai quindici inizio a trafficare con gli oggetti che ho in sinistra con l’intenzione di passarli alla destra. Tutti uno escluso.

 

Il mazzo di chiavi è l’obbiettivo dei movimenti scomposti.

 

Tutto l’insieme è organizzato con moschettone cromato, a forma di faccia di Topolino, che contiene un anello d’acciaio anch’esso. Dentro al cerchio ci sono sei chiavi di forma e dimensioni diverse oltre ad altro anello, questo più piccolo e leggero, che porta un vecchio cartellino di metallo con stampato in altorilievo la scritta Mandarina Duck e la sagoma di una papera. Dolce in fondo la chiavetta Usb, capacità centoventotto gigabit che è un poco l’archivio portabile dei lavori in corso, e un gettone per carrello da supermercato con smaltata sul metallo una croce rossa su fondo bianco cui son molto affezionato.

 

E siccome l’imperizia è il mio mestiere ecco qua il resto.

 

L’accrocco d’acciaio si anima improvvisamente quasi di moto proprio. Comincia a saltellare tra il pollice e l’indice e il medio anche. Come se un gruppo di grilli invasati si fossero convinti di essere artisti del Cirque du Soleil. E come tale si comportano. Zompettano tra le dita ed il palmo mimando quella filastrocca che fa: Mano mano pazza … da qui passò una lepre pazza … Ma questa la sapete quindi che continuo a fare?

 

Comunque sia a forza di volteggi e giravolte vince la forza di gravità.

 

Sotto di noi c’è un tombino. Anzi voglio dettagliare meglio se permette signor Pretore. Trattasi di coperchio in ghisa, con fori rettangolari stondati appositamente disegnati per il deflusso dell’acqua  piovana, della caditoia stradale. Il mazzo ci sbatte a capofitto proprio nella parte piena e li pare fermarsi. Rammento che ho appena il tempo di pensare: Che fortuna … poteva centrare il vuoto e adesso stava a bagno …; che il peso della papera Mandarina vince su chiavi, anelli e compagnia bella e si tuffa, trascinando il resto, nel buco nero.

 

Splash.

 

Il rumore del tonfo mi coglie impreparato. Poso il resto degli oggetti sul muretto vicino e m’inginocchio sull’asfalto con la faccia orientata verso il basso. Il luccichio del metallo conferma che l’armentario si è posato sul basso fondale di un pozzetto con alcuni centimetri d’acqua. Adesso devo organizzare il recupero. Apro il cancello del giardino alla ricerca di un tondino d’acciaio da piegare a gancio. Ne trovo uno e tento invano molte volte. La caditoia è molto profonda, molto più dell’apparenza. Oogni volta che aggancio un anello il peso del resto vince e scivola giù. Mi sento come quando al luna park da adolescente tentavo la pesca del pacchetto di sigarette con la gru a tre denti e vinceva sempre il banco.

 

Mi assale un senso di impotenza.

 

Conosco pozzetti e caditoie e so che sono costruiti per essere ispezionabili ma gli operai stradali l’hanno per l’appunto sigillati l’altro ieri asfaltando la strada. Ciononostante provo con la forza bruta tentando di tirar su il coperchio di ghisa. Niente da fare il catrame ha fatto presa ed è più forte di me. Cambio strategia e passo al piano B. Ritorno in giardino alla ricerca degli attrezzi giusti; scalpello e mazzuolo; che trovo riposti in un angolo sotto un sacco di cemento.

 

Adesso gioco io.

 

Dai e dai, picchia e mena riesco a pulir l’intorno del coperchio producendo una bel mucchio da discarica controllata. Adesso basta picchiarci sopra con decisione e sono pronto al sollevamento. Infilo i guanti da lavoro, afferro il pezzo dai fori sopra e tiro. E tiro con tutte le mie forze. Uno stack improvviso accompagna la salita del coperchio. Il mazzo è laggiù sul fondo. Nel mentre lo afferro sento una voce imperiosa come se fosse un ordine. Anzi è proprio un ordine: Alt! Cosa ha preso nel tombino?Mani in alto; di chi sono quelle chiavi?

 

Corte e avvocati, Pretore e difensori, Giudice e Piemme, Giuria e cancelliere. Sono stato tradotto in carcere, imputato di non so cosa e messo a processo d’urgenza neanche fossi terrorista o mafioso, evasore o politico. Un delinquente conclamato insomma. Mi sento un poco come quel Detenuto in attesa di giudizio e come tale offeso e calunniato. Non so come andrà a finire questa farsa. Signori tutti ecco quello che interessa a me.

 

Riavere indietro il gettone con la croce smaltata per finire la spesa.

11/03/21

Sento stereo

 


Sento stereo | 2019 - 21

 

Soffro d’Otite.

 

Da sempre. Ci soffro da quando ricordo anche se poi ho scoperto; mal comune mezzo gaudio; che tanti da ragazzi ne han patito. I nonni lo chiamavano “mal d’orecchio” con questo significando che non era niente di strano ma anzi un dolorino come un altro tra i molteplici malori infantili. Come sia quando mi prendeva il dolore, unito allo sturbo per il fastidio, correvo dagli anziani che avevano sempre un qualche rimedio. M’ infilavo nel lettone di ferro, quello con i pomelli ai quattro cantoni, a chiedere conforto e protezione.

 

A seguire alcuni loro rimedi romanzati e mutuati dalla saggezza popolare.

 

“Appoggia sulla parte che ti fa male un panno molto caldo, quasi a bollore, con dentro un pizzico di sale grosso. Funziona di certo. Altrimenti prepara una mistura con alcune gocce d’olio evo e altrettante d’essenziale di lavanda. Con l’intruglio inumidisci una pallina di cotone da appoggiare all’ingresso del canale. Il seguente è il classico che va sempre su tutto: applica un impacco di acqua calda e salata, caldissima. Ripeti più volte. Adesso andiamo in cucina a prendere una cipolla che va tritata fine finissima, racchiusa in un sacchetto di lino e appoggiata sull’orecchio per tutta la notte”.

 

L’aglio invece sull’Amatriciana non ci va.

 

E di questo ne son adesso consapevole assertore da alcune decine d’anni. Non lo sapevo invece l’estate dei miei venticinque. Una delle prime vacanze in tenda; tre coppie per altrettante Canadesi e un'unica piazzola. La regola quell’anno prevedeva che i lavori di casa barra cucina erano appaltati ai fidanzati. Spesa e vettovagliamento invece erano gestite delle tre megere. Noi ci dividemmo, al meglio delle tre partite a tresette, il resto: sistemare la tavola, rigovernare e cucinare. I primi due lavori mi son sempre stati pesanti e per mia fortuna al tresette sono imbattibile. A pranzo ci arrangiavamo con frutta o panini ma la sera, ogni sera, preparavo pasta con tutto quanto c’era in dispensa.

 

E quell’anno andava forte l’Amatriciana con aglio in camicia e trito di cipolla

 

Eravamo dalle parti di Sibari in un luogo neanche particolarmente interessante; niente scogli o fondo sassoso per le immersioni ma solo banale spiaggia piatta. Due marroni ma due marroni. Poi il terzo giorno arrivarono le onde. Grandi, alte quasi tre metri che si frangevano, con forza spropositata e rumore anche, sulla battigia. Cavalloni mai toccati con mano. Noi tre omini di casa ci lanciammo quindi nell’avventura con tuffi e spruzzi e lazzi e lungamente profittammo della novità.

 

E devo dire ci divertimmo anche.

 

Dopo però, poco prima del tramonto, cominciarono i guai al destro. Dolori lancinanti e pulsioni a martello. Da non resistere. Il medico della locale farmacia, non c’era altro a disposizione, consigliò una cura infallibile con un pasticcio d’unguenti di provenienza sconosciuta e “… niente sole né bagni mi raccomando”. Alle mie rimostranze per il fatto che questa era la nostra unica vacanza e “… chissà che palle se devo stare ancora qui per i prossimi cinque giorni senza neanche fare un tuffo” lui ribatte: “… e va bene caro signore; uno al giorno nel tardo pomeriggio ma con la cuffia da nuoto”. L’acquistai nel negozio di fronte dove una gentile vecchietta; fate conto il farmacista vestito da femmina, ne aveva molte in taglia unica e di colore rosso fuoco. Durante il tragitto per il parcheggio incrociai ben tre altri turisti, come noi del nord, con in mano l’involto della cuffia.

 

“Che magari la bottegaia e il farmacista son parenti …?” m’interrogai.

 

 

Le mie abluzioni delle sei del pomeriggio restarono mitiche. Dopo la prima, durante la quale solo gli amici mi prendevano in giro, una delle ragazze m’affibbiò il sopra nome di “supercazzola”. Il giorno appresso ci si mise la spiaggia tutta. Il dolore nel frattempo se n’andò.

 

Tornò durante il viaggio di ritorno e questa volta picchiò forte e duro.

 

Insopportabile. Fino alla visita del giorno appresso quando finalmente l’Otorino ispezionò l’orecchio e le sue cavità. Guarda e fruga e tocca e spuzza e rispruzza cominciano ad uscire granelli di sabbia e alcuni piccoli sassolini. Il cavo libero finalmente.

 

Libero anch’io ma non dai problemi uditivi.

 

Soffro di sordità. Almeno questa è la convinzione in famiglia. Da alcuni anni sono tacciato di aver seri problemi d’udito solo perché ogni tanto non rispondo prontamente alle loro interrogazioni mentre magari son assorto in profondi pensieri filosofici. E loro in coro. “… rassegnati. Oramai vai verso la sordità. Ti manca solo l’apparecchio acustico”. “Magari dipende da quell’otite non curata oltre trent’anni fa?” provo a replicare mentre li sento beffeggiare. E in effetti se ripenso ai maschi del mio ceppo rammento che: dopo i settanta ha sofferto nonno forse per i suoi lavori giovanili a scavar gallerie in Svizzera e a costruir bombe in Germania; dopo gli ottanta ne patisce babbo che ha lavorato una vita in cantieri edili e si è vestito da cacciatore per le feste. Tutti e due lavoratori in momenti storici che non prevedevano l’uso di cuffie, caschi o altri Dpi acustici.

 

Ma io son tranquillo; non pratico sport o mestieri o hobby dannosi all’udito.

 

Comunque mi attrezzo con prove e visite e controlli prescritti. Con eccesso di zelo mi sottopongo anche un passaggio di liquidi a pressione per eliminare ogni traccia di cerume o altro. Questo la settimana passata. Oggi sono dentro un piccolo ambulatorio pieno di aggeggi elettrici, computer, lancette, visori, cuffie e tutto quanto lo fa somigliare ad uno studio di registrazione musicale. In un angolo c’è una cabina, modello le telefoniche del secolo scorso, con seduta tavolo, cuffie e alcuni pulsanti.

 

L’ambiente è perfettamente isolato. Mi sottopongo alle prove.

 

Queste, compreso la visita finale, son precise e veloci. Entro la successiva mezz’ora scopro, come sospettavo da tempo, di essere perfettamente udente. Mi sento come nuovo e fantastico di potermi sottoporre alle avventure più mirabolanti tipo quelle che normalmente sono il pane di  super Pippo quando attiva il super udito. Questo vado a raccontare, munito del prescritto certificato, in famiglia e al resto del mondo. Ma non c’è verso. La sera stessa si presentano a cena indossando tre cuffie rosse da bagno. Fanno il giro del tavolo e attaccano la rumba.

 

“Supercazzola … za za za … supercazzola … zum zum”.

04/03/21

Divo-c

 


Divo-c | 2021

 

Le case ci abitano.

 

Le stanze pure.

Non si adattano alle nostre esigenze ma piuttosto è vero l'inverso.

Questa è la storia di una di queste.

 

Il locale nasce con la casa, poco meno di trent'anni fa, dall'unione di due dei quattro moduli che generano la planimetria dell'edificio. Quattordici e spiccioli per due è la superficie. Al centro del lato lungo esterno c'è un camino a sporgere in fuori. La geometria racconta di un rettangolo stretto e lungo con una finestra, due porte e tre porte finestre per uscire in giardino. 

 

Neutrale a quello che succede intorno.

 

Con un parallelo politico si potrebbe definire aderente al grande centro anche se nessuno sa mai di cosa si tratta. Comunque sia il locale ha generato molteplici usi e funzioni. É stato stanza di giochi per i figli, luogo per alcuni ritrovi conviviali, cene a sedere o grigliate in piedi e in alcune occasioni si è prestata come base logistica di appoggio per grandi feste campestri. Poi quando i ragazzi son stati motorizzati è diventato un grande ripostiglio per gli avanzi della casa: giochi e mobili, vestiti e scarpe, scatole e scatoloni e quanto altro. All’inizio tutto organizzato secondo il celeberrimo aforisma declinato dal buon B. Franklin: “ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa”. I vecchi mobili furono sistemati a ripostiglio di oggetti e si costruì ex novo un grande scaffale a tutta parete per ordinare vecchi libri e il resto. Poi col passar del tempo l’ordine ha migrato in altri luoghi e il sistema alla rinfusa ha stravinto alla grande.

 

Furono spenti i radiatori e il locale diventò a tutti gli effetti un magazzino,

 

Tanto che ad un certo momento, considerata la presenza al piano di un bagno attrezzato e l’accesso dall’esterno, fu ipotizzata la locazione come monolocale. Ma questo la stanza lo rifiutò appena lo venne a sapere da certe frasi bisbigliate in fase di sopraluogo dei possibili inquilini. E dire che mi ero raccomandato: “… Badate bene di non far capire le vostre intenzioni … fate finta di essere nostri amici e di chiederci in prestito il locale per la festa dei cent’anni di vostra nonna … ve lo lasciamo a buonissimo prezzo … con o senza contratto … ma per piacere … siate volpi”.

 

Ma niente.

 

L’ambiente conosceva i suoi polli e agì di conseguenza. Il giorno dopo la visita la prima avvisaglia: la fossa biologica, meglio il suo contenuto, se n’uscì a spasso per il giardino arrivando a sfiorare la porta. Pochi giorni dopo, lo rammento bene per via che era il venticinque dell’ultimo mese dell’anno, nel pomeriggio si sentì un tonfo tipo “scrash” e a seguire un rumore come di rubinetto aperto a bocca completa. Si era spaccata la tubazione in lavanderia e prima di aver individuato il problema e la valvola di chiusura tutto il piano era in acqua alta per cinque o sei centimetri. Un dramma.

 

Intenti al salvataggio del possibile successe che le luci della stanza si accesero ad effetto discoteca.

 

Solo loro. Nelle altre stanze l’impianto funzionava in regola. Qui no. Come se un qualche imbecille di turno si fosse divertito a spengere e accendere l’interruttore sul modello che usava alle feste in casa di un tempo. “Mistero della scienza e della tecnica oppure una qualche presenza animava il locale?”. Forse era semplicemente volpe lei e baccalà noi.

 

Come sia non si è più ragionato di locazione e simili facezie.

 

Alla fine eccolo qua. Pulito e imbiancato. Tirato a lucido e rinfrescato. Pronto per diventare lo studio tutto fare dell’ attività di un umile architetto di campagna; quasi condotto come i medici di un tempo. Le sistemazioni del nuovo uso sono indolori. Anzi meglio si adattano loro stesse al locale e seguono la distribuzione e gli impianti a suo tempo disegnati per altre funzioni. E del resto è copiato spudoratamente lo scantinato del Mascetti: “Ambiente unico diviso in comparti … mobili come in Giappone”. Pertanto: archivio, biblioteca, lavoro e ricevimento; tutto con i mobili. Tutto scientifico ma con vista campagna per lo spirito e Fico verdino per la merenda.

 

Tutto ordinato.

 

Poi giorni fa l’ultima trasformazione. Una telefonata, anzi meglio un messaggio Whatsapp, avverte che: “… Buongiorno signore … le devo comunicare che; per effetto della sua frequentazione di …. ecc. ecc.; da questo momento si deve considerare in quarantena fino al prossimo tampone che le verrà praticato secondo tempi e modi stabiliti con il messaggio di posta elettronica che le è stato appena inviato.  Seguiranno precise e dettagliate istruzioni. Salute”.

 

Il riferimento alla salute è quello che mi ha fatto infuriare.

 

“Ma come; sconosciuta testina di quiz che non ti firmi neanche mi hai appena comunicato che non posso uscire, devo scegliermi una stanza e starci da solo per quindici giorni o anche di più, devo organizzare un bagno personale, non devo frequentare nessuno e tantopiù le persone in casa e chissà quante altre restrizioni; e chiudi con: Salute? Ma sei di fuori o cosa?”.

 

Come sia. Dopo lo sfogo filosofico mi organizzo.

 

La stanza è quella al piano terra con il bagno limitrofo. Ci son tavoli e matite e blocchi da disegno e libri. Così a sentimento giudico di poterci passare il tempo che vuole. Per dormire agevolo l’ingresso della sdraia da giardino riposta in garage e l’attrezzo a brandina con materasso, coperte e tutto l’occorrente. Giudico l’opera non particolarmente comoda ma questo passa il convento. Faccio un salto ai piani alti per cuscino, infradito uso mare come scendiletto e oggetti da bagno.

 

Per la notte sono operativo.

 

Per le vettovaglie mi affido “Anema e core” al parentame che alloggia ai piani alti. Per l’acqua ho la brocca filtrante, ultimo modello etico e solidale, e per il vino la cantina a tre passi. Come tirabusciò uso il coltellino svizzero che ho sempre nel saccapane mentre per il caffè; cui prevedo ingerire gran quantità; ho trovato una vecchia macchinetta da uno. Dentro lo stesso scatolone, avanzo mai aperto del trasloco dello studio numero undici, scopro la presenza del fornello elettrico, lungamente e inutilmente cercato, che davo oramai scomparso per sempre.

 

Alla fine accedo al servizio di posta.

 

Ai soliti convenevoli, che risparmio. segue la frase: “… in via cautelativa è quindi sottoposto a quarantena preventiva perché sospettosamente sospetto ad aver contratto una qualche forma di Covid”. E io ad alta voce: “Covid … Covid … mumble … mumble … dove ho già sentito questa parola?” E all’improvviso salto in piedi, agguanto lo specchietto retrovisore della Cinquecento elle e l’appoggio sul tavolo. Apro il cassetto, prendo un foglio bianco formato A4 e la penna stilo. Scrivo: “divoc” e lo specchio per leggere “covid”. Il mio amico Sergio di marina di Campo avrebbe di sicuro aperto la discussione con il suo mitico: ”Bestiale”.

 

Intanto il solito messaggio elettronico, questo di Silvia, interrompe questi fugaci pensieri.

 

“Attento che scendo le scale. Ti lascio il vassoio, quello arancio di pvc trasparente che abbiamo preso ad Arzachena, sull’ultimo scalino. Stasera cena anni ottanta: tortellini rosé e insalata russa. Pane integrale una fettina come un velo.  Senza vino che la sera fa tappo. Frutta neanche. Caffè se lo vuoi te lo fai. Controlla che ci sia tutto e casomai avvertimi. Buon appetito. Un bacio” Una vera casa-studio con servizio di pensione completa

 

Alé. Servito e riverito come un Divo-c.

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