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CdC



CdC | 2011

L’uso dell’acronimo è una roba veramente a la page in questi ultimi anni d’inizio secolo.
Sempre + veloci, caotici, elettronici e virtuali.

È usato per le sigle delle medicine e per le griffe della moda; per i prodotti alimentari e per le automobili; per i gruppi musicali e per gli studi di architettura. E anche per la gran parte delle parole che si spediscono con quegli aggeggi infernali che sono i telefoni da passeggio. Quelle frasi che si inviano con un sms; un acronimo appunto. Tanto per puro esercizio di stile, o forse per allungar il discorso, mi vien da pigliar per esempio chi scrive.

Che poi sarei io.
Bene.

 Son notoriamente un dinosauro dentro una stanza di cristalli e un pasticcione con le novità della tecnologia. Perfino il rettile dentro di me ha imparato a digitare cmq, tvb, xchè e via con la rumba delle abbreviazioni del vocabolario della Crusca. Se poi si ragiona di politica e di partiti si scopre udc, pd, pdl, fli e quant’altro. Ieri me n’è venuto in mente uno anche a me. Tre letterine in fila; comparse(mi) in testa dal nulla andando al lavoro; per tre nuovi partiti politici. Cdc per: consorteria di conservatori, consesso della comunione e cricca di compagni. Ci ripenso stamani e mi pare veramente ignobile. Però se lo declino con le due ci maiuscole migliora notevolmente. Un poco come la besciamella che rigonfia a fine cottura o la ribollita che si attacca al tegame di coccio.

Ecco.
Se scrivo CdC mi pare buono.

In questo modo mi viene in mente, chissà per quale arcano motivo, un cimitero di campagna. Anzi quello del mio paese. La terra consacrata si trova a novantanove metri virgola novantanove dal cartello di benvenuto del borgo. Per arrivarci bisogna scendere una piccola discesa e passar sopra ad un viadotto piccino picciò; alla madonnina di marmo, riparata dalla casetta di mattoni, svoltare a sinistra e pigliare lo sterrato bordato di cipressi.

Se hai la macchina parcheggi nel piazzale.
Se sei appiedato spingi il cancello.

Adesso stai dentro il recinto con me che ti accompagno e ti  racconto. Appena all’interno ci si rende conto che le cinte sono due. Una di recente costruzione e l’altra molto meno. Tralascio l’aggiunta; che secondo me è appena maggiorenne; e mi fiondo verso il cancello di ferro battuto.

Con nove lunghi passi son dentro la parte più antica.

Questa, secondo me, ha vissuto almeno novantanove primavere ed ha un impianto planimetrico quadrato. Son le nove e ventinove di una mattina nebbiosa di febbraio. Ho con me solo il maledetto affare di metallo e silicio e cristalli liquidi; di quelli che catturano anche le immagini; la penna Pilot nera zero cinque e il piccolo quaderno nero per gli appunti. Voglio proprio fare un rilievo. In nove minuti scatto settantacinque foto e giro un video. Poi do fuoco alla nona bionda del giorno e mi accoccolo sull’erba bagnata. Ragiono su come prendere misure senza il metro a stecca che si trova nell’automobile parcheggiata fuori.

Rammento che una trentina di anni fa un Maestro mi ha costretto a misurare tutto il mio corpo. Al tempo mi son pure costruito una specie di manichino bidimensionale. Mi ci son volute nove ore, un foglio di multistrato spessore millimetri nove, nove bulloni rivettati, un seghetto da traforo, nove lame,  novantanove grammi di cementite, novanta centimetri di carta vetrata e una bomboletta spray di colore nero assoluto. Il mio doppio mi ha seguito in nove traslochi ed è stato appeso in altrettante stanze. Sempre con movenze e atteggiamenti differenti.

Poi è tornato al posto di partenza ed è finito in soffitta.
Magari domani lo cerco.

Al momento voglio sfruttare il ricordo delle misure di certe sue parti. Da terra all’ombelico misuro centimetri novantanove, il palmo esteso misura ventuno, le spalle fanno cinquantadue, un piede scalzo son venticinque, un passo  lungo fa novantanove e via di seguito. Mi stiro i muscoli ed allungo le membra.

Son pronto.
Comincio il rilievo.

Torno indietro verso l’ampliamento e attacco a contar passi. Al primo passo mi fermo e rammento del giuramento di Ippodamo da Mileto. Quello fatto al tempo del bacio accademico. Mi par che ragioni sull’assoluta scientificità della misurazione degli immobili e dei terreni e sul fatto che le campagne d’indagine vanno condotte con l’ausilio di appositi e codificati strumenti. E di sicuro tra questi non son previsti né piedi e manco mani. Son sicuro che, se mai dovessi raccontar in giro lo sgarro che mi accingo a fare, il mio ordine professionale come minimo mi sospende la patente e magari mi caccia fuori a pedate. Ma tant’è.

Col piffero che esco dall’area sacra.
Alla faccia dei giuramenti mi arrangio come programmato.
Ricomincio daccapo dalla parte nuova. Il piazzale, pavimentato con certe brutte mattonelle di cotto quadrate, misura 3 passi e mezzo per ventuno. A destra e a sinistra rispetto al cancello ci son due aiuole inerbite di 3,5x9 passi. Su quella di destra in fondo una qualche anima gentile ha ben pensato di costruire un minuscolo giardino di 1,5 per 3. Il muro di confine si estende per tre lati; è alto 10 palmi e spesso 1 piede scalzo. Il paramento è costruito con quei blocchetti di cemento tanto di moda diciotto anni fa. Le finiture son fatte a risparmio: copertina di coccio malamente stuccata e intonaco tinto di bianco. Non ci sono accorgimenti per la protezione del  muro allo spicco dal terreno.

L’umidità sale da sotto e l’acqua scende da sopra.

L’opera ha da poco compiuto seimilacinquecentosettanta giorni ed è già ammalorata. Torno al centro del piazzale che continua in avanti per tre passi e indietro per quattro. All’ingresso c’è un modestissimo cancello in tubolare di acciaio a stecche verticali. Rispetto alla quota della vecchia la parte aggiuntata è più bassa di un paio di palmi. Faccio un rapido calcolo mentale della pendenza. La formula è: pendenza uguale dislivello diviso lunghezza. Ci metto i palmi ed i passi ragguagliati ai centimetri. Due palmi per ventuno uguale 42. Tre passi e mezzo più altrettanti uguale 693. La pendenza risulta intorno al sei per cento. È una roba assolutamente accessibile. Peccato che di ‘sti banali conteggi non abbia tenuto conto il costruttore del cancello che non si apre per intero ma raschia sotto. È una roba abbastanza comica immaginarsi il corteo funebre che deve passare in fila indiana per seppellire il caro estinto.

Ma così funziona questo cimitero.
Cancello semi aperto e via pedalare.

Dentro il piazzale ci sono; imprigionati da minuscole aiuole circolari; cinque cipressi piantati al tempo del primo impianto. Due a mancina e tre a mandritta. Siccome di norma il Cupressus sempervirens va di coppia come i carabinieri è facile presupporre che il mancante sia stato segato da un progetto sconsiderato. Anzi mi pare già un miracolo che i rimanenti campino ancora. Il doppio filare alberato continua fino alla strada asfaltata. Per loro fortuna (degli alberi … ndr) la stazione appaltante ha finito i quattrini e paiono ancora vivi e vegeti.

Ma adesso è tempo di morti.

Mi metto con le spalle all’ingresso e decido di stimare uno dei due contenitori di salme murate li vicino. I due parallelepipedi, lunghi e stretti, son disposti in maniera simmetrica rispetto al percorso d’ingresso. Cammino per 7,5x2,5 passi. L’altezza la misuro con 12,5 palmi. Il fronte è diviso in tre file di dieci quadrati più venti quadratini all’ultimo piano. Ogni loculo sono 3 palmi e un terzo per lato. I cenerari in alto si estendono ognuno per una spanna e mezzo. Tutti son bordati da una cornice di rigiro in marmo Bardiglio colore grigio. Non tutti i loculi sono occupati dalle salme o dalle ceneri. Tutti però sono in proprietà a questa o quella famiglia. Quelli vuoti si riconosco dalla semplice lapide di marmo Carrara bianco. I pieni son caratterizzati da frontali con immagini e scritte le più diverse. Di regola i marmi sono bianchi ma alcuni non hanno disdegnato il rosa del Portogallo. Alcuni forni sono stati accoppiati per unire; nella morte; le coppie della vita. Di questi ne conto uno a sinistra e quattro a destra. Un quadrato mancante di lapide, con muro intonacato da poco e con vaso di fiori freschi, denuncia un funerale da poco avvenuto. I due volumi son dotati di copertura piana con guaina bituminosa di protezione dalla pioggia. Sul fronte c’è un aggetto in cemento armato di 3 palmi e mezzo. Il regolamento igienico sanitario per la conservazione delle salme prevede che i corpi siano adagiati entro casse di legno chiuse ermeticamente e saldate a stagno.

Questo lo rammento bene per aver prestato servizio di chierichetto al tempo delle scuole elementari.

Prima di varcare il secondo cancello mi rimane solo da misurare lo slargo centrale. Conto sei passi per due virgola cinque. Nell’angolo a sinistra trovo, appoggiati per terra, diversi fasci di fiori rinsecchiti. A destra c’è di peggio. Una rete di metallo sagomata, legata con fil di ferro, è appesa al muro e funge da contenitore per tre annaffiatoi di plastica gialla e per due bottiglie di detersivo vuote. Sotto giacciono abbandonati tre vasi: il primo e l’ultimo son vuoti mentre dentro il centrale c’è piantumata una piantina striminzita. Poco più in là c’è una granata insieme alla prescritta cassetta per raccattar il sudicio. Ma è nell’angolo che trovo la sintesi del progetto dell’ampliamento cimiteriale. Lo voglio proprio rilevar nel dettaglio. Un muricciolo angolare sopporta il peso di cinque vasetti di recupero lasciati chissà da chi. Lo spessore dice un palmo meno sei centimetri. Il muretto è aggiunto alla struttura principale con ripensamento dell’ultimo momento. L’intonaco è umido e scrostato e la prescritta copertina in pietra se la son scordata di certo. I due fronti del sistema misurano 4 di base per 5 palmi d’altezza. L’angolo vero e proprio è occupato da una vaschetta quadrata di porcellana tipo quelle che si trovano accanto alle lavatrici. Il catino misura 2x2 palmi ed è rialzato di due e mezzo da terra. La tubazione di scarico è sotto la piletta mentre la cannella si trova un palmo sotto i 5 vasini. Il rubinetto erogatore è praticamente appiccicato all’angolo. Il risultato di tutta questa bella composizione è che se provi a riempire qualche contenitore di bagni tutto.

Tiro fuori di tasca il fazzoletto di lino e mi asciugo alla meglio.
Maledico intanto l’esecutore di siffatta opera e apro il cancello del recinto principale.

Quest’inferriata è stata di sicuro costruita da un cristiano che si intende di carpenteria. Niente di ché per carità; mica si tratta di un’opera d’arte ma piuttosto di buon artigianato. Comunque noto subito che si pole aprire tutto con facilità. È peso una cifra ma basta una leggera spinta e son dentro. Mi giro indietro e lo racconto. Ai lati ci sono due colonne di pietra sbozzata con basamento e capitello finale. Tutto l’affare è costruito in ferro battuto senza nessun tipo di saldatura. Le stecche verticali; dotate di lance in sommità; son giuntate ai trasversi e alla struttura principale tramite un sistema di rivetti battuti a caldo. Rammento che mezzo secolo fa in  paese c’erano almeno tre famiglie di fabbri ferrai che magari si son consorziati per donare il prodotto alla comunità.

Volto le spalle e mi accingo a continuare il lavoro.

La stradina centrale inghiaiata misura due passi e mezzo per ventuno più un palmo. Dal muro di sinistra a quello di destra ci son gli stessi numeri. Comincio dal fondo. Inizio dalla casupola con la croce sul tetto. Apro la porta di legno massello e son dentro. La stanza misura 4x5 passi e 16 palmi di altezza all’impostare del tetto. La copertura a capanna misura, al cervello, diciotto palmi + un piede. Le dimensioni e le proporzioni sono interessanti. Dentro ci si sente in pace col mondo. Con tutta probabilità il locale è nato come cappella. Ora di certo non lo è più. L’incuria regna in ogni dove. Il pavimento è in battuto di calcestruzzo avvallato, i muri son d’intonaco scrostato e dal soffitto in legno e mezzane si vede il cielo. In alto sopra alla porta c’è una finestra a mezza luna con inferriata. Nell’angolo in fondo a destra c’è un pozzetto con lapide di cemento prefabbricata. Sopra al lapidino conto otto ceri spenti e un vaso di fiori rinsecchiti. Sotto son sicuro che troverei le ossa dei miei avi. Nell’angolo ci son abbandonate diciotto tegole marsigliesi e tre lapidi di marmo Carrara intonse. Nel muro di sinistra dalla porta ne trovo due (di lapidi … ndr) murate che ricordano due parroci del paese. La prima è del 1894.

Nella seconda  manca l’anno ma ci son tre simboli: “A + Ω”. Dalla parte opposta all’ossario sottoterra c’è una porticina.

La varco e accedo dentro ad uno stanzino di quattro passi per due e mezzo. Sulla parete esterna una finestrina rettangolare, dotata di regolare inferriata ma senza infisso, guarda la vicina vigna. Il locale è occupato per intero da un grande tavolo di pietra sorretto da muri di mattoni sbrecciati. Il tavolo misura palmi 5x10,5 spessore 1/2 piede fuori dalla scarpa. Il piano è leggermente bombato dal centro verso i bordi. Appena prima del ciglio c’è una cornice scavata che contorna il banco. Una croce latina; dipinta in rosso sangue sopra al piano; si intravede appena sotto il sudicio che avvolge tutto l’ambiente. Chiudo gli occhi e mi par di veder le massaie del paese impegnate a vestire la salma. Appena li riapro lo sguardo mi casca sul piano e su quattordici persone allineate in file di quattro con il resto di due. Le figure son catturate a mezzo busto in atteggiamenti tipici del periodo prima della guerra. Son immagini bianco e nero, sfocate e costrette entro un ellisse (una sola è rettangolare … ndr) che riesco a racchiudere dentro la mano.

Decido di acquisire dei ricordi fotografici ma, come al solito, mi confondo con la tecnologia elettronica e va a finire che giro un video di 5 secondi e nove.

Torno sui miei passi e chiudo la porta. I miei piedi stanno calpestando la lapide di un Proposto che se n’è andato qualche anno prima dei Savoia.  A destra e sinistra della cappella si son due colonnati simmetrici di 8,5x2,5 passi. Per ogni porticato ci sono due colonne di 2,5 passi più 1 palmo d’interasse. I pilastri, malamente copiati da un manuale di stili architettonici, son alti 14 palmi dalla base al capitello. Sulla parete di fondo di ogni galleria conto quattro file per dodici loculi cadauna. Quarantotto per due posti da morto quasi tutti occupati. In genere ogni forno conta una persona anche se in diverse ce ne stanno pigiate due e anche tre. Le lastre sono tutte di marmo Carrara meno che nove di Bardiglio, due di rosa Portogallo e una di granito nero del Brasile. Dietro quest’ultima c’è un mio cugino volato in cielo a diciotto anni dopo un brutto incidente d’auto. Li vicino ci son due miei nonni materni e una bisnonna.

Questi due volumi appiccicati alla capanna con la croce sono i più antichi.
Sono anche i meno curati.

Il soffitto e i muri intonacati presentano crepe e fessure. Il tetto geme e gocciola sul pavimento di graniglia. Ho il sospetto che l’acqua si intrufoli anche dentro le casette dei trapassati. Volto le spalle e riconto altri ventuno passi indietro fino al cancello. Qui trovo i fratelli dei novantasei.

Queste due serie di volumi son più recenti.

A sentimento mi sento di stimare il periodo di costruzione intorno alla fine dei sessanta. Oramai sono addestrato al sistema di misurazione. Ho fatto esercizio e mi sento esperto. Via con i passi. Ne conto 8,5 per ogni lato. Per l’altezza mi regolo, al solito, con palmi e piedi. Estendo la mano sedici volte. Poi mi levo la scarpa sinistra e pongo tre piedi uno dietro l’altro. La misurazione mi è resa facile per via di una scaletta di alluminio, dotata di ruote, abbandonata li vicino. Rammento di aver disegnato una roba simile una ventina d’anni indietro. La mia serviva a salire al balcone di casa e doveva esser mobile per via di certi regolamenti comunali sulle distanze dai confini.

Anche questo è uno dei novantanove + novantanove progetti rimasti sulla carta.

Anche questi loculi, come quelli recenti, son dotati una modesta gronda in cemento armato a sporgere in fuori. Ognuna delle serie di camere da morto è disegnata per accogliere 12 file per 5 uguale sessanta per 2 uguale centoventi. Anche qui le lapidi son per lo più di marmo Carrara bianco con qualche incursione nel rosa del Portogallo. Tre quadrati sono uniti in lunghezza a formare una specie di tomba di famiglia dove, in qualche caso, conto anche quattro fotografie. Durante la conta riconosco molti nomi: amici o semplici conoscenti, parenti alla lontana e alla stretta. Tra quest’ultimi due li conosco bene. Stanno nel sistema di sinistra rispetto al cancello: terza fila dal basso, numeri 25 e 26. La prima mi preparava le merende con il pane ricoperto di zucchero e bagnato nel vino. Il secondo mi raccontava le novelle. Son entrambi nati verso la fine del secolo prima di quello passato e trapassati verso la metà dei settanta. Annunziata e Silvio.

Una prece e un minuto di raccoglimento se la meritano di certo.

Ora ritorno al centro del viottolo d’ingresso; spalle al cancellone. A mancina e mandritta c’è il muro di confine. Prima quello di destra che misura 11,5 palmi in altezza. La cinta è costruita in pietrame e mattoni e intonacata a calce. La copertina è realizzata con pezzi speciali di mattoni a sporgere un dito per parte. Nonostante l’evidente mancanza di manutenzione mi vien da annotare che il progettista e il costruttore dell’opera sono stati più bravi e coscienziosi degli ultimi. Alla base della parete c’è un marciapiede pavimentato in semplici mattonelle quadrate di graniglia di un palmo l’una. Sul pavimento son disegnate, in grigio, diverse croci a segnalare altrettante tombe. Sul muro ci son altrettante lapidi murate. Ne conto almeno dodici compreso quelle staccate e semplicemente appoggiate per terra. Queste pietre hanno le forme più diverse. Alcune son rettangolari ma per lo più son disegnate come piccoli e modesti altarini.

Molte di queste son dotate di copertura bombata in lastra di piombo.

Nella loro semplicità e assoluta mancanza della parola design son veramente proporzionate e belle. La parete di sinistra è praticamente speculare sia per dimensioni che per finiture. Al centro esatto della linea dei ventuno passi c’è l’unica cappella gentilizia del cimitero.

È la stanza dei morti dei signori del borgo.

In realtà in paese ci son tre palazzi per altrettante famiglie. Prima della guerra ‘sti signorotti potevano contare qualcosa come una cinquantina di poderi sparsi nel raggio di una quindicina di chilometri dalla piazza della chiesa. Prima del conflitto potevano regnare sopra ad una barca di famiglie di mezzadri; 50x5 di media uguale ad almeno 250 cristiani; più diversi salariati (facciamo 10 per 4 uguale 40 … ndr) senza terra e diversi artigiani; falegnami per i carri, fabbri per le inferriate, muratori per le manutenzioni, servi per la casa e preti per l’anima;  che campavano sull’indotto della fattorie.

Mio nonno paterno era uno di quelli senza terra.
Rammento bene una storia che mi raccontava da piccino.

Poco dopo la prima guerra mondiale si era impiegato,  come operario agricolo, presso uno di quei proprietari di terre. Il tipo aveva certi interessi nella città di Dante e spesso vi si recava. Mi par che avesse un titolo nobiliare tipo Conte o giù di li. Aveva anche un cane di razza a cui teneva moltissimo e che accudiva di persona. Questo animale era; come ci dicono le cronache; bello assai e schifosamente schizzinoso. A pranzo e cena pasteggiava solo con carne della migliore qualità e un pochino di pane cotto a legna. Niente pastoni o pane raffermo o che so io. Bene. Il nobile deve star fuori del palazzo per una mesata almeno e conduce il cane a pensione presso la famiglia dei suoi coloni più fidati. Si raccomanda con il capoccia e la massaia che lo trattino in guanti gialli e lascia alcuni sacchi di farina e diversi quattrini per la carne. Al babbo di mio babbo capitava spesso di passar nelle vicinanze della casa dove l’animale era ospitato. Ci passava per recarsi al lavoro nei possedimenti denominati “Bucallino”. Erano terreni scoscesi e in gran parte boscosi a un par di chilometri dal paese. Ci passava la mattina a buio e la sera tardi, sempre in compagnia dell’amico di zappature. Un tardo pomeriggio di fine estate; sarann stati ventuno giorni dalla partenza del signore; gli viene una grandissima sete e l’acqua nel fiasco era finita. Decidono quindi di recarsi a bussar all’uscio di casa e domandar il permesso di attingerla dal pozzo. Mentre son intenti a trafficar con la mezzina di rame si avvicina una bestiola emaciata e spelacchiata. Il cane è legato ad una lunga catena vicino al pagliaio. I due amici si ricordavano un animale fiero e burbero, fiero e nero, un mastino da battaglia mordace assai e si trovano davanti un randagio pieno di pidocchi. Un fantasma dello Jago che era. Il nonno fa una voce all’Italia e gli domanda ragione dello stato del cane e del: “Come mai non gli è stato dato da mangiare il vitto imposto dal padrone del podere”. La risposta è secca e affilata: “’O Silvio. Ascoltate bene. Ho cinque figlioli piccini e quando si va a tavola apparecchio per quindici. E che volete che noi si continui a mangiar pane e cipolle? E no. La ciccia per questo mese tocca a noi. Alla bestia lascio gli avanzi e un pochino di pane vecchio. Per il resto si starà a vedere”. Il mio avo, avvezzo a subire da generazioni, non crede ai propri orecchi e sbalordito assai cerca le parole per replicare. Ma l’amico lo zittisce con un tocco al braccio e fa: “Guarda adesso che succede”. Tira fuori dalla sacchetta una rossa cipolla rinsecchita e la soppesa nel palmo della mano. Sorride sotto i baffoni e lancia. La scena; ascoltata almeno nove volte dal nonno e altrettante dal babbo; provo a raccontarla al rallentatore per successione di fotogrammi.

Ciak si gira: “Il Foggi lancia. La cipolla prende il volo e volteggia per l’aere. L’arco è lento e, se possibile, ancora più rallentato. L’animale si schiaccia, si tende e spicca il salto. La cipolla scende. Il muso si protende verso l’alto. I due corpi si incontrano a formare un tutt’uno”.

Giù per l’esofago senza passar per le mandibole.
Stop.

La cappella gentilizia che devo rilevare appartiene ad una famiglia molto agiata anche se non aveva raggiunto il titolo nobiliare. Deve essere stata comunque una dinastia importante visto che il casato battezza una strada della vicina città di Masaccio. La tomba di famiglia ha le dimensioni e le proporzioni di una chiesetta di campagna. Per misurarla devo uscire dal recinto dei trapassati. Rammento i miei giovanili passati di arrampicator di muri e mi accingo all’impresa. Già al primo assalto mi convinco che non è scherzo. Son passati almeno 9.999 giorni dall’ultima scalata. Nel frattempo i capelli si son diradati e son diventati grigi, la muscolatura ha perso tono e potenza e se, Dio mi scampi e liberi, getto uno sguardo alla bilancia leggo un numero vicino al novanta. Ne occorrono altri otto per salire in sommità. Mi riposo seduto sul muro e conto i danni: una mano sbucciata, le unghie rotte, la patta dei pantaloni scucita, le ginocchia bisognevoli di disinfettante e cerotti, le ascelle puzzolenti che non vi dico.

Insomma uno straccio pronto per esser strizzato.
È il momento dell’ultima sigaretta.

La fumo soddisfatto dell’azione appena compiuta. Mi cavo una scarpa e c’infilo dentro la mano. Con questo strumento inusuale misuro l’altezza dalla cima del muro all’impostare del tetto in 6 scarpe da ventisette centimetri cadauna. Poi con un salto atterro nel campo di olivi. La guazza mi bagna i piedi scalzi che provvedo a calzar prontamente anche se in ritardo. Con 5 lunghi passi stimo la lunghezza. Ne occorrono 4 per la larghezza. I tre lati esterni son costruiti in pietrame stuccato senza nessun altro tipo di decoro o finitura. Ho finito la cappella dal fuori. Col piffero che mi arrampico di nuovo. In barba a tutti i buoni propositi di poc’anzi rientro dal cancello come un qualsiasi visitatore. Ritorno dentro il primo recinto e assalto il davanti del manufatto. La copertura è a capanna con il manto in tegole e coppi di terracotta. Il fronte è di blocchi squadrati di pietra grigia. L’ingresso è protetto da una robusta porta di metallo con inferriata in ferro battuto decorata. Ai lati ci sono due colonne schiacciate sul muro. Sopra alla porta c’è una grande finestra quadrata, anche questa con inferriata, di 5x5 palmi. Poi nell’ordine trovo: dodici caratteri in rilievo messi in fila a scrivere il nome della famiglia, un cornicione di rigiro in  pietra lavorata, certi strani simboli in bassorilievo, una croce di pietra che si staglia contro il cielo. A destra in alto c’è anche un grande cespuglio d’edera che si arrampica fino al tetto e copre almeno un nono della facciata. Evidentemente anche i signori avrebbero bisogno di un accurata manutenzione. Provo a spingere l’uscio ma il maledetto è solido assai e la chiave si trova chissà dove. Caccio allora la faccia tra le losanghe di ferro della parte vetrata della porta e conto dodici tombe da muro formato standard, un altare apparecchiato con tanto di tovaglia bordata di trine, diversi vasi di fiori freschi e un  crocifisso di legno di buona fattura.

Ecco.
Finito che ho i rilievi dei muri e dei volumi mi resta soltanto il camposanto vero e proprio.

I campi in realtà son due. Simmetrici e speculari rispetto al vialetto inghiaiato centrale. Qui son sepolte le salme dentro semplici casse di legno mancanti di chiusure ermetiche. Qui il regolamento sanitario prevede che i corpi siano attaccati dai vermi e dalle intemperie e pian piano si trasformino in polvere. Qui i cadaveri son rimossi secondo una cadenza trentennale e riposti dentro le urne delle ceneri. Ogni rettangolo erboso è dimensionato per 9 file per 6 uguale 54 tombe. Al momento conto 53 fosse finite oltre a 9 avviate. Per finite intendo quelle dotate di lapide, immagini, scritte e di tutto l’ambaradam. Le avviate son quelle dove stanno le spoglie interrate di fresco. Queste sono normalmente recintate da quattro assi inghiaiate dentro con sassolini bianchi e con una croce di legno al posto della testa. La gente che sta li sotto deve attendere almeno un’annata prima di aver sul capo il sepolcro di pietra. Lo impone  il buon senso e la resistenza del terreno lavorato di fresco. Ci sono poi 13 tumuli di terra con solo la croce di legno. Si tratta di sicuro di persone abbandonate da famiglie lontane che non si occupano più dei loro avi.

I restanti trentatre spazi sono in attesa di altrettanti morti.

Ogni rettangolo misura di media 3 piedi per 8. Per piede intendo una calzatura numero 42 (mocassino estivo scamosciato, colore marrone scuro, marca Geox … ndr) che misura centimetri ventisette. Questo affare lo calzo oggi e lo portavo un anno fa preciso. Era il 9 di febbraio e con questo sistema ho misurato lo scavo della fossa della Dina. Tre per otto per cinque di profondità. E con lo stesso apparato ho dimensionato le proporzioni della tomba della mamma.

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