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Il primo giorno




Il primo giorno | 2005

Ieri mattina pioveva.

Mi sono destato all’improvviso e pioveva a tutta randa. La lama di luce della lancetta della sveglia segnava, con impersonalità, le quattro e cinquantanove.

Avevo battuto il signor tempo di circa novantuno minuti.

La notte era passata lenta in un sonno distratto e tutto sommato non vedevo l’ora di alzar la schiena e il cervello dal materasso. Indubbiamente i consigli degli amici avevano sortito gli effetti desiderati. “… Fatti una bella camomilla e non ci pensare”. Oppure “… e che vuoi che sia … ci sono passato anche io l’anno passato e ti assicuro che non è niente”. E anche “… ricordo che io avevo contato le pecore fino a venticinque e poi tutto un sonno fino alla mattina”.

E allora in un modo o nell’altro la notte era passata nel mentre che il cielo rovesciava la prescritta acqua a catinelle. Mi sono alzato e a tentoni ho raggiunto il bagno a fare le canoniche abluzioni. Poi mi sono sottoposto al rito quotidiano del caffè di casa; quello che esce dalla caffettiera dell’omino con i baffi.

Con la tazza fumante percorro al buio le quattro rampe di scale che mi separano dallo stanzino adibito a studiolo. Il locale è poco più di un ripostiglio di misure due per quattro metri con le finestre alte che a mala pena si traguarda fuori.

Ha le pareti arancio e il soffitto voltato.

Ci sono dentro poche cose tutte di recupero. Un tavolo e una sedia; uno scaffale e una cassettiera; un computer senza stampante e una luce di compagnia. Mi chiudo dentro, apro le finestrelle alte e brucio la prima bionda. Passo il tempo che mi resta prima che la casa si desti. Devo ingannare ancora novantuno minuti. E li inganno nella lettura degli appunti del corso. Li leggo e li rileggo. Li ripeto e li ripeto. Fino a che mi pare di conoscere ogni curva e ogni ricciolo delle lettere che compongono lo scritto.

Fino alla nausea.

Per fortuna la campana della chiesetta del poggio di fronte mi avverte che è ora. Sono le sei e trentuno ed è ora di svegliare gli altri. Ci si prepara secondo ritmi e tempi collaudati e finalmente siamo pronti ad affrontar la giornata. Pronti loro e pronto io ad affrontare il mio primo giorno di scuola.

Ci si saluta in fretta, un bacio e una carezza e via.

Siccome abito una casa a torre che siede in cima ad un poggio di fronte ad un piccolo paese mentre invece la mia scuola si trova in una grande città distante sessantuno chilometri mi tocca prendere la macchina. E poi visto che tra noi di casa e loro di scuola c’è di mezzo una strada sempre intasata mi tocca partire per tempo. Parto un paio d’ore prima dell’inizio della lezione che mi pare inizi alle nove e trentuno.

Ultimamente mi succede spesso.

Parto presto e poi mi si fa tardi. Rammento un personaggio di un grande attore; quel giovane romano che deve partire con la corriera per andare dalla mamma al mare e poi incontra la spagnola carina e la ospita in casa e poi lei fa la doccia e lui prepara il mangiare e poi … eccetera. Chi non se lo ricorda.

Anche a lui gli si faceva sempre tardi.

Insomma parto con la macchina e poi come è e come non è mi succedono tutte. Prima c’è da fare la benzina. Poi da controllare la pressione delle gomme. Riparto e dopo centouno metri la spia dell’olio lampeggia. Allora mi tocca fermarmi all’officina. Poi un altro caffè e ancora mi mancano le sigarette. Sono le otto e quarantuno e ancora devo imboccare la strada che si intasa.

E poi oggi piove come dio la manda.

Pare che improvvisamente tutti gli abitatori del cielo, angeli compresi, si siano messi a fare i loro bisogni.
La strada che si intasa poi non vi dico. È come se tutte le persone si fossero messe in marcia alla stessa ora per andare nello stesso posto. Come quando si fanno le partenze intelligenti per le vacanze di agosto. In qualunque momento parti. Basta che parti. Trovi code. Ecco oggi è un giorno siffatto. Una coda unica fino alla città della scuola.

Ma finalmente arrivo.

In ritardo di ventuno minuti ma ci sono. Arrivo al capannone che ospita la scuola e parcheggio nel piazzale. Mi fanno compagnia le auto degli altri scolari. Entro trafelato nel corridoio e domando dell’aula quattro. La portiera mi indirizza verso una porta e sono dentro. La stanza è grande e molto alta. La scuola è ricavata unendo due o tre capannoni di una manifattura in disuso. L’interno è gradevole e contemporaneo. Il pavimento è in cemento lisciato e le pareti di intonaco bianco. Il soffitto è voltato e la luce proviene da lucernari che non si possono oscurare. Ci sono sedie per ottantuno persone oltre che una serie di tavoli che individuano la cattedra dove starà l’insegnate.

Entro e mi avvicino agli scolari.

Sono ragazzi di venti anni e poco più. Io che ho da poco passato i trenta mi sento un po’ a disagio e quindi mi metto in un angolo a ripassar gli appunti.
Intanto la stanza si comincia a riempire. Da trenta si passa a trentuno e poi a trentacinque e via e via fino ad una cinquantina. Ma intanto sono anche arrivate le dieci e la lezione doveva essere già iniziata.
E nel mentre mi domando che fine ha fatto l’insegnate mi si avvicina una ragazza.

Lei mi dice buongiorno e io gli dico buongiorno.

Poi mi dice una frase che sul momento mi lascia perplesso. “… mi scusi ma non sarebbe l’ora di iniziare?”. E io “… iniziare?… iniziare cosa?”. E lei “… iniziare la lezione … oggi è il primo giorno”.
E improvvisamente, perdindirindina, realizzo.
Sono io il professore.
E oggi è il mio primo giorno di scuola.

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