La compagnia |
2005
Si stava facendo
tardi.
Tardissimo.
Come al solito
il gruppo era stato all’altezza della situazione e degli impegni. Ma sempre e
perennemente in ritardo. Arnolfo stava ancora disegnando e cambiando; di nuovo;
i disegni delle facciate nel mentre che Leonardo montava il modello in cipresso
scala uno a duecento. Meno male che c’era Caterina che; impavida e sicura;
sfornava a tutto spiano dettagli di panche e pavimenti, cornicioni e lesene,
luminarie e frontoni. E poi lo Scheggia che riusciva a far girare il deposito
sottoterra delle carrozze. Inoltre devo fare un plauso ai ragazzi collaboratori
che stavolta erano stati scelti proprio bene.
Al bacio direi.
Ma ora bando
alle chiacchiere che c’è da confezionare il pacco del progetto finito e
rappresentato. Le idee se ne stanno ormai ferme e fissate sui fogli. Riga e
squadra e compasso. Inchiostro di china per le linee e carboncino per le
sfumature su bella carta pergamena tirata a mano. La compagnia aveva ormai
partecipato a molti concorsi. E in tutti c’era l’usanza di consegnare i disegni
arrotolati e fissati ai bordi con bolli di ceralacca.
La novità di
questo era la mostra .
Il bando di gara
prevedeva infatti l’esposizione dei progetti e dei modelli sotto la Loggia de’
Lanzi perché il popolo tutto potesse partecipare alla scelta di quello migliore
e più appropriato al luogo. E allora c’era bisogno di disegni fissati su assi
di pioppo maschiettate. La colla era stata preparata fortunatamente la sera
prima.
Ora bisognava
preparare il pacco.
Il maestro chiamò
gli allievi occupati alle solite finiture dell’ultima ora: “… ragazzi basta.
Quello che s’è fatto s’è fatto … ‘gniamo che l’ora della consegna si avvicina.”
E Arnolfo: “… aspetta un minuto che cambio ‘sta riga e cancello quest’altra”. E
il capogruppo: “… te tu sei sempre il solito Di Cambio. Sempre in ritardo.
Sempre a finire all’ultimo tuffo. Basta che ora si deve fare il pacco e correre
a consegnare. Ora si incolla”. E ancora “… e tu Caterina l’ hai comprata la
carta da pacchi?” E lei: “… si maestro e del tipo che volevi tu. Quella
marroncino chiara. E poi ho preso anche del cartone spesso per proteggere gli
angoli delle tavole”. “Brava …” – fece il capoccia nel mentre che strappava da
sotto le mani di Arnolfo la tavola delle vedute prospettiche – e poi: “… e tu
Scheggia comincia a distendere la colla sulle tavole mentre Leonardo incolla i
disegni”. Il gruppo si mise velocemente all’opera e in quattro e quattr’otto
incollò le tavole, sistemò i fogli con lo scritto, appoggiò il modello e
preparò il pacco.
Ora mancava da
scrivere il destinatario e, in basso a sinistra, il motto scelto dalla
compagnia.
L’operazione
richiedeva mano ferma e bella calligrafia e allora il compito fu affidato a
all’allievo con il pinzetto, quello basso e simpatico, che adempì celermente
alla bisogna. Il pacco era pronto. Adesso c’era da schizzare fuori dalla
bottega e recarsi al monastero del frate nel palazzo d’angolo accanto a quello
Vecchio. L’allievo con la barba, quello alto e forte, si offrì volontario
insieme alla ragazza con gli occhiali che viene dall’Oriente: “… si prende il
cavallo o il calesse”? “Macché cavallo, quale calesse …” – rispose il
capogruppo – “… ci vò a piedi e ci vado da solo che questi ultimi minuti mi
servono per riflettere e meditare su quanto si è prodotto.” Gli astanti;
interdetti; fecero il segno universale del … vaaaa bene … e mestamente
chinarono il capo all’ordine perentorio del capo.
In realtà il
nostro eroe non aveva bisogno di star solo per pensare sul progetto che ben
conosceva.
In verità voleva
fare quattro passi a piedi per smaltire i postumi della cena, con abbondanti
libagioni, della sera prima. C’era stata proprio ieri sera; il giorno prima del
solstizio d’estate; la festa per la copertura dell’ultima sua opera. C’erano
tutti: i committenti, le autorità e gli operai. Muratori e scalpellini; fabbri
e marmisti; falegnami e pittori, lattonieri e fornaciai; tecnici e dirigenti.
Si era inaugurata la Cupola: “Struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla
da coprire con (la) sua ombra tutti e’ popoli toscani”. Il peposo alla
fornacina l’aveva fatta da padrone insieme al rosso delle vicine colline di
Fiesole. Poi per finire si erano messi a chiacchierare di politica e
dell’ultima consultazione popolare, in compagnia di cantucci e vinsanto, fin oltre
la mezzanotte.
E subito dopo ad
aiutare i ragazzi giù alla bottega per finire il progetto.
Loro se n’erano
andati a dormire alle quattro del mattino e lui si era disteso, a cercar
riposo, sopra alla panca d’abete dell’ingresso per alcune ore sul far del
giorno. Ma era stata dura: un continuo rivoltarsi, a cercare la giusta
posizione, fino all’arrivo degli allievi. E ancora si sentiva alquanto
aggravato nonostante i quattro passi all’ombra dei vicoli intorno alla
Cattedrale della Vergine del fiore.
Il pacco era
pesante e continuava a scivolargli dalle mani.
Meno male che
Caterina aveva pensato agli angoli di cartone. Ma adesso era vicino alla meta.
Svoltò in fretta l’angolo e imbucò il portone di quercia del monastero di fra’
Guittone d’Arezzo. Salì a due a due i gradini della scala di pietra serena e,
trafelato, si trovò di fronte alla porta della consegna. E nel mentre che
apriva l’uscio il batacchio della
campana di bronzo della Badia si mosse una sola volta.
Dong! Le una
dopo mezzogiorno.
Preciso entro il
tempo massimo concesso dal bando. Messere Filippo Brunelleschi; architettore
della compagnia; consegnò il pacco.
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