Lettori fissi

29/04/21

Gram Michele

Gram Michele | 2007 Il progetto della piazza viene da lontano. Inizia nelle aule dell’università, si delinea per una tesi di laurea e si esplicita per un concorso nazionale a cui parteciparono, dieci anni secchi or sono, centosettantacinque proposte. Il concorso premiò il progetto denominato “il camino del sole … gli spazi del giorno” qui di seguito raccontato. Le città fondate di sana pianta hanno sempre solleticato la fantasia degli architetti. E Grammichele è una città ideale; immaginata nel 1693 dal Principe che presta il suo nome alla piazza; sorta dopo il catastrofico terremoto che rade al suolo l’antico abitato di Occhiolà. Il gruppo del progetto continua ancora a credere che il Mestiere sia una via lunga e difficile; fatta di notti perse a studiare, di giorni di festa adoprati per mettersi in pari, di anni per imparare a disegnare; per cercare -come diceva J. L. Borges [grande raccontatore di fantastico]- “... la via dei sentieri che si biforcano...” ; per riannodare il filo [del pensiero] e trovare il progetto in quel luogo e per quel luogo con un approccio ogni volta esclusivo e aderente alla città. Il progetto quindi, alla ricerca dello più profondo spirito del luogo, si muove su diversi piani collegati da intrigati percorsi di fili arrugginiti e luccicanti, emozioni e logica, disegno manualità. Così che abbiamo scelto la strada della semplicità. La grande piazza esagonale; il suo punto centrale generatore della forma, la trama urbana con le strade a raggiera che si dipartono dalle mediane dei sei lati e individuano i sestieri, il sole che è sempre presente in questi luoghi e scandisce la vita della gente, la presenza della chiesa Madre che rompe il tessuto viario, la continuità delle facciate e l’amore per la città hanno costituito i punti di partenza della ricerca. La pietra lavica del vicino vulcano con la sua fitta trama; le sei strade che pervengono entro la piazza e circumnavigano il centro, i minimi elementi di arredo, i paracarri o fittoni in pietra bianca con dentro le lampade per l’illuminazione a raso della piazza, le sedute che circondano le aiuole delle palme, gli apparecchi illuminanti in metallo, il raddoppio-ribaltamento delle navate della chiesa sulla piazza, la scultura del principe e il complesso disegno dell’orologio solare con i solchi sulla pavimentazione costituiscono i fondamentali elementi del progetto. Il Gnomone in bronzo al centro dell’impianto attende i primi visitatori.

22/04/21

Arti grafiche

Arti grafiche | 2003 La città di San Giovanni Valdarno è fondata dalla Repubblica Fiorentina sul finire del XIII° secolo. Lo studio dell’impianto urbano è evidente nel disegno degli assi viari e dei lotti; nel perimetro murario e nel rapporto tra i pieni e vuoti; tra lo spazio pubblico e quello privato. Il progetto recupera un luogo pubblico ai margini del centro storico e un edificio privato che ingloba una parte del recinto urbano. Il contenitore; ancora adibito fino ad alcuni anni or sono a mattatoio comunale; si estendeva fin oltre la cinta muraria coprendo indifferentemente il lotto. Una prima opera di demolizione; agli inizi degli anni novanta; è stata effettuata dalla precedente proprietà pubblica. Il privato committente finale ha terminato l’opera di recupero realizzando un laboratorio di arti grafiche con annessa sala espositiva e uno spazio pubblico. La parte pubblica, poi ceduta alla comunità, è stata costruita preferendo realizzare un opera piuttosto che partecipare ai prescritti oneri legislativi. Il laboratorio si estende nei quattro grandi locali oltre le mura; nella grande sala espositiva e nei locali di servizio tutti distribuiti al piano terra. Da una parte un’attenta opera di restauro e dall’altra un ri-disegno contemporaneo per il riuso dello spazio. Si ripristinano le coperture e si realizzano nuove pavimentazioni in calcestruzzo finito a resina con inserti in lastre di pietra recuperate; si portano in luce le tracce sotto i paramenti trecenteschi e si posano nuovi infissi. Da una parte il restauro del fronte di ingresso e dall’altra il progetto del fronte prospiciente il nuovo luogo pubblico. L’intervento realizza la ri-apertura di un vicolo pedonale tra due strade e individua una piazzetta sotto strada; in quota con le nuove aperture; di forma esagonale allungata con panche e sedute; rampe e scale; aiuole a verde e una fontina angolare in pietra. Nel recupero della buona tradizione e nel solco del contemporaneo sviluppo sostenibile non si butta via niente e quindi tutti i materiali dello spazio pubblico provengono dalle demolizioni di cantiere. Nel convincimento che il connubio arte-architettura è fondamentale al recupero di spazi pubblici il basamento in pietra serena , al centro della piazzetta, porterà in sommità una piccola opera in bronzo dell’amico Lorenzo Bonechi; artista recentemente scomparso.

15/04/21

Trentadì

Trentadì | Calendario perpetuo | 2000 Trenta dì conta Novembre con April, Giugno e Settembre, di ventotto ce n'è uno, tutti gli altri ne han trentuno

09/04/21

La centrale

 

Veduta nel paesaggio, 2012. Ph Sandro Antichi

La centrale termoelettrica di santa Barbara, 1954-58 | 2012

 

La storia della centrale termoelettrica di Santa Barbara è una questione di disponibilità energetica.

 

L'Italia del secondo dopoguerra ne ha un disperato bisogno. Soprattutto di quella elettrica per le case, gli opifici e le città. A tale scopo, nei primi anni cinquanta, alcune organizzazioni promossero accurate ricerche sui ricchi giacimenti di lignite di Castelnuovo dei Sabbioni nel Valdarno aretino. Questi giacimenti erano conosciuti   e sfruttati parzialmente fin da tempi passati anche per ricavarne energia elettrica per mezzo della vecchia centrale dei primi del novecento. Le prospezioni geologiche sulla capacità mineraria dei terreni e gli studi tecnologici sui moderni metodi di coltivazione dei giacimenti orientarono l'investimento verso la costruzione di una centrale termoelettrica di grande potenza; in origine 250 MW; alimentata dalla lignite estratta dalle limitrofe miniere a cielo aperto.

 

La Società  Elettrica  Selt-Valdarno e  la  Società  Romana  di  Elettricità  individuarono  il sito collocandolo  in  una  vasta  area pianeggiante prossima all'abitato  di Meleto Valdarno e al villaggio minatori di Santa Barbara. L'ubicazione fu scelta incrociando diversi parametri tra i quali:  la vicinanza con la miniera  e quindi  la facilità  di approvvigionamento  del combustibile,  l'ottimo sistema di comunicazioni sia stradali che ferroviarie e la buona interconnessione con la rete elettrica nazionale di trasporto dell'alta  tensione. Per il necessario approvvigionamento idrico venne appositamente  realizzato l'invaso di San Cipriano capace di ben tre milioni di metri cubi.

 

La commessa, il coordinamento generale, il progetto esecutivo e la direzione dei lavori dell'intero impianto fu affidata, nel 1954,  a S.A. Brown, Boveri & C. di Baden (CH) a cui si unirono poi la Babcock & Wilcox di Oberhausen (DDR) e la Tecnomasio Italiano  Brown Boveri di Milano. Per il progetto delle opere civili fu scelto lo studio di Riccardo Morandi; un ingegnere di poco più di cinquant'anni nel pieno della maturità professionale.

 

"Dal 1950,  anno che dà inizio al periodo più fecondo della sua attività, adottò diversi sistemi costruttivi:  per i viadotti autostradali,  la travata isostatica fu reputata la più idonea a coprire lunghi tratti, spesso in curva e con scarsa disponibilità  di spazio in altezza. Il ponte di Gornalunga, presso Enna, rappresenta  l'esempio di maggiore luce libera, mentre il viadotto sull'autostrada  del Sole, in prossimità di Bologna, lungo complessivamente  più di un chilometro, si caratterizza  per i lunghi sostegni verticali disposti in fasci, che conferiscono all'opera un effetto chiaroscurale di notevole interesse."(1)

 

In quegli anni realizza o sta lavorando a diverse commesse tra. le quali: la centrale termoelettrica di Civitavecchia e a quella di Fiumicino nei pressi di Roma, l'autorimessa  delle corriere e il ponte Amerigo Vespucci di Firenze. E insomma un professionista  di successo e un poeta del cemento armato che negli anni a venire avrà svariati e importanti  riconoscimenti  in Italia e all'estero  ottenendo la libera docenza in alcune università  oltre al privilegio di lavorare con Oscar Niemeyer(2) uno degli architetti fondatori dell'architettura contemporanea.

 

Tra la fine del '54  i primi del '55 Morandi lavora al progetto della Centrale: al fabbricato principale collegato alla caldaia, ai corpi di fabbrica minori, alle ciminiere alte 100 metri e alla due torri di refrigerazione. l due corpi in cemento armato sono enormi. Le torri a ventilazione naturale; di pianta circolare e di forma iperbolica misurano alla base 65 metri e sviluppano un'altezza di 80. L'interno è magico. Lo spessore delle pareti segna 15 centimetri. "L'acqua da raffreddare, proveniente dalla centrale, viene distribuita in un sistema di canalette di legno a circa 10m.  di altezza"(3) . Il liquido finisce nella vasca di raccolta alla base dell'edificio e guarda in alto la grande apertura  per il vapore. All'edificio principale alto 25 metri, destinato a sala macchine e diviso in tre settori paralleli, si agganciano i vari corpi necessari al funzionamento della struttura. 

 

Tutto l'opificio è un enorme e molto complesso macchinario dove la forma, come si diceva un tempo, segue la funzione e diventa segnale territoriale in cui "l'architettura-segno"(4)  modifica il paesaggio.

02/04/21

L'ho rifatta

 




L’ho rifatta | 2020 - 21

 

È sabato.

 

Mattina uggiosa di fine gennaio dove la fitta pioggia la fa da padrone mischiando case, cose e persone in un'unica poltiglia grigia. Anche i vestiti dei viandanti, solitamente sgargianti e colorati nella città del giglio, sono organizzati sui toni del grigio verde o del marrone bosco.

 

Che uggia.

 

Arrivo per tempo in stazione. Il mio amico Giovanni mi aspetta in testa al binario. Son molti anni che non ci vediamo e quindi profittiamo del tempo a disposizione per una passeggiata nei dintorni. A braccetto come due vecchi fidanzati c’incamminiamo per un giro tra solidi pilastri ed esili pensiline. Ci perdiamo nella calca della galleria di testa e ci ritroviamo in sala biglietteria presso l’uscita davanti al didietro della basilica di Santa Maria Novella. Ci salutiamo proprio sotto la pensilina promettendoci amore eterno.

 

Mentre m’incammino verso il sottopasso traguardo l’orologio sul muro in alto.

 

L’elegante carattere allungato, tipico del tempo della costruzione, racconta che sono in devastante anticipo. Nel timore di far tardi è andata all’opposto. Ho una festa alle dodici e son neanche le dieci. Con gli altri compagni ho appuntamento per le undici e diciassette precise – “Mi raccomando puntualità; non come l’ultima volta” - in piazza davanti al portico dell’ospedale degli Innocenti. E se mi ricordo bene dai tempi degli studi è molto probabile che almeno un paio se la prendano comoda oltre il lecito.

 

La soluzione mi è di fronte.

 

Esco in piazza dell’unità Italiana di fronte al Majestic e prendo per San Lorenzo. In sostanza ho scartato il caffè di un anonimo bar per turisti in favore di una lunga camminata dentro l’architettura. Una specie di zingarata senza meta e senza paura a riveder palazzi e strade, fittoni e bugnati. Un poco come succedeva al tempo degli studi ogni volta che arrivavo al Tredici; carrozza dodici quella che viene dalla città di Masaccio.

 

Pochi passi e son fuori.

 

Rammento i miei anni di studente pendolare, ma anche dopo, soprattutto per quella ventina di minuti che sempre mi concedevo in giro a zonzo per Firenze. Al tempo degli studi. per uno strano scherzo del destino o che altro, non avevo stretto molti rapporti in treno e in valle non avevo amici che si occupassero di muri e tetti, abitazioni e paesaggio. Fors’anche ero solitario di natura o magari avevo solo voglia di star per conto mio ad ascoltare il rumore della storia. Sapevo per certo che per tutto il giorno mi sarei sbattuto con gruppi di lavoro e rumorosissime revisioni e magari nell’inconscio mi concedevo un poco di pace. Come sia queste scorribande erano quasi esclusivamente in solitaria e di estrema goduria mentale. L’itinerario cambiava giorno per giorno secondo l’umore del camminatore.

 

Così anche stamattina.

 

Davanti al Cinese; ops adesso è diventato un giapponese, di via del Melarancio ho già operato il reset alla memoria e riesumata la planimetria del centro mandata a memoria a suo tempo. “Sei pronto? -mi dico- “Son nato pronto” -mi rispondo-. In pista sotto la pioggia protetto da un leggero piumino verde ramarro con cappuccio incorporato. L’ombrello viola attaccato alle cinghie dello zainetto grigio e consunto dall’uso. Mi sento un poco lo studente di allora anche se gli anni e i capelli fuggiti raccontano il contrario. Manca solo la cicca in bocca che, perdindirindina, ho rinnegato una decina d’anni fa.

 

La stessa atmosfera del mio primo giorno universitario. Pioggia compresa.

 

Di questi giorni e passeggiate me ne son toccate in sorte moltissime. Tante quante non provo neanche a contare. Ne rammento alcune raccontate, ma non da me, durante le tue lezioni del venerdì. I primi anni al piano terra del cortile degli Alberoni in piazza Brunelleschi. Poi dopo all’Accademia, sempre al terreno, in aula Minerva; quella con gli eroi in gesso a grandezza naturale e una curiosa fessura in alto sul soffitto a botte. Al tempo qualcuno sosteneva, chissà se a torto o ragione, che trattasi di taglio fatto operare dal Fattori, che aveva studio proprio sopra, per transitare le grandi tele che doveva produrre.

 

L’aula mia preferita. Senza dubbio alcuno.

 

Come sia ne ho in mente una che si ripeteva, mai uguale, ogni anno. Di solito verso la fine di gennaio o i primi del mese dopo. Era una roba troppo intrigante; più una chiacchierata che una lezione. Si rivolgeva genericamente ai camminatori in città ma soprattutto ai pendolari. Quindi si occupava soprattutto dei percorsi possibili dalla Stazione ferroviaria fino alle sedi universitarie. Molteplici i luoghi di arrivo e altrettanti i tracciati percorribili.

 

Temi molteplici.

 

Palazzi, cattedrali, luce, scarti, decori, logge, piegature, altezze, vetrate, portoni, pietre, modanature, ombre, velature, angoli, fittoni, portici, altane e molto altro. Dall’insieme al dettaglio e viceversa passando, spesso, da altre discipline. Architettura insomma. Raccontata senza uso di immagini o disegni. A braccio e via. In soggettiva con la camera incastrata nelle pupille e il Vhs nella corteccia celebrale per acquisire immagini e partorire sensazioni.

 

Lezioni di livello superiore; super Studio?

 

Nel corso degli anni, dopo l’ottantacinque, non ne ho persa una. Una volta ho provato a farci mente locale e contarle. A dieci mi son fermato. Se qualcuno si fosse divertito a disegnare i tracciati; io mi ci son baloccato; ne sarebbe uscita una mappa labirintica e fantastica. Intrigata quanto basta per ricordarsi di rileggere “Il giardino dei sentieri che si biforcano”. Tanto non fa male. Anzi.

 

Oggi sono di nuovo in pista e provo a guidarvi come un navigatore ubriaco.

 

“Lasciate stare fashion, food e ninnoli vari e concentrativi sul percorso che avete scelto. Ad ogni incrocio orientate lo sguardo. Se avete tempo rallentate il passo e fatevi un giro dell’isolato. Se avete fretta e dovete andare fatelo al ritorno che di normale merita. Se andate in Brunelleschi prendete per via Alfani dove oltretutto trovate una buona libreria d'architettura. Se venite all’Accademia sempre avanti. Oppure nelle succursali sparse poco intorno e anche nella nuova sede, questa più vicina ai viali, di santa Verdiana proprio di fronte al mercato di sant’Ambrogio”.

 

Se poi riuscissimo a decidere giorno e ora potrebbe diventare un bel gioco.

 

Per esempio il ventuno di marzo presso la Stazione ognuno munito di bomboletta di vernice spray, solubile all’acqua, del colore più amato. Alle dieci si parte per sentieri diversi. Ogni tredici passi uno spruzzo e cosi andare fino alla fine, ognuno decide dove, del percorso. Tutti i punti dello stesso colore disegnano un tracciato, come Pollicino con le molliche di pane. Tanti Pollicino formano un intreccio.

 

Dall’alto si legge tutto.

 

Se fossi un adolescente alzerei in volo un piccolo drone con telecamera ad alta risoluzione. Se viceversa fossi un nerd sui venticinque potrei giocare con il satellite della Nsa che passa qui sopra in questo preciso momento. Nei due casi, o in molteplici altri che ci possiamo inventare, osserverei dall’alto il dedalo di vie e viuzze, piazze e vicoli e altro.

 

Insomma la veduta zenitale di una serie di labirinti contrapposti.

 

Tanti tracciati come quelli che ho percorso nelle due ore passate. Mi son fatto prendere la mano e adesso, di regola puntuale e anzi anticipatore, sono in ritardo abissale di quaranta minuti e spiccioli. Entro in Piazza quando le campane della Basilica suonano il primo dei dodici. Gli amici, con cui avevo appuntamento sotto il cavallo di Ferdinando primo, sono andati da un pezzo e chissà se, nella calca che mi fa da tappo all’ingresso, riuscirò ad incontrarli. Sblocco il telefonino che m’informa della suoneria disattivata e delle vostre sette chiamate perse. Al solito mi dò dello sprovveduto e anche di peggio. Sotto il portico i tocchi son diventati undici. Al dodici apro il portone. Ciao Professore; chissà se faccio in tempo a raccontarti che l’ho rifatta?

 

La strada.

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...