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09/04/21

La centrale

 

Veduta nel paesaggio, 2012. Ph Sandro Antichi

La centrale termoelettrica di santa Barbara, 1954-58 | 2012

 

La storia della centrale termoelettrica di Santa Barbara è una questione di disponibilità energetica.

 

L'Italia del secondo dopoguerra ne ha un disperato bisogno. Soprattutto di quella elettrica per le case, gli opifici e le città. A tale scopo, nei primi anni cinquanta, alcune organizzazioni promossero accurate ricerche sui ricchi giacimenti di lignite di Castelnuovo dei Sabbioni nel Valdarno aretino. Questi giacimenti erano conosciuti   e sfruttati parzialmente fin da tempi passati anche per ricavarne energia elettrica per mezzo della vecchia centrale dei primi del novecento. Le prospezioni geologiche sulla capacità mineraria dei terreni e gli studi tecnologici sui moderni metodi di coltivazione dei giacimenti orientarono l'investimento verso la costruzione di una centrale termoelettrica di grande potenza; in origine 250 MW; alimentata dalla lignite estratta dalle limitrofe miniere a cielo aperto.

 

La Società  Elettrica  Selt-Valdarno e  la  Società  Romana  di  Elettricità  individuarono  il sito collocandolo  in  una  vasta  area pianeggiante prossima all'abitato  di Meleto Valdarno e al villaggio minatori di Santa Barbara. L'ubicazione fu scelta incrociando diversi parametri tra i quali:  la vicinanza con la miniera  e quindi  la facilità  di approvvigionamento  del combustibile,  l'ottimo sistema di comunicazioni sia stradali che ferroviarie e la buona interconnessione con la rete elettrica nazionale di trasporto dell'alta  tensione. Per il necessario approvvigionamento idrico venne appositamente  realizzato l'invaso di San Cipriano capace di ben tre milioni di metri cubi.

 

La commessa, il coordinamento generale, il progetto esecutivo e la direzione dei lavori dell'intero impianto fu affidata, nel 1954,  a S.A. Brown, Boveri & C. di Baden (CH) a cui si unirono poi la Babcock & Wilcox di Oberhausen (DDR) e la Tecnomasio Italiano  Brown Boveri di Milano. Per il progetto delle opere civili fu scelto lo studio di Riccardo Morandi; un ingegnere di poco più di cinquant'anni nel pieno della maturità professionale.

 

"Dal 1950,  anno che dà inizio al periodo più fecondo della sua attività, adottò diversi sistemi costruttivi:  per i viadotti autostradali,  la travata isostatica fu reputata la più idonea a coprire lunghi tratti, spesso in curva e con scarsa disponibilità  di spazio in altezza. Il ponte di Gornalunga, presso Enna, rappresenta  l'esempio di maggiore luce libera, mentre il viadotto sull'autostrada  del Sole, in prossimità di Bologna, lungo complessivamente  più di un chilometro, si caratterizza  per i lunghi sostegni verticali disposti in fasci, che conferiscono all'opera un effetto chiaroscurale di notevole interesse."(1)

 

In quegli anni realizza o sta lavorando a diverse commesse tra. le quali: la centrale termoelettrica di Civitavecchia e a quella di Fiumicino nei pressi di Roma, l'autorimessa  delle corriere e il ponte Amerigo Vespucci di Firenze. E insomma un professionista  di successo e un poeta del cemento armato che negli anni a venire avrà svariati e importanti  riconoscimenti  in Italia e all'estero  ottenendo la libera docenza in alcune università  oltre al privilegio di lavorare con Oscar Niemeyer(2) uno degli architetti fondatori dell'architettura contemporanea.

 

Tra la fine del '54  i primi del '55 Morandi lavora al progetto della Centrale: al fabbricato principale collegato alla caldaia, ai corpi di fabbrica minori, alle ciminiere alte 100 metri e alla due torri di refrigerazione. l due corpi in cemento armato sono enormi. Le torri a ventilazione naturale; di pianta circolare e di forma iperbolica misurano alla base 65 metri e sviluppano un'altezza di 80. L'interno è magico. Lo spessore delle pareti segna 15 centimetri. "L'acqua da raffreddare, proveniente dalla centrale, viene distribuita in un sistema di canalette di legno a circa 10m.  di altezza"(3) . Il liquido finisce nella vasca di raccolta alla base dell'edificio e guarda in alto la grande apertura  per il vapore. All'edificio principale alto 25 metri, destinato a sala macchine e diviso in tre settori paralleli, si agganciano i vari corpi necessari al funzionamento della struttura. 

 

Tutto l'opificio è un enorme e molto complesso macchinario dove la forma, come si diceva un tempo, segue la funzione e diventa segnale territoriale in cui "l'architettura-segno"(4)  modifica il paesaggio.

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