Lettori fissi

28/01/21

L'autoradio


 

L’autoradio | 2020

 

Stamani ho portato la macchina in officina.

 

Come se fosse una normale operazione di manutenzione. Almeno questo è quello che ho fatto credere a Lei: la Scenic passo lungo, color grigio sabbia con sfumature dorate, attiva dal maggio duemila quattordici. In realtà l’ho condotta o meglio accompagnata al suo ultimo viaggio su ruote.

 

I motivi sono molteplici e si racchiudono tutti nel numero 472.534; i chilometri segnati sul display. Con tutta la rumba in ordine sparso: gran parte delle spie di pericolo lampeggiano da alcuni anni, Il battistrada delle gomme è talmente consumato che si vedono i filamenti strutturali, gli sportelli cigolano così come gran parte della carrozzeria, il tergicristallo anteriore si è smarrito durante l’ultima grandinata, il serbatoio del gas del sistema di condizionamento si è dotato nel tempo di alcuni fori di aerazione col risultato che all’accensione della ventola circola solo aria calda anche in piena estate, il comando sicurezza bambini è inceppato e quindi le portiere dei passeggeri si aprono solo dal fuori, i liquidi del radiatore e della coppa sono ormai agli sgoccioli e chiedono a gran voce “aggiungi – aggiungi – aggiungi”, la ruota di scorta è uscita dal suo alloggio sotto i sedili supplementari e adesso saltella allegramente tra bagagliaio e sedili, il sistema elettronico del freno a mano non funziona dall’Olimpiadi brasiliane  e a volte durante la stagione fredda  rimane bloccato, lo sportellino del serbatoio si è fidanzato con la pompa della stazione  di servizio di Rovigo e il resto lasciamolo perdere.

 

Casomai merita un pensiero il motore.

 

Intorno ai trecento trentatremila la turbina si riempie d’olio motore e manifesta notevoli problemi di potenza e ripresa. Invece della sostituzione del pezzo mi si propone quella drastica di un motore revisionato e con la metà dei chilometri. Peccato che poi alla fine, dopo un paio di mesi di pene e stridore di denti, ci son voluti altri due motori  e la messa a punto dell’intero sistema per rimettere in pista l’auto.

 

Per la precisione.

 

Prima di scendere mi son ricordato dell’autoradio. Progettavo di smontarla da alcuni giorni ma poi mi son detto che: “Tanto che ci vuole … basta un cacciavite e una forbice ... lo posso fare prima di lasciarla”. Ingenuo. Dopo tredici minuti di maldestri tentativi apro il libretto delle istruzioni dell’apparecchio e scopro con estremo disappunto che questo modello è totalmente sicuro e inattaccabile a qualunque tentativo di asporto, furto o vandalismo che il produttore; fan di Monicelli e per di più nato l’anno di uscita del film; l‘ha battezzata simpaticamente “la Comare”. Assolutamente non asportabile se non previo accesso dal vano motore con rimozione di pezzi vari. Alla fine del paragrafo si consiglia, come minimo, il diploma della scuola Radio Elettra di Torino.

 

“Capperi … sbotto … è talmente sicura che mi tocca lasciarla”.

 

Proprio l’opposto della mia prima. Quelli della mia generazione; adolescenti nei settanta; magari si ricordano. Già dal decennio precedente nelle macchine dei genitori si cominciava a vederne dei modelli, per via dei transistor, ridotti quanto basta per essere installati anche nelle utilitarie dei nostri genitori. Sintonizzazione e volume: due manopole sopra un frontalino con un display centrale a scorrere e alcuni tasti di memoria. Onde medie e antenne lunghissime; i più tamarri le avevano ripiegate dal davanti al dietro. Di solito questi apparecchi viaggiavano accoppiati al magnete con la foto di famiglia e la scritta, in corsivo dorato:“Pensa a noi babbo. Non correre”. Tecnologia e famiglia.

 

Mitico.

 

Naturalmente a quei tempi ce n’erano anche molte senza. In tal caso i guidatori si accontentavano della radio a transistor, con l’antenna telescopica retrattile, da tenere in mano vicino alla testa o tutt’al più con l’auricolare. Tanto bastava per l’ascolto delle partite della domenica pomeriggio. Poi c’erano i Vip anche detti Bellimbusti che; a bordo di spider deca potabili; scorrazzavano sui viali alberati sparando a tutta i successi stagionali con i mangiadischi integrati all’apparecchio. E via tutte le ragazze al ballo con Azzurro, La bambola, Balla Linda e compagnia bella.

 

Che invidia.

 

Solo alcuni anni dopo i settanta rammento di aver visto modelli diversi da quelli del genitore. Uno che ricordo bene presentava, dopo tutti i comandi di una normale radio ricevente, un grosso foro rettangolare dove si inseriva una grande cassetta audio che sparava la musica scelta ascoltata su casse potenti e assolutamente fedeli.

 

Una discoteca su quattro ruote.

 

La tecnologia era entrata a piedi pari dentro il veicolo e l’aveva conquistato. Chiaro che tutto questo nuovo luccichio cominciò ad interessare la malavita di piccolo cabotaggio. Nei parcheggi si cominciarono a notare i primi ladruncoli e i primi vetri rotti con regolare scomparsa di radio e casette. Il lavoro era semplice e senza rischi apparenti: bastava un sasso, un paio di minuti e uno strattone forte. I fili rimanevano attaccati veicolo e la tecnologia volava col mariuolo.

 

Proprio come capitò anche a me.

 

Alcuni anni prima, anche nel nostro paese notoriamente fanalino di coda delle novità elettroniche,  era stata messa a punto la tecnologia con consentiva la modulazione di frequenza; in gergo “effe emme”; e di fatto la nascita della Radio libere. La musica era, come le stazioni radio,  dappertutto. 

 

Anche dentro la mia prima. 

 

Appena dopo la patente mi ero fatto le ossa, ed anche alcune sfregate di carrozzeria,  alla guida della 126 rosso fegato che di normale portava mamma.  Poi arrivò, in esclusiva,  la R4 color sabbia che subito personalizzai con adesivi autoprodotti e l’agognata autoradio acquistata con  la paga di quell’estate impiegato come manovale di cantiere. Il disegno non era particolarmente elegante e anche la marca era sconosciuta; di probabile provenienza coreana; però compreso nel prezzo c’era la novità del momento che ancora non avevano gli amici già autoradio muniti.

 

La slitta per portarsela via.

 

A quel tempo l’invenzione pareva la quadra del cerchio che saltava a piedi pari le beghe del furto: radio, vetro rotto, denuncia ai vigili, rottura di palle in casa,  incazzamenti vari e altro.  E io ero il primo della combriccola che l’avevo.  Un amico carissimo si occupò del montaggio con verifica del funzionamento e dell’estrazione.  Per almeno un mesetto, datosi che ero l’unico, arrivavo al bar direttamente con l’autoradio e la poggiavo sul banco del caffè accompagnato dalla mitica frase - “Il solito”- e dall’altrettanto amichevole augurio  - “Speriamo che te la rubino”.

 

Dai, picchia e mena ad un certo punto il presagio si avverò.

 

Dopo alcuni mesi mi ero stancato di portare in giro tre chili di acciaio, fili e transistor. Il gioco era stato bello ma era finito. Per me e per gli altri. Alcuni si attrezzarono con borse e borselli che, in verità, li facevano sembrare ridicoli con quel peso ciondoloni che sbatteva rudemente sul fianco e a volte produceva escoriazioni e ferite. Allora moltissimi, io con loro, cominciarono a studiare, dopo l’estrazione del ricevitore,  nascondigli alternativi che si ridussero, per le normali utilitarie, a due o tre: sotto il sedile, dentro al cruscotto se abbastanza capiente e munito  di portellino, in zaino militare lasciato a bella posta sul sedile del passeggero facendo conto che eventuale male intenzionato non avesse letto “La lettera rubata”, dentro in cofano motore in apposito scomparto creato dall’amico carrozziere e buon ultimo il vano bagagli.

 

La prima volta usai il sotto sedile.

 

C’era una grande fiera in paese con le giostre, il mercato, ogni genere di leccornie e tanta gente. Ma tanta che non si riusciva mai a trovar parcheggio. A quel tempo tornavo da una giornata di esame ed ero cotto ma avevo appuntamento con l’amata che li stava con il gruppo d’amici. Quindi dopo alcuni peripli della cittadina appoggiai l’auto nel primo posto libero, anche se buio e fuori mano, che trovai. Non potevo certo girare per la festa con la radio e quindi scelsi semplicemente il primo luogo che mi venne alla testa. Spensi la macchina e i fari. Mi guardai intorno con circospezione. Il posto pareva tranquillo e non frequentato. Con un “zic e zac” provai la mossa del mago e andai alla fiera.

 

Al ritorno trovai il vetro posato in terra e il sotto sedile vuoto.

 

Da allora molte altre volte son capitate e altrettante autoradio son volate accompagnando ladri, marioli, rubatori, delinquenti, farabutti, furfante, malandrini, malviventi, manigoldi, borsaioli, borseggiatori, rapinatori, scassinatori, scippatori, taccheggiatori, tagliaborse e chi ne ha.

 

In sintesi alcune di queste con luoghi e circostanze.

 

Firenze; stadio comunale primi degli ottanta. Viola contro Gobbi. Ore 13 in netto anticipo sulla partita ma in tempo per scegliere i quattro posti migliori della Fiesole. Mentre scendiamo ci si passano di mano borse e zainetti e si aprono le portiere compreso il vano dietro. L’idea, come al “gioco delle tre carte” è di confondere eventuali osservatori interessati all’elettronica. La radio è quindi riposta nel portabagagli coperta dal plaid scozzese. Al ritorno si scopre:  serratura forzata e portiera aperta, coperta sotto la macchina e radio in viaggio.

Bari; lungo mare tra Cozze e Mola; millenovecento ottantaquattro.  Con S e T a pesca di ricci. La carreggiata è ridotta dalle auto in sosta che ne occupano una parte. E noi anche secondo lo schema definito “a cazzo di cane”. Ci si spoglia di: vestiti, documenti, pinne fucile ed occhiali. Tutto insomma esclusi i costumi.  Si lasciano in auto a coprire l’autoradio. “Tanto … – dice il nostro ospite – … stiamo giusto il tempo di un bagno. E poi quando vedono l’auto targata Bari non fanno niente.” E infatti al ritorno troviamo la macchina con le cinque portiere aperte. E dentro tutti i vestiti e documenti. Mancava  solo lei. “E vi hanno voluto bene … - ci raccontò il vecchietto seduto li vicino – … di solito ripuliscono tutto tutto”.

Venezia; in una stradina buia e malfamata poco prima di piazzale Roma. Lasciamo qui le macchine per risparmiare sul parcheggio notturno pluriplano. La Ritmo 110 cavalli aveva in dotazione una radio spaziale ultima novità con tanto di musicassette e sei altoparlanti che nascondemmo, al solito, dentro il cruscotto.  Quell’anno novanta il Carnevale era particolarmente ricco di eventi e feste. Eravamo ospiti di certi amici del luogo che si organizzavano in gruppo e si mascheravano truccandosi la faccia. E noi con loro; tutta la notte in giro per “Ombre e cicchetti”; fino all’alba e anche di più.  Alticci e allegri quanto basta per non notare niente di strano fino all’apertura dello sportello quando il vetro in mille pezzi del finestrino dietro comincia a riflettere i primi raggi del sole. Solo allora si evidenzia, appoggiata con grazie sul sedile del guidatore, una pietra sbrecciata e consunta con disegnata l’autoradio con ali.

Il telo di plastica invece del vetro non fu sufficiente nell’Appennino

 

Nel corso dei successivi decenni la tecnica ha evoluto le dotazioni e le strumentazioni dell’apparecchio. Musicassette, woofer, hi-fi, cd, usb, trova stazione, applicazioni le più  fantasmagoriche, info traffico fino alle radio integrate nella plancia di comando dove oramai spadroneggia il computer di bordo con tutti i sistemi di navigazione, connessione senza fili, mappe virtuale, prese Usb, trasmissione digitale e altro. Tutte di nuova generazione.

 

In questo delirio tecnologico combatto da tempo con una  ventenne.

 

Questa è l’età dell’autoradio “Philips DC 614” colore total black con dispositivo di ricerca e memorizzazione canali, svariati tasti di servizio, lettore Cd e frontalino lato destro asportabile.  Totalmente a prova di furto e in perfetta linea con le tecnologie del periodo. Che ha funzionato a dovere fino ad alcuni anni fa quando, all’improvviso e senza dare segni di avvertimento, ha cominciato a far le bizze. All’accensione funziona normalmente. Innesti la marcia e parti. E funziona ancora fino alle prime variazioni della sede stradale. Asfalto ribassato, buca, taglio o dosso tutto fa. Lei tace. Passano alcuni secondi o a volte minuti e riprende a fare il suo mestiere. Altra buca, altra interruzione ed altra ripresa. Come un mantra fuori controllo che funziona a suo piacimento e fa inalberare l’utente che, totalmente imbranato nelle faccende di fili e in verità di molto altro, la conduce all’officina.

 

In realtà dovrei essere più preciso.

 

Sono cinque anzi sei gli specialisti dell’energia elettrica dell’automobile interpellati in tre anni. Elettrauto blasonati con diplomi  e attestati, alcuni anche decorati al valore presso le rispettive Camere del commercio, uno anche laureato a Cipro. Tutti hanno tentato approcci diversi. Chi è sicuro dipenda da un contatto subdolo e maligno, l’altro che sia un difetto di costruzione dell’impianto, uno che possa essere un problema di fusibili e via  dicendo. Il risultato sono con cambi e sostituzioni, tagli e transistor. E fatture pesanti.

 

La meglio è quella del sesto genio della lampada.

 

“Ragazzo lo vuoi un consiglio spassionato? …” 

Io basito; che vado oltre il mezzo secolo e da tempo nessuno mi chiama ragazzo; muovo la testa a significare “Si, grazie”.

Al che rinfrancato il nostro intenditore riprende con : “ … dammi retta ti conviene: Vendi la macchina!”

21/01/21

All'albero rosso del Sodo

 


All’albero rosso del Sodo | 2005

 

L’appuntamento era, come tutte le domeniche, per le sette di mattina all’incrocio dove c’è l’albero.

 

Si ritrovavano insieme oramai da nove mesi; curiosamente il tempo che occorre dall’inseminazione alla nascita; al crocicchio del quartiere. L’appuntamento festivo era una sorta di rito pagano per finire la settimana. La giornata prometteva bene. Il sole del mattino primaverile cominciava a scaldare il corpo e lo spirito. Era il giorno adatto all’ultima riunione della Commissione dell’ornato. Il gran giorno del taglio del nastro e della festa del quartiere.

 

La commissione, formatasi in maniera spontanea e alquanto insolita in questi tempi di villaggi globali ed elettronici dove si incontra su chat la fidanzata ma non sappiamo chi è la persona che incontriamo in ascensore tutte le mattine uscendo dall’appartamento, lavorava oramai da due anni. Il lavoro era servito a organizzare le richieste e a mettere in fila le idee degli abitanti. A incontrarsi con i tecnici dell’amministrazione e con gli architetti. A organizzare la mostra dei lavori e poi sovrintendere al cantiere.

Conoscevano benissimo l’intervento che oggi si bagnava per averlo seguito in maniera pressoché quotidiana durante tutto il corso della passata stagione.

 

Ma però i lavori meritavano un ultimo giro.

C’erano tutti i commissari: Gino il farmacista, Filippo il droghiere, Umberto l’elettrauto, Giovanni il macellaio, Andrea l’imprenditore, Oriano l’operaio, Vanni il barista, Gaspare il prete, Guido il pensionato e buon ultima Lidia la ragazza madre di due piccole pesti.

Iniziarono il percorso dalla Chiesa di via delle Panche.  Il percorso pedonale, in destra alla circolazione delle auto, alberato e ombreggiato da gentili alberelli di  Melo  posti in bell’ordine su due file parallele li accompagnò nella discussione delle notizie fresche di stampa del giornale locale. La squadra della città; tornata nella massima serie l’anno passato; rischiava di scendere nuovamente di sotto e ciò non era ammissibile per i nostri eroi che avevano vissuto i passati tempi del bell’Antonio con le sue splendide giocate e le lotte feroci con la formazione dalla maglie a strisce bianconere.

 

In sinistra al fianco della chiesa la stele di alluminio rosso segnalava l’ingresso al quartiere e raccontava delle attività e delle merci che vi si potevano trovare. La replica di questo oggetto era sparsa in più punti agli altri ingressi dell’abitato; funzionava come una sorta di cartellone pubblicitario con sopra inciso i nomi e i cognomi dei negozi e la sera si illuminava come un lampione.

L’oggetto seriale tentava di rispondere alla dilagante moda, tutta “made in U.S.A., dei centri per il commercio che stavano sorgendo, sempre più, laggiù nella Piana. Voleva essere porta di ingresso al centro commerciale a cielo aperto del Sodo. Una risposta poetica all’aria condizionata delle scatole di cemento piene di sconti e offerte speciali. La spesa sulla strada; com’era la tempo del Vasco -non il cantante della Bassa ma il Pratolini dell’altra sponda dell’Arno- invece della galleria commerciale sul modello inventato dall’altra parte dell’Oceano.

 

Sul davanti della Chiesa; la nuova piazza intitolata al grande Mario poeta e libero pensatore che aveva un tempo abitato questi luoghi; era quasi interamente coperta dal grande velario di tela bianca che sarebbe servito a mettere a tavola le trecento persone previste all’ora del desinare. Le prime massaie arrivavano alla spicciolata e iniziavano i loro compiti. La cucina da campo, gentilmente prestata dalla vicina caserma di Quinto, lavorava a tutto fuoco. Il mangiare prevedeva robe locali. Antipasti misti di crostini neri e salumi nostrali. Ribollita e pappardelle al ragù per i primi. Bistecche con l’osso alte tre dita e cotte alla brace per i secondi. Fagioli zolfini all’olio di frantoio e insalata dell’orto per i contorni. Pecorino del pastore e fave fresche. Pane cotto a legna dal fornaio del quartiere. Vino rosso delle vicine fattorie e acqua di fonte per i beveraggi. Frutta di stagione. Cantuccini col vinsanto e caffè al bricco per finire. Spumante italiano, dolce e secco, per bagnare la festa.

 

Ma continuiamo il nostro percorso. Sul fronte della Chiesa di San Pio decimo e tangente alle scale un percorso carrabile in pietra forte grigia a ricorsi conduce: le macchine alla sosta nel piazzale sul retro e la vista verso le vicine colline.

Il grande alberone, un Cedro piantato appena dopo l’ultima guerra, ombreggiava la seduta rettangolare in travertino bianco di Rapolano. Qui la piazza era scoperta e mostrava la sua tessitura con ricorsi di travertino e campi di pietra marrone rosato. Le bianche panche del viale alberato invitarono alla sosta e alla discussione la Commissione.

I nostri personaggi ricordarono, con piacere i mesi passati. I lavori degli operai e la visita degli architetti in cantiere. Le discussioni sulla posizione dei lampioni e sull’individuazione dei parcheggi per le automobili e degli arredi. Era stato un bell’inverno. Eccitante perché si discuteva del futuro del quartiere e dei loro abitanti.

 

Bello.

 

Ma ora c’era da continuare il percorso e poi da preparare la sorpresa decisa la sera prima. I dieci si erano incontrati il sabato alla nove dopo cena nei locali del consiglio di quartiere e avevano concordato lo svolgimento della festa. Il taglio del nastro era stato deciso dal Comune mentre il desinare del mezzogiorno dalla popolazione tutta. Loro ci avevano messo il tocco del genio. Ricordarono bene le parole del più anziano. Guido il pensionato aveva esordito: “Ragazzi scusate ma devo dire una roba. Va tutto bene. Il taglio; la bottiglia di spumante stappata dal Sindaco; la messa e la benedizione di Gaspare; il mangiare toscano e le bandierine tese tra le case . Tutto bene ma mi pare che manchi qualcosa. Qualcosa che ricordo si faceva quando ero piccino alle feste. Un vecchio gioco che eccitava gli animi e faceva divertire la gente. Non una roba tecnologica tipo gara al computer. Ma piuttosto la corsa dei sacchi. Oppure il tiro alla fune. O meglio la corsa dei sacchi.” Ma tutti bocciarono le sue idee. Allora il nostro se ne uscì con l’idea del genio e riprese: “Ecco. Ce l’ho. Sfruttiamo un oggetto appena piazzato nel quartiere e facciamo un gioco antico. Dopo mangiato; verso le quattro o meglio alle sei che è più fresco si potrebbe organizzare … (ma questo lo raccontiamo da ultimo che altrimenti si perde il sapore della lettura –ndr)”.

 

Si alzarono dalle panche e si recarono all’incrocio disegnato in pianta come uno scudo che ricordava i tempi di quando la città era libero Comune ed estendeva la sua egemonia dagli Appennini al Tirreno; dai monti del Marmo fino alle paludi dei Butteri. Qui il viale alberato si interrompe davanti alla figura pietrificata o meglio, passateci il termine, bronzificata  di un abitante del quartiere. La scultura, come altre sparse lungo le strade, fissa le persone che abitano questi luoghi in momenti della loro vita. C’è l’uomo che cammina e la donna con le borse della spesa; il ragazzo in bicicletta e la persona seduta a leggere il giornale. Le opere vogliono cogliere e fissare sul bronzo uomini e donne semplici in momenti normali della vita. Un quartiere e i suoi abitanti. Ma il giro deve continuare e poi c’è ancora da finire di allestire la sorpresa. Si và verso Sesto lungo via Reginaldo Giuliani. Si cammina verso la fabbrica del vetro. Si và verso la fontina. La fontina è un idea uscita fuori dalle discussioni dell’anno passato. Mutuando un distributore pubblico di acqua controllata e buona per bere già operante al parco dell’Anconella è venuto in mente la richiesta. Andrea, imprenditore e commissario, l’aveva sponsorizzata economicamente e adesso era costruita. Una vasca di pietra bianca altezza ombelico era stata montata nelle vicinanze dell’ingresso della manifattura dei mattoni di vetro. Dentro la vasca una stele in marmo di  statuario Carrara e vetro a spessore fatto da un grande maestro di Empoli, alta un paio di metri, portavre vestito in uniforme da alta parata con il cappello a tesa larga e il pennacchio in cima.

 

E allora perciò era stata nominata “la fontina del carabiniere”.

 

Accanto alla vasca c’era il beccuccio in bronzo, altezza bambino di anni sei, che distribuiva acqua buona per bere, certificata e controllata dai tecnici che gestivano l’acquedotto della città. Dall’altra parte della strada, quasi di fronte alla farmacia, un doppione ridotto della vasca era disegnato come una fioriera con sedute e stele commerciale in alluminio rosso, come le altre all’inizio del quartiere. Gli alberelli di Melo si ripetevano in un filare semplice sul lato della fioriera ed unificavano l’intervento. Panche in pietra con luci incassate per illuminazione radente  e panche in legno per sedere a riposare. I marciapiedi sono disegnati per le persone a piedi; sono allargati e pavimentati in pietra forte grigia di Firenzuola con liste e zanelle in Porfido. Gli stalli delle automobili lungo le strade pavimentati come i marciapiedi. Il travertino bianco a segnare, come un tappeto, i luoghi delle sculture. Lampioni in alluminio rosso in forma di alberi quando viene l’inverno e perdono le foglie. Il tronco, a sezione cilindrica,  si alza per tre metri e poi si divide in tre parti che portano alla fine tre luci in policarbonato traslucido con riflettori in alluminio puro. Resistenza agli agenti atmosferici e al vandalo come di legge. Una luce fatta apposta. Un lampione per il Sodo. Ma questo lo sapeva bene la Commissione.

 

La campana della Chiesa rintocco per sette volte e mezzo e allora Oriano, il presidente,  chiuse la visita e i lavori intellettivi del gruppo. C’era da organizzare la sorpresa. Il furgone dell’Umberto era attrezzato con scaleo della dovuta altezza e scatola dell’attrezzi. Le botteghe di Giovanni e Filippo avevano fornito i premi. Il caffè dal Vanni l’avevano già bevuto prima. C’era da montare i fili di plastica arancione. L’albero rosso del Sodo, altezza metri tre nove fino allo snodo dei rami, era nel mezzo del crocicchio a segnare fisicamente il centro del quartiere e il luogo degli appuntamenti.

 

C’era da andare all’albero.

 

C’era da montare l’albero della cuccagna.

14/01/21

Orme

 

Orme | 2020

Volo. 

Volo perché è il mio mestiere; sia per lavoro che passatempo.  Lo faccio con modalità predefinita come voi che respirate senza pensare di doverlo fare. Non so come e neanche perché ma appena sono operativo devo alzarmi per l’aere e schizzar via. Veloce come il vento.  Mi riconoscete dal rumore caratteristico. Se abitassi un fumetto  l’artista mi disegnerebbe vicino una nuvoletta con dentro “… Zzz … Zzz … Zzz …”.

 

Invece vivo il mondo reale e stamani ho ricevuto un incarico.

 

Me l’ha scritto in faccia e inciso in memoria il mio istruttore: “Mettici il tempo che ci vuole ma trovale”.  Poi mi ha liberato. Per un poco ho vagato sopra alla città godendo della vista dei vostri manufatti e del mirabile rapporto che, soprattutto nei tempi andati, siete riusciti a stabilire tra architettura, natura e ambiente: alberi e piazze, fontane e palazzi, parchi e cattedrali, annessi e connessi.

 

Insomma il paesaggio dell’italico stivale.

 

E per l’appunto stamani sto perlustrandone un pezzo. Più in precisione sono nella parte alta del tacco poco sotto lo sperone. Appena fuori dell’abitato mi son diretto verso il levar del sole. Il mare a poco più di un tiro di schioppo. Rallento sensibilmente per individuare le tozze sagome del Poligrafico.

 

“Click …” rumoreggia il led mentre il colore della speranza mi invade completamente.

 

Il complesso è gigantesco. Le informazioni, caricate in precedenza, raccontano  di una superficie di settanta  ettari , forse anche più, a destinazione produttiva con una ventina di fabbricati e servizi oltre ad una grande area adiacente che misura oltre trenta ettari; adesso incolta e con edifici diroccati;  un tempo adibita a cartiera e durante la guerra, a centro chimico militare per la produzione di gas mortali.

 

Un bel posticino per davvero.

 

Un luogo dove è in atto una grande rivoluzione mentale prima che urbanistica. L’area ove insiste il progetto del mio maestro e dei suoi accoliti. I giochi sono ormai fatti nel senso che idee , disegni e testi sono in gran parte  finiti e difficilmente modificabili . Oddio a dire il vero stanotte l’ho sentito confabulare sul tavolo da disegno. Stava riordinando le ultime idee  - “… lui sostiene che le ultime son le meglio …” – e non s’è accorto di me che lo spiavo con discrezione assoluta. E poi a dirla tutta mi ha conferito, in sottordine, un altro incarico estremamente semplice.

 

“Per piacere mentre stai in volo fai una simulazione virtuale del progetto”.

 

Questo adesso sto facendo. Passaggio lento, acquisizione di file video e sovrapposizione animata del parco. “… Zzz … Zzz … Zzz …” Poi ci caccio uomini e donne, animali e mezzi di trasporto. E come se fossi un regista  del tempo che fu mi faccio esplodere in testa la frase: “Ciak .. si gira”. E la scena si anima. Tutti in movimento compreso gli agenti atmosferici e il resto. Lo spettacolo non ha uguali. È come una pellicola in tre dimensioni proiettata sulla paglia dei campi con in più il fatto che, alla bisogna, ci si può veramente infilar dentro e modificarla. Mi ci balocco per una buona mezzora e poi il “Bip” del tempo quasi scaduto mi avverte dell’ora del rientro. Quindi stacco gli strumenti, serbo la registrazione e via.

 

Tolgo il silenziatore e metto il turbo: “Zoom”.

 

In un lampo lampante sono sul tavolo del laboratorio. Quello in ciliegio, novanta per trecento, col piano scorniciato a becco di civetta. Sono in pausa e in ricarica batteria. Il tecnico mi ha estratto il pezzo di memoria delle ultime ventiquattro ore. Il capo le scorre in modalità “avanti veloce per quattro” fino al primo passaggio volante sui luoghi incriminati. Dopo di ché rallenta i fotogrammi fino ai canonici “24 Fps” in modo da godersi la simulazione animata con gli ologrammi degli umani e dei volatili compreso il Falco grillaio padrone indiscusso di queste terre. Alla fine del filmato spegne il proiettore e si gira verso di me. Ha la faccia sorridente del bonaccione portatore di buone notizie. Scorre verso di me sulla sedia ergonomica dotata di cinque rotelline, joystick ultimo modello, freno a disco e Beretta 25 col colpo in canna. Intanto muta espressione e indossa quella burbera e inalberata della brutte domande. Raddoppia il volume corporeo, grugnisce e si trasforma in qualcosa di mostruosamente cattivo con la pelle verde e tutto quello che potete immaginare.

 

Si avvicina fin quasi a toccarmi l’ala e mi gela l’olio motore con la frase che di seguito riporto.

 

“Caro il mio R2D2 Flying adjascoltami bene e rispondi con precisione. Ricordi il primo ordine? Lascia  perdere il progetto, video, realtà virtuale, ologramma e pennuti: fesserie. Concentrati sul comando iniziale e dimmi del Tratturo. M’interessa solo di quello”.

Adesso c’ho il pallino in mano. Ci vuole una risposta intelligente che mi salvi le eliche e il resto.

 

“Beh. Il tratturo attende  dell’armento le orme”.

06/01/21

E' sicuro?

 

È sicuro? | 2020-21

Babe:     È sicuro cosa?
                Il tono della voce racconta i suoi timori.
Szell:     Sollievo e sofferenza: quale dei due applicherò, adesso dipende unicamente da lei. Quindi ci pensi su e mi risponda: è sicuro?
L’aguzzino srotola un involto pieno di attrezzi odontoiatrici.
Babe :    Ha dimenticato il soggetto della frase.
                Angosciato alla vista di punte, trapani e tenaglie.
Babe :    Non so di che cosa sta parlando, non posso dirle se qualcosa è sicuro se non so con precisione di che costa sta parlando.
Szell:     È sicuro?
Regolando la lampada sul soggetto.              
Babe :    No, non è sicuro, è pericoloso, bisogna che stia attento.
E poi il carceriere impugna quello con la punta ricurva.
Il maratoneta (1976)

 Come un sacco di patate.

Son caduto di schiena come una tartaruga rovesciata. Un attimo fa ero su in alto; circa due metri; in ginocchio sul trabattello usato per pitturare le pareti in casa. Senza parapetto o altra protezione e vestito tipo mare; ciabatte infradito, pantalone corto, maglietta in cotone e cappello da pescatore: un perfetto idiota. E adesso son disteso in terra spiaggiato sul dorso; rintronato, tramortito e tutto un dolore. La campana della chiesa ha appena battuto i due tocchi dopo desinare. Non rammento il giorno ma son certo del resto: è il quindici di agosto del Novantacinque e rischio di passare il resto del pomeriggio disteso sotto il solleone.

Son quantomeno preoccupato.

Il secondo pargolo è nato da poco e il resto della famiglia si trova in camera grande; quella esposta a nord e perfetta nei pisolini estivi; cercando di addormentarlo. Mi rivedo poco fa lassù sul ponteggio intento a stuccare l’architrave della porta del garage. Mi son sporto appena un pochino di più e son venuto giù cadendo sul didietro. Non so come e né perché ma tutto il rumore dell’urto è andato a finire sulla punta dell’osso sacro. Come un lampo lampante.

Stack!

E poi un dolore lancinante sul dietro della gabbia toracica. Provo a chiamare aiuto ma il volume è a zero. Provo a muovere gli arti ma questo peggiora la situazione nelle costole. Tento di accedere alla tasca del jeans dove c’è il telefonino ma poi realizzo che il maledetto aggeggio è in carica alla presa della consolle. I vicini a sinistra sono a bisbocciare sotto le pendici del Pratomagno mentre il resto del vicinato è in vacanza lontano da qui.  Anche i parenti a destra sono fuori valle con amici: in Casentino alla sagra dei funghi. Mi sento veramente male e abbandonato da tutti.

Realizzo di essere solo per almeno le prossime due ore. 

E per ammazzare il tempo, come un presunto condannato a morte, metto in piazza tre pensieri. Il primo è la paura di aver perso l’uso dei comandi della spina con tutte le conseguenze del caso. Il secondo è l’indicibile dolore che provo ogni volta che il dentista mi divarica la bocca per cercar carie con quelle sonde appuntite. E ogni volta mi passa davanti la scena de Il maratoneta. Lo scambio surreale di battute tra dentista e paziente mentre intanto la mia bocca si sovrappone a quella di Babe. Anche oggi mi son visto al cinema. Solo che, causa assenza voce, non posso urlare.

Il terzo dei tre fa un salto indietro di trent’anni.

La scuola è finita da pochi giorni. Ho finito, come al solito senza infamia e manco un pochino di lode, la II media e adesso son qui nel mezzo del niente; un luogo imprecisato della valle dell’Arno in vicinanza ad una fabbrica di vetro. Il cantiere serve alla costruzione di una palazzina di tre piani capace di quattro appartamenti per altrettanti fratelli che chiedono di riunirsi sotto un unico tetto. Come quando erano piccini lassù sotto la montagna e il nonno capoccia lavorava per il padrone della fattoria delle Belle speranze.

Sono intento ad ululare in silenzio per non essere canzonato dai lavoratori.

Mimando alcuni passi di danza saltello sui tavoloni del ponteggio “innocenti” mentre al contempo mi scorrono in mente alcune frasi indicibili; in certi ambienti le chiamano bestemmie e son soggette a punizioni anche corporali; imparate i giorni scorsi dagli operai. Son entrato al lavoro, sottopagato e sfruttato, il primo lunedì del mese di luglio. E fino a tre minuti prima cercavo di fissare una tavola al muro di mattoni. Uso un apposito chiodo d’acciaio e il martello da carpentiere. La prima bulletta è andata bene e la tavola comincia a stare al suo posto. La seconda causa l’incidente. Il martello batte l’asse con il pollice della sinistra pericolosamente vicino alla zona di combattimento.

E come spesso succede tra i due contendenti vince, ops perde, il terzo.

Dopo due colpi andati a segno il terzo trova il dito e causa la danza sull’impalcatura e la disperata ricerca del secchio d’acqua per cercare refrigerio e mitigare il dolore. Lo trovo svoltato l’angolo e incrocio anche il resto della truppa. Cui non occorre molto per farmi cantare. Provo a inventare una storta o simile accadimento ma loro sono impietosi. Prima mi fanno raccontare la martellata e poi mi prendono per i fondelli fino a fine turno.

Per alcune altre estati ho lavorato in cantieri edili.

Una volta capitò di dover sistemare un tetto con quell’ operazione che si definisce ripassatura del manto. La casa confinava sul lato lungo con orto di vicino che non concedeva il suolo per il ponteggio.  I muratori non si persero d’animo e lavorarono da sopra la copertura legati con canapi ai camini sul tetto. E con la stessa tecnica sostituirono i canali di gronda: operai legati ai camini e pluviali strisciati pian piano sul tetto fino ai ferri sagomati. A me, che non soffro di vertigini, toccò in sorte di guidare la posa finale di un lato del manufatto. Disteso sulla pancia, sul tetto in pendenza, alla fine della sporgenza di gronda che parevo l’uomo ragno.

Incoscienza della gioventù.

In quegli anni di lavoro estivo ho girato in altri cantieri; tutti o quasi con l’asticella delle regole di sicurezza molto bassa che prevedeva, per esempio, scarponi e caschi in baracca in compagnia  degli altri più elementari dispositivi individuali.

L’estate dei miei sedici anni lavoravo ad un palazzo di sei piani.

L’impresa era intenta alle sistemazioni esterne e la gru su binario; ventiquattro alta per venti di braccio; era piazzata proprio all’imbocco delle autorimesse. Ergo occorreva un celere smontaggio. Fu ingaggiata apposita ditta specializzata che la mattina del sabato seguente, nonostante fosse giorno di riposo, si presentò alle otto precise. Gli accordi prevedevano la presenza  del titolare smontatore capo con l’assistente che quella notte aveva avuto un attacco di appendicite e in quelle ore stava sotto operazione. Io e il manovale Anacleto accompagnavamo il capomastro che, conoscendo la complessità del lavoro da svolgere, s’irritò con veemenza. Si calmò appena un poco quando fu informato del perché e percome della defezione e fece una domanda agli astanti.

E ora?

Per non farla troppo lunga ecco il succo. Occorreva qualcuno che non presentasse timori nei confronti del vuoto e fosse abbastanza incosciente da salir fin lassù, senza nessun tipo di formazione, scalare il traliccio e avventurarsi sul braccio a porgere attrezzi e bulloni al mastro smontatore. I due esperti lavoratori si chiamarono fuori e a me toccò l’onere di impersonificare l’uomo delle ragnatele.

Quelle due ore furono tra le più divertenti che ricordi.

Alla faccia della sicurezza: D.lgs. 494/96 e seguenti, Coordinatori e Corsi di formazione di centoventi ore. Che mi son toccate tutte compreso esame finale. L’anno passato ho terminato l’ultimo di quaranta obbligatorio ogni cinque anni come se fosse una specie di richiamo del vaccino dell’ultimo virus. E ieri l’ho fatto di nuovo. L’ispezione periodica della copertura di casa ha evidenziato un canale di gronda che non riceve tutto quanto arriva. Il risultato è che l’acqua tracima copiosamente sulla strada.

Mi son calzato la tuta rossa e blu, la maschera e i guanti. Son pronto alla manutenzione della grondaia. M’affaccio alla finestrina su in soffitta. Studio il percorso e via. Su per i tre scalini della scaletta fino all’apertura e oltre. Adesso son sul tetto di marsigliesi. Con tre passi arrivo al colmo. Aziono l’altimetro che racconta: dieci metri sopra il terreno. Faccio un salto e poi un altro e dopo la giravolta. Un giro completo d’orologio. Una veduta a trecentosessanta come un angolo giro: Arno, Firenze. Pratomagno, Arezzo.

Entusiasmante.

Ma adesso bando alle ciance; è il momento della pulizia. Mi appiattisco sulla terracotta e striscio sul ventre verso la fine del tetto. Non ho nessuna corda o cordino di sicurezza e neanche ganci o qualsivoglia aggeggio. Solo tuta da lavoro e guanti. Pendenza trenta per cento che equivale a diciassette gradi e lunghezza di centimetri cinquecento ventidue; questi sono i numeri su cui striscio. Per gli ultimi ottantadue centimetri smetto i panni del super eroe e mi faccio serpente. Avete presente quelle bisce d’acqua dolce che ogni tanto si avvicinano alle case in campagna? Ecco; preciso identico.

Poi pulisco.


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