Lettori fissi

28/01/21

L'autoradio


 

L’autoradio | 2020

 

Stamani ho portato la macchina in officina.

 

Come se fosse una normale operazione di manutenzione. Almeno questo è quello che ho fatto credere a Lei: la Scenic passo lungo, color grigio sabbia con sfumature dorate, attiva dal maggio duemila quattordici. In realtà l’ho condotta o meglio accompagnata al suo ultimo viaggio su ruote.

 

I motivi sono molteplici e si racchiudono tutti nel numero 472.534; i chilometri segnati sul display. Con tutta la rumba in ordine sparso: gran parte delle spie di pericolo lampeggiano da alcuni anni, Il battistrada delle gomme è talmente consumato che si vedono i filamenti strutturali, gli sportelli cigolano così come gran parte della carrozzeria, il tergicristallo anteriore si è smarrito durante l’ultima grandinata, il serbatoio del gas del sistema di condizionamento si è dotato nel tempo di alcuni fori di aerazione col risultato che all’accensione della ventola circola solo aria calda anche in piena estate, il comando sicurezza bambini è inceppato e quindi le portiere dei passeggeri si aprono solo dal fuori, i liquidi del radiatore e della coppa sono ormai agli sgoccioli e chiedono a gran voce “aggiungi – aggiungi – aggiungi”, la ruota di scorta è uscita dal suo alloggio sotto i sedili supplementari e adesso saltella allegramente tra bagagliaio e sedili, il sistema elettronico del freno a mano non funziona dall’Olimpiadi brasiliane  e a volte durante la stagione fredda  rimane bloccato, lo sportellino del serbatoio si è fidanzato con la pompa della stazione  di servizio di Rovigo e il resto lasciamolo perdere.

 

Casomai merita un pensiero il motore.

 

Intorno ai trecento trentatremila la turbina si riempie d’olio motore e manifesta notevoli problemi di potenza e ripresa. Invece della sostituzione del pezzo mi si propone quella drastica di un motore revisionato e con la metà dei chilometri. Peccato che poi alla fine, dopo un paio di mesi di pene e stridore di denti, ci son voluti altri due motori  e la messa a punto dell’intero sistema per rimettere in pista l’auto.

 

Per la precisione.

 

Prima di scendere mi son ricordato dell’autoradio. Progettavo di smontarla da alcuni giorni ma poi mi son detto che: “Tanto che ci vuole … basta un cacciavite e una forbice ... lo posso fare prima di lasciarla”. Ingenuo. Dopo tredici minuti di maldestri tentativi apro il libretto delle istruzioni dell’apparecchio e scopro con estremo disappunto che questo modello è totalmente sicuro e inattaccabile a qualunque tentativo di asporto, furto o vandalismo che il produttore; fan di Monicelli e per di più nato l’anno di uscita del film; l‘ha battezzata simpaticamente “la Comare”. Assolutamente non asportabile se non previo accesso dal vano motore con rimozione di pezzi vari. Alla fine del paragrafo si consiglia, come minimo, il diploma della scuola Radio Elettra di Torino.

 

“Capperi … sbotto … è talmente sicura che mi tocca lasciarla”.

 

Proprio l’opposto della mia prima. Quelli della mia generazione; adolescenti nei settanta; magari si ricordano. Già dal decennio precedente nelle macchine dei genitori si cominciava a vederne dei modelli, per via dei transistor, ridotti quanto basta per essere installati anche nelle utilitarie dei nostri genitori. Sintonizzazione e volume: due manopole sopra un frontalino con un display centrale a scorrere e alcuni tasti di memoria. Onde medie e antenne lunghissime; i più tamarri le avevano ripiegate dal davanti al dietro. Di solito questi apparecchi viaggiavano accoppiati al magnete con la foto di famiglia e la scritta, in corsivo dorato:“Pensa a noi babbo. Non correre”. Tecnologia e famiglia.

 

Mitico.

 

Naturalmente a quei tempi ce n’erano anche molte senza. In tal caso i guidatori si accontentavano della radio a transistor, con l’antenna telescopica retrattile, da tenere in mano vicino alla testa o tutt’al più con l’auricolare. Tanto bastava per l’ascolto delle partite della domenica pomeriggio. Poi c’erano i Vip anche detti Bellimbusti che; a bordo di spider deca potabili; scorrazzavano sui viali alberati sparando a tutta i successi stagionali con i mangiadischi integrati all’apparecchio. E via tutte le ragazze al ballo con Azzurro, La bambola, Balla Linda e compagnia bella.

 

Che invidia.

 

Solo alcuni anni dopo i settanta rammento di aver visto modelli diversi da quelli del genitore. Uno che ricordo bene presentava, dopo tutti i comandi di una normale radio ricevente, un grosso foro rettangolare dove si inseriva una grande cassetta audio che sparava la musica scelta ascoltata su casse potenti e assolutamente fedeli.

 

Una discoteca su quattro ruote.

 

La tecnologia era entrata a piedi pari dentro il veicolo e l’aveva conquistato. Chiaro che tutto questo nuovo luccichio cominciò ad interessare la malavita di piccolo cabotaggio. Nei parcheggi si cominciarono a notare i primi ladruncoli e i primi vetri rotti con regolare scomparsa di radio e casette. Il lavoro era semplice e senza rischi apparenti: bastava un sasso, un paio di minuti e uno strattone forte. I fili rimanevano attaccati veicolo e la tecnologia volava col mariuolo.

 

Proprio come capitò anche a me.

 

Alcuni anni prima, anche nel nostro paese notoriamente fanalino di coda delle novità elettroniche,  era stata messa a punto la tecnologia con consentiva la modulazione di frequenza; in gergo “effe emme”; e di fatto la nascita della Radio libere. La musica era, come le stazioni radio,  dappertutto. 

 

Anche dentro la mia prima. 

 

Appena dopo la patente mi ero fatto le ossa, ed anche alcune sfregate di carrozzeria,  alla guida della 126 rosso fegato che di normale portava mamma.  Poi arrivò, in esclusiva,  la R4 color sabbia che subito personalizzai con adesivi autoprodotti e l’agognata autoradio acquistata con  la paga di quell’estate impiegato come manovale di cantiere. Il disegno non era particolarmente elegante e anche la marca era sconosciuta; di probabile provenienza coreana; però compreso nel prezzo c’era la novità del momento che ancora non avevano gli amici già autoradio muniti.

 

La slitta per portarsela via.

 

A quel tempo l’invenzione pareva la quadra del cerchio che saltava a piedi pari le beghe del furto: radio, vetro rotto, denuncia ai vigili, rottura di palle in casa,  incazzamenti vari e altro.  E io ero il primo della combriccola che l’avevo.  Un amico carissimo si occupò del montaggio con verifica del funzionamento e dell’estrazione.  Per almeno un mesetto, datosi che ero l’unico, arrivavo al bar direttamente con l’autoradio e la poggiavo sul banco del caffè accompagnato dalla mitica frase - “Il solito”- e dall’altrettanto amichevole augurio  - “Speriamo che te la rubino”.

 

Dai, picchia e mena ad un certo punto il presagio si avverò.

 

Dopo alcuni mesi mi ero stancato di portare in giro tre chili di acciaio, fili e transistor. Il gioco era stato bello ma era finito. Per me e per gli altri. Alcuni si attrezzarono con borse e borselli che, in verità, li facevano sembrare ridicoli con quel peso ciondoloni che sbatteva rudemente sul fianco e a volte produceva escoriazioni e ferite. Allora moltissimi, io con loro, cominciarono a studiare, dopo l’estrazione del ricevitore,  nascondigli alternativi che si ridussero, per le normali utilitarie, a due o tre: sotto il sedile, dentro al cruscotto se abbastanza capiente e munito  di portellino, in zaino militare lasciato a bella posta sul sedile del passeggero facendo conto che eventuale male intenzionato non avesse letto “La lettera rubata”, dentro in cofano motore in apposito scomparto creato dall’amico carrozziere e buon ultimo il vano bagagli.

 

La prima volta usai il sotto sedile.

 

C’era una grande fiera in paese con le giostre, il mercato, ogni genere di leccornie e tanta gente. Ma tanta che non si riusciva mai a trovar parcheggio. A quel tempo tornavo da una giornata di esame ed ero cotto ma avevo appuntamento con l’amata che li stava con il gruppo d’amici. Quindi dopo alcuni peripli della cittadina appoggiai l’auto nel primo posto libero, anche se buio e fuori mano, che trovai. Non potevo certo girare per la festa con la radio e quindi scelsi semplicemente il primo luogo che mi venne alla testa. Spensi la macchina e i fari. Mi guardai intorno con circospezione. Il posto pareva tranquillo e non frequentato. Con un “zic e zac” provai la mossa del mago e andai alla fiera.

 

Al ritorno trovai il vetro posato in terra e il sotto sedile vuoto.

 

Da allora molte altre volte son capitate e altrettante autoradio son volate accompagnando ladri, marioli, rubatori, delinquenti, farabutti, furfante, malandrini, malviventi, manigoldi, borsaioli, borseggiatori, rapinatori, scassinatori, scippatori, taccheggiatori, tagliaborse e chi ne ha.

 

In sintesi alcune di queste con luoghi e circostanze.

 

Firenze; stadio comunale primi degli ottanta. Viola contro Gobbi. Ore 13 in netto anticipo sulla partita ma in tempo per scegliere i quattro posti migliori della Fiesole. Mentre scendiamo ci si passano di mano borse e zainetti e si aprono le portiere compreso il vano dietro. L’idea, come al “gioco delle tre carte” è di confondere eventuali osservatori interessati all’elettronica. La radio è quindi riposta nel portabagagli coperta dal plaid scozzese. Al ritorno si scopre:  serratura forzata e portiera aperta, coperta sotto la macchina e radio in viaggio.

Bari; lungo mare tra Cozze e Mola; millenovecento ottantaquattro.  Con S e T a pesca di ricci. La carreggiata è ridotta dalle auto in sosta che ne occupano una parte. E noi anche secondo lo schema definito “a cazzo di cane”. Ci si spoglia di: vestiti, documenti, pinne fucile ed occhiali. Tutto insomma esclusi i costumi.  Si lasciano in auto a coprire l’autoradio. “Tanto … – dice il nostro ospite – … stiamo giusto il tempo di un bagno. E poi quando vedono l’auto targata Bari non fanno niente.” E infatti al ritorno troviamo la macchina con le cinque portiere aperte. E dentro tutti i vestiti e documenti. Mancava  solo lei. “E vi hanno voluto bene … - ci raccontò il vecchietto seduto li vicino – … di solito ripuliscono tutto tutto”.

Venezia; in una stradina buia e malfamata poco prima di piazzale Roma. Lasciamo qui le macchine per risparmiare sul parcheggio notturno pluriplano. La Ritmo 110 cavalli aveva in dotazione una radio spaziale ultima novità con tanto di musicassette e sei altoparlanti che nascondemmo, al solito, dentro il cruscotto.  Quell’anno novanta il Carnevale era particolarmente ricco di eventi e feste. Eravamo ospiti di certi amici del luogo che si organizzavano in gruppo e si mascheravano truccandosi la faccia. E noi con loro; tutta la notte in giro per “Ombre e cicchetti”; fino all’alba e anche di più.  Alticci e allegri quanto basta per non notare niente di strano fino all’apertura dello sportello quando il vetro in mille pezzi del finestrino dietro comincia a riflettere i primi raggi del sole. Solo allora si evidenzia, appoggiata con grazie sul sedile del guidatore, una pietra sbrecciata e consunta con disegnata l’autoradio con ali.

Il telo di plastica invece del vetro non fu sufficiente nell’Appennino

 

Nel corso dei successivi decenni la tecnica ha evoluto le dotazioni e le strumentazioni dell’apparecchio. Musicassette, woofer, hi-fi, cd, usb, trova stazione, applicazioni le più  fantasmagoriche, info traffico fino alle radio integrate nella plancia di comando dove oramai spadroneggia il computer di bordo con tutti i sistemi di navigazione, connessione senza fili, mappe virtuale, prese Usb, trasmissione digitale e altro. Tutte di nuova generazione.

 

In questo delirio tecnologico combatto da tempo con una  ventenne.

 

Questa è l’età dell’autoradio “Philips DC 614” colore total black con dispositivo di ricerca e memorizzazione canali, svariati tasti di servizio, lettore Cd e frontalino lato destro asportabile.  Totalmente a prova di furto e in perfetta linea con le tecnologie del periodo. Che ha funzionato a dovere fino ad alcuni anni fa quando, all’improvviso e senza dare segni di avvertimento, ha cominciato a far le bizze. All’accensione funziona normalmente. Innesti la marcia e parti. E funziona ancora fino alle prime variazioni della sede stradale. Asfalto ribassato, buca, taglio o dosso tutto fa. Lei tace. Passano alcuni secondi o a volte minuti e riprende a fare il suo mestiere. Altra buca, altra interruzione ed altra ripresa. Come un mantra fuori controllo che funziona a suo piacimento e fa inalberare l’utente che, totalmente imbranato nelle faccende di fili e in verità di molto altro, la conduce all’officina.

 

In realtà dovrei essere più preciso.

 

Sono cinque anzi sei gli specialisti dell’energia elettrica dell’automobile interpellati in tre anni. Elettrauto blasonati con diplomi  e attestati, alcuni anche decorati al valore presso le rispettive Camere del commercio, uno anche laureato a Cipro. Tutti hanno tentato approcci diversi. Chi è sicuro dipenda da un contatto subdolo e maligno, l’altro che sia un difetto di costruzione dell’impianto, uno che possa essere un problema di fusibili e via  dicendo. Il risultato sono con cambi e sostituzioni, tagli e transistor. E fatture pesanti.

 

La meglio è quella del sesto genio della lampada.

 

“Ragazzo lo vuoi un consiglio spassionato? …” 

Io basito; che vado oltre il mezzo secolo e da tempo nessuno mi chiama ragazzo; muovo la testa a significare “Si, grazie”.

Al che rinfrancato il nostro intenditore riprende con : “ … dammi retta ti conviene: Vendi la macchina!”

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