Stamani ho portato la macchina in officina.
Come se fosse una normale operazione di manutenzione. Almeno questo è
quello che ho fatto credere a Lei: la Scenic passo lungo, color grigio sabbia con sfumature
dorate, attiva dal maggio duemila quattordici. In realtà l’ho condotta o meglio
accompagnata al suo ultimo viaggio su ruote.
I motivi sono molteplici e si
racchiudono tutti nel numero 472.534; i chilometri segnati sul display. Con
tutta la rumba in ordine sparso: gran parte delle spie di pericolo lampeggiano
da alcuni anni, Il battistrada delle gomme è talmente consumato che si vedono i
filamenti strutturali, gli sportelli cigolano così come gran parte della
carrozzeria, il tergicristallo anteriore si è smarrito durante l’ultima
grandinata, il serbatoio del gas del sistema di condizionamento si è dotato nel
tempo di alcuni fori di aerazione col risultato che all’accensione della
ventola circola solo aria calda anche in piena estate, il comando sicurezza
bambini è inceppato e quindi le portiere dei passeggeri si aprono solo dal
fuori, i liquidi del radiatore e della coppa sono ormai agli sgoccioli e
chiedono a gran voce “aggiungi – aggiungi – aggiungi”, la ruota di scorta è
uscita dal suo alloggio sotto i sedili supplementari e adesso saltella
allegramente tra bagagliaio e sedili, il sistema elettronico del freno a mano
non funziona dall’Olimpiadi brasiliane e
a volte durante la stagione fredda
rimane bloccato, lo sportellino del serbatoio si è fidanzato con la
pompa della stazione di servizio di
Rovigo e il resto lasciamolo perdere.
Casomai merita un pensiero il motore.
Intorno ai trecento trentatremila la
turbina si riempie d’olio motore e manifesta notevoli problemi di potenza e
ripresa. Invece della sostituzione del pezzo mi si propone quella drastica di
un motore revisionato e con la metà dei chilometri. Peccato che poi alla fine,
dopo un paio di mesi di pene e stridore di denti, ci son voluti altri due
motori e la messa a punto dell’intero
sistema per rimettere in pista l’auto.
Per la precisione.
Prima di scendere mi son ricordato
dell’autoradio. Progettavo di smontarla da alcuni giorni ma poi mi son detto
che: “Tanto che ci vuole … basta un cacciavite e una forbice ... lo posso fare
prima di lasciarla”. Ingenuo. Dopo tredici minuti di maldestri tentativi apro
il libretto delle istruzioni dell’apparecchio e scopro con estremo disappunto
che questo modello è totalmente sicuro e inattaccabile a qualunque tentativo di
asporto, furto o vandalismo che il produttore; fan di Monicelli e per di più
nato l’anno di uscita del film; l‘ha battezzata simpaticamente “la Comare”.
Assolutamente non asportabile se non previo accesso dal vano motore con
rimozione di pezzi vari. Alla fine del paragrafo si consiglia, come minimo, il
diploma della scuola Radio Elettra di Torino.
“Capperi … sbotto … è talmente sicura
che mi tocca lasciarla”.
Proprio l’opposto della mia prima.
Quelli della mia generazione; adolescenti nei settanta; magari si ricordano.
Già dal decennio precedente nelle macchine dei genitori si cominciava a vederne
dei modelli, per via dei transistor, ridotti quanto basta per essere installati
anche nelle utilitarie dei nostri genitori. Sintonizzazione e volume: due
manopole sopra un frontalino con un display centrale a scorrere e alcuni tasti
di memoria. Onde medie e antenne lunghissime; i più tamarri le avevano
ripiegate dal davanti al dietro. Di solito questi apparecchi viaggiavano
accoppiati al magnete con la foto di famiglia e la scritta, in corsivo
dorato:“Pensa a noi babbo. Non correre”. Tecnologia e famiglia.
Mitico.
Naturalmente a quei tempi ce n’erano
anche molte senza. In tal caso i guidatori si accontentavano della radio a
transistor, con l’antenna telescopica retrattile, da tenere in mano vicino alla
testa o tutt’al più con l’auricolare. Tanto bastava per l’ascolto delle partite
della domenica pomeriggio. Poi c’erano i Vip anche detti Bellimbusti che; a
bordo di spider deca potabili; scorrazzavano sui viali alberati sparando a
tutta i successi stagionali con i mangiadischi integrati all’apparecchio. E via
tutte le ragazze al ballo con Azzurro, La bambola, Balla Linda e compagnia
bella.
Che invidia.
Solo alcuni anni dopo i settanta
rammento di aver visto modelli diversi da quelli del genitore. Uno che ricordo
bene presentava, dopo tutti i comandi di una normale radio ricevente, un grosso
foro rettangolare dove si inseriva una grande cassetta audio che sparava la
musica scelta ascoltata su casse potenti e assolutamente fedeli.
Una discoteca su quattro ruote.
La tecnologia era entrata a piedi
pari dentro il veicolo e l’aveva conquistato. Chiaro che tutto questo nuovo
luccichio cominciò ad interessare la malavita di piccolo cabotaggio. Nei
parcheggi si cominciarono a notare i primi ladruncoli e i primi vetri rotti con
regolare scomparsa di radio e casette. Il lavoro era semplice e senza rischi apparenti:
bastava un sasso, un paio di minuti e uno strattone forte. I fili rimanevano
attaccati veicolo e la tecnologia volava col mariuolo.
Proprio come capitò anche a me.
Alcuni anni prima, anche nel nostro
paese notoriamente fanalino di coda delle novità elettroniche, era stata messa a punto la tecnologia con
consentiva la modulazione di frequenza; in gergo “effe emme”; e di fatto la
nascita della Radio libere. La musica era, come le stazioni radio, dappertutto.
Anche dentro la mia prima.
Appena dopo la patente mi ero fatto
le ossa, ed anche alcune sfregate di carrozzeria, alla guida della 126 rosso fegato che di
normale portava mamma. Poi arrivò, in
esclusiva, la R4 color sabbia che subito
personalizzai con adesivi autoprodotti e l’agognata autoradio acquistata
con la paga di quell’estate impiegato
come manovale di cantiere. Il disegno non era particolarmente elegante e anche
la marca era sconosciuta; di probabile provenienza coreana; però compreso nel
prezzo c’era la novità del momento che ancora non avevano gli amici già
autoradio muniti.
La slitta per portarsela via.
A quel tempo l’invenzione pareva la
quadra del cerchio che saltava a piedi pari le beghe del furto: radio, vetro
rotto, denuncia ai vigili, rottura di palle in casa, incazzamenti vari e altro. E io ero il primo della combriccola che
l’avevo. Un amico carissimo si occupò
del montaggio con verifica del funzionamento e dell’estrazione. Per almeno un mesetto, datosi che ero
l’unico, arrivavo al bar direttamente con l’autoradio e la poggiavo sul banco
del caffè accompagnato dalla mitica frase - “Il solito”- e dall’altrettanto
amichevole augurio - “Speriamo che te la
rubino”.
Dai, picchia e mena ad un certo punto
il presagio si avverò.
Dopo alcuni mesi mi ero stancato di
portare in giro tre chili di acciaio, fili e transistor. Il gioco era stato
bello ma era finito. Per me e per gli altri. Alcuni si attrezzarono con borse e
borselli che, in verità, li facevano sembrare ridicoli con quel peso ciondoloni
che sbatteva rudemente sul fianco e a volte produceva escoriazioni e ferite.
Allora moltissimi, io con loro, cominciarono a studiare, dopo l’estrazione del
ricevitore, nascondigli alternativi che
si ridussero, per le normali utilitarie, a due o tre: sotto il sedile, dentro
al cruscotto se abbastanza capiente e munito
di portellino, in zaino militare lasciato a bella posta sul sedile del
passeggero facendo conto che eventuale male intenzionato non avesse letto “La
lettera rubata”, dentro in cofano motore in apposito scomparto creato
dall’amico carrozziere e buon ultimo il vano bagagli.
La prima volta usai il sotto sedile.
C’era una grande fiera in paese con
le giostre, il mercato, ogni genere di leccornie e tanta gente. Ma tanta che
non si riusciva mai a trovar parcheggio. A quel tempo tornavo da una giornata
di esame ed ero cotto ma avevo appuntamento con l’amata che li stava con il
gruppo d’amici. Quindi dopo alcuni peripli della cittadina appoggiai l’auto nel
primo posto libero, anche se buio e fuori mano, che trovai. Non potevo certo
girare per la festa con la radio e quindi scelsi semplicemente il primo luogo
che mi venne alla testa. Spensi la macchina e i fari. Mi guardai intorno con
circospezione. Il posto pareva tranquillo e non frequentato. Con un “zic e zac”
provai la mossa del mago e andai alla fiera.
Al ritorno trovai il vetro posato in
terra e il sotto sedile vuoto.
Da allora molte altre volte son
capitate e altrettante autoradio son volate accompagnando ladri, marioli,
rubatori, delinquenti, farabutti, furfante, malandrini, malviventi, manigoldi,
borsaioli, borseggiatori, rapinatori, scassinatori, scippatori, taccheggiatori,
tagliaborse e chi ne ha.
In sintesi alcune di queste con
luoghi e circostanze.
Firenze; stadio comunale primi degli
ottanta. Viola contro Gobbi. Ore 13 in netto anticipo sulla partita ma in tempo
per scegliere i quattro posti migliori della Fiesole. Mentre scendiamo ci si
passano di mano borse e zainetti e si aprono le portiere compreso il vano
dietro. L’idea, come al “gioco delle tre carte” è di confondere eventuali
osservatori interessati all’elettronica. La radio è quindi riposta nel
portabagagli coperta dal plaid scozzese. Al ritorno si scopre: serratura forzata e portiera aperta, coperta
sotto la macchina e radio in viaggio.
Bari; lungo mare tra Cozze e Mola;
millenovecento ottantaquattro. Con S e T
a pesca di ricci. La carreggiata è ridotta dalle auto in sosta che ne occupano
una parte. E noi anche secondo lo schema definito “a cazzo di cane”. Ci si
spoglia di: vestiti, documenti, pinne fucile ed occhiali. Tutto insomma esclusi
i costumi. Si lasciano in auto a coprire
l’autoradio. “Tanto … – dice il nostro ospite – … stiamo giusto il tempo di un
bagno. E poi quando vedono l’auto targata Bari non fanno niente.” E infatti al
ritorno troviamo la macchina con le cinque portiere aperte. E dentro tutti i
vestiti e documenti. Mancava solo lei.
“E vi hanno voluto bene … - ci raccontò il vecchietto seduto li vicino – … di
solito ripuliscono tutto tutto”.
Venezia; in una stradina buia e
malfamata poco prima di piazzale Roma. Lasciamo qui le macchine per risparmiare
sul parcheggio notturno pluriplano. La Ritmo 110 cavalli aveva in dotazione una
radio spaziale ultima novità con tanto di musicassette e sei altoparlanti che
nascondemmo, al solito, dentro il cruscotto.
Quell’anno novanta il Carnevale era particolarmente ricco di eventi e
feste. Eravamo ospiti di certi amici del luogo che si organizzavano in gruppo e
si mascheravano truccandosi la faccia. E noi con loro; tutta la notte in giro
per “Ombre e cicchetti”; fino all’alba e anche di più. Alticci e allegri quanto basta per non notare
niente di strano fino all’apertura dello sportello quando il vetro in mille
pezzi del finestrino dietro comincia a riflettere i primi raggi del sole. Solo
allora si evidenzia, appoggiata con grazie sul sedile del guidatore, una pietra
sbrecciata e consunta con disegnata l’autoradio con ali.
Il telo di plastica invece del vetro
non fu sufficiente nell’Appennino
Nel corso dei successivi decenni la
tecnica ha evoluto le dotazioni e le strumentazioni dell’apparecchio.
Musicassette, woofer, hi-fi, cd, usb, trova stazione, applicazioni le più fantasmagoriche, info traffico fino alle
radio integrate nella plancia di comando dove oramai spadroneggia il computer
di bordo con tutti i sistemi di navigazione, connessione senza fili, mappe
virtuale, prese Usb, trasmissione digitale e altro. Tutte di nuova generazione.
In questo delirio tecnologico
combatto da tempo con una ventenne.
Questa è l’età dell’autoradio “Philips
DC 614” colore total black con dispositivo di ricerca e memorizzazione canali,
svariati tasti di servizio, lettore Cd e frontalino lato destro
asportabile. Totalmente a prova di furto
e in perfetta linea con le tecnologie del periodo. Che ha funzionato a dovere
fino ad alcuni anni fa quando, all’improvviso e senza dare segni di
avvertimento, ha cominciato a far le bizze. All’accensione funziona
normalmente. Innesti la marcia e parti. E funziona ancora fino alle prime
variazioni della sede stradale. Asfalto ribassato, buca, taglio o dosso tutto
fa. Lei tace. Passano alcuni secondi o a volte minuti e riprende a fare il suo
mestiere. Altra buca, altra interruzione ed altra ripresa. Come un mantra fuori
controllo che funziona a suo piacimento e fa inalberare l’utente che,
totalmente imbranato nelle faccende di fili e in verità di molto altro, la
conduce all’officina.
In realtà dovrei essere più preciso.
Sono cinque anzi sei gli specialisti
dell’energia elettrica dell’automobile interpellati in tre anni. Elettrauto
blasonati con diplomi e attestati,
alcuni anche decorati al valore presso le rispettive Camere del commercio, uno
anche laureato a Cipro. Tutti hanno tentato approcci diversi. Chi è sicuro
dipenda da un contatto subdolo e maligno, l’altro che sia un difetto di
costruzione dell’impianto, uno che possa essere un problema di fusibili e
via dicendo. Il risultato sono con cambi
e sostituzioni, tagli e transistor. E fatture pesanti.
La meglio è quella del sesto genio
della lampada.
“Ragazzo lo vuoi un consiglio
spassionato? …”
Io basito; che vado oltre il mezzo
secolo e da tempo nessuno mi chiama ragazzo; muovo la testa a significare “Si,
grazie”.
Al che rinfrancato il nostro
intenditore riprende con : “ … dammi retta ti conviene: Vendi la macchina!”
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