Lettori fissi

Scaffali

Libreria, 2013



Scaffali | 2010  

I libri stanno sugli scaffali.

Tanti scaffali formano una libreria. Tanti libri fanno una collezione. Vengo da una famiglia umile e istruita il giusto. Il giusto significa, per gente nata in campagna prima della guerra, diploma di quinta elementare. I genitori dei miei genitori erano braccianti e falegnami e i primi firmavano con la croce tipo ics. Il babbo costruiva le case e la mamma le maglie. Ed era grassa che in casa; riposto in fondo all’armadio; se cercavi per bene, trovavi la licenza per scrivere e far di conto. Ciò nonostante han tirato su quattro ragazzacci compreso il vostro raccontatore. E forse per questo che hanno sempre ricevuto in casa tutti i venditori di cultura. E nella campagna toscana dei primi anni sessanta la cultura voleva dire enciclopedia.

Ricordo la prima presa a rate.
Conoscere, ventiquattro volumi più gli indici, edizioni Mondadori, Milano 1963, copertina nero lucido con risvolti e cartonato rosso fuoco interno. Rammento l’attesa del cinque del mese quando il postino arrivava con il pacco di cartone. La mamma lo apriva e io mi fiondavo a pesce nella conoscenza del mondo. C’erano i Dinosauri e Giulio Cesare, i Fenici e gli aeroplani, i pesci e gli indiani d’America e via e via. Le pagine erano piene zeppe di disegni a colori scolastici. ‘Sto Conoscere mi ha accompagnato per molte ricerche ai tempi elementari.

A lui è seguita un’altra collezione di volumi, sempre a rate.

I Quindici. Evidentemente perché i volumi erano per l’appunto 15. Dentro le immagini erano, stavolta, fotografiche e la grafica molto più curata così come la carta e la copertina. Ma il primo amore non si scorda mai e così la prima enciclopedia. La famiglia rimane legata alla prima tanto che in casa della Dina i volumi in nero son conservati, quasi con religiosità, dentro ad uno scaffale vetrato chiuso a chiave.

Come se ci fosse il rischio che la cultura vada a spasso per la stanza.

E poi la Divina Commedia con le immagini, mi pare, di Duprè. Un par di Bibbie e due o tre Vangeli. Diversi volumi, bellissimi, edizioni CRF che ragionano di case di campagna e di Cabrei di fattoria, di vedute pittoriche di porti e di città e di molto altro ancora. L’interesse per la lettura comincia con i primi giornalini. Tex e Zagor, Capitan Miki e i giornalini di guerra della serie super Eroica, il Monello e l’Intrepido, Superman e Batman. E poi, crescendo, tutta la serie dei super Eroi della Marvel tipo: Spiderman, Silver surfer, capitan America, Fantastic four e tutto l’ambaradan della collana. Quando la corriera mi conduce al paese di Poggio, per il diploma di Media, la Giuliana mi inizia ai segreti delle parole.

Ma poco poco e non per sua mancanza.

Anzi. Tutto dipende di sicuro dalla zucca dura di chi scrive ora. Si ragionava di Pratolini e Pavese, di Manzoni e Omero, di Cassola e Sciascia, Pascoli e altra gente di lettere. I primi componimenti erano tanto corti e stringati che a malapena riuscivo a girare la pagina numero uno del foglio a righe, formato protocollo piegato per il verso lungo. Un personaggio storico era il mio sopranome quando i compiti venivano appoggiati sopra alla cattedra di formica verdina. “Gennari … sei meno meno … sei troppo conciso … credo che  ti chiamerò Pipino il breve”. Al tempo ero più interessato al pallone e alle prime ragazzine piuttosto che all’amico di Carlo Magno.

Semmai leggevo di fantascienza.

C’era e mi pare che ci sia ancora una pubblicazione di piccolo formato. Ad occhio un A5 con la copertina disegnata da uno svedese. Sul fronte si stavano razzi spaziali e robot e galassie. Dentro, su carta grezza e forse riciclata, una barca di storie fantastiche. La raccolta usciva ogni quindici giorni ed era curata da due grandi; ma li ho scoperti molto dopo; scrittori veri. Fruttero e Lucentini per Urania. Splendida. Alcuni numeri li conservo ancora su uno scaffale. Uno di Asimov; il secondo della trilogia Fondazione; non è più con me e me ne dispiaccio con forza. “… Che me lo presti?” fa un caro amico.

E da allora se n’è andato.

Questa storia dei libri imprestati è una roba che mi assilla da allora. E il bello è che molto spesso non riesco a ricordare se questi fogli stampati sono andati persi, rubati, sottratti, oppure; come diciamo in cima a questo poggio; gattonati. Di volumi e libercoli e riviste e giornali ce ne sono stati molti altri da allora. E qui non mi fa voglia descriverne i contenuti e manco gli autori. Voglio solo ragionare di alcuni di quelli che non ci sono più. Un paio acquistati nei primi anni ottanta durante gli studi da costruttore di cattedrali. Son due libri di architettura e raccontano delle prime opere dei due autori. Uno Italiano e l’altro svizzero. E molto, a me, cari. Adolfo e Mario ne son gli artefici.

Anche questi hanno messo le ruote e se ne sono andati.

E il bello è che li ho dati a prestito io. Come se fossi una biblioteca ma senza far compilare la scheda di prestito. Il nome e il cognome del mariolo li ricordo bene. Ma esso ha sempre negato. L’abitudine di dare a leggere roba mia ad altri è una storia che mi contraddistingue da sempre. Son modesto e credulone e boccalone. Silvano dice sempre: “… attento nini … buono due volte … porta al coglione”.

E io lo sono abbastanza.

E però non ho perso la voglia di leggere e disegnare gli scaffali che tengono i libri. Il primo che ricordo in maniera nitida l’ho costruito con mattoni e assi da cantiere nella stanza che dividevo con Andrea al numero ventuno del paese in cima al poggio. Sopra ci stavano i primi volumetti e i primi dischi a trentatre giri di vinile nero con i solchi graffiati dalla puntina scadente. Il secondo contenitore che mi viene in mente è stato solo disegnato. Era per la casa con la grande terrazza da cui si vedeva l’Arno. Appena dopo l’esame che da la licenza di uccidere le case e il territorio. Era la terza stanza che usavo per studio.

Qui anche ho vissuto per centottanta giorni o giù di li.

C’era una grande stanza vuota e mi sono ingegnato per intere notti a cercare di riempirla di idee. Una di queste era per l’appunto lo “scaffale adattabile” come simpaticamente veniva descritto sulla carta da schizzi chinata. Un palo in metallo con piedini avvitabili in alto e in basso munito di supporti per i ripiani di vetro. Mi pareva di aver inventato un affare geniale e addirittura brevettabile. Per fortuna che il progetto è rimasto sul foglio dato che anni dopo ho scoperto che l’invenzione esisteva da almeno una trentina d’anni. Un grande disegnatore milanese l’aveva resa reale e messa in commercio.

Che figura.

Quando ho costruito la casa vicino alla torre medievale ho disegnato una scala stretta e ripida che scorre per i tre piani della magione e si protende verso il cielo fino alla terrazza che serve a veder le stelle. Quattrini ce ne erano pochi ma idee tante. Al posto del parapetto della gradinata viene in mente una libreria verticale. Un aggeggio di legno massiccio che si avviluppa lungo la salita per una diecina di metri e porta, nel suo modesto spessore di centimetri quindici, tutta la carta stampata in possesso all’abitazione.

Altissima si chiama e anche questa è rimasta sul taccuino 13per18.

La quarta che mi sovviene è costruita dentro alla mia undicesima stanza di lavoro. Un tempo vi si smistavano pacchi e si pagavano pensioni. Quando mi ci son trovato io si ragionava, o meglio si cercava, di architettura. Dentro i quarantotto metri del locale ci caccio un muro di mattoni grezzi di cinque lati alto metri due. I cinque lati fanno parte di una figura ottagonale allungata e ruotata rispetto all’ingresso. I restanti tre sono occupati dalla “struttura e libreria in legno massiccio con pannelli da casseforme”. Ingabbiata è lei e contiene tutto il contenibile in proprietà. Adesso la stanza è sede di un’attività di commercio immobiliare e la gabbia è stata smontata. La struttura è accatastata in giardino, in attesa di altri usi, mentre i pannelli stanno, miseramente, riposti in garage accanto alle bottiglie di vino e agli scooter dei ragazzi. Anni or sono, saranno cinque addietro, mi è poi capitata l’occasione di disegnare una casa per i libri. C’era una gara per il meglio progetto della biblioteca umanistica della città di messer Filippo.

Alla prova ho partecipato insieme ad alcuni amici e, off course, ho perso.

Del concorso mi rimane un immagine a colori recuperato dall’Irene chissà dove. C’è uno scaffale di legno scuro, diviso in quattro scomparti, con dentro una barca di libri; uno è aperto e mostra il suo interno. I fianchi dei volumi sono molto spessi e di diversi colori. Lo spessore dei tomi denuncia evidentemente la sapienza del loro possessore che magari è un qualche personaggio rinascimentale. Forse è un particolare della veduta dello studiolo di San Gerolamo pitturata da Antonello da Messina. Chissà chi lo sa. Del progetto mi rimane inoltre un foglietto di carta rettangolare con disegnato una specie di scaffalatura a ripiani orizzontali e montanti storti.

Sotto al disegno c’è una scritta in carattere bodoni con le lettere color oro.

In realtà il grafico rappresenta un pezzetto del portico di facciata della biblioteca che non vedrà mai la luce. L’immagine ha acquistato dignità da quando è protetta da una lastra di vetro; centimetri ottovirgolacinque per tredicipuntocinque spessore millimetri tre, fermata da quattro pezzi di legno grezzo. Me la vedo di fronte quando entro nello studio numero tredici che è in realtà il proseguimento del dodici. Questa stanza si trova nel paese dello Scheggia; il fratello meno famoso di Tommaso; al secondo piano di un palazzotto che prospetta sulla strada principale e, di rigiro, guarda il palazzo di Arnolfo che siede nel mezzo della piazza centrale.

La stanza è dipinta tutta di arancio salmone.

Il colore doveva avvicinarsi in verità alla carota ma il pittore si è confuso con i codici identificativi e me la tengo così. Il locale è un banalissimo posto di lavoro e ricevimento abbastanza vuoto per scelta d’immagine. Il mese passato ho ripulito l’archivio e spostato tutte le riviste e la gran parte dei libri nella stanza di rappresentanza. Adesso riempiono la libreria a venti scomparti di laminato bianco che sta a sinistra appena si entra.

Il trasloco dei volumi ha evidenziato l’ennesima mancanza.

Stavolta denuncio la scomparsa di una roba a cui tenevo in particolare visto che è regalo di laurea e per di più della Silvia. Il titolo? Eccolo. Il disegno del prodotto industriale, Italia 1860-1980, Electa Milano 1982, pagine non ricordo, formato venticinque per trenta spessore tre circa, autore il Vittorio dell’ospedale del Valdarno. La copertina la ricordo bene. Foto in bianco e nero di una macchina da scrivere Olivetti della fine del secolo precedente a quello passato. Dentro una miriade di informazioni e storie e progetti e oggetti. Notevole. Raccomandabile di sicuro a tutti gli studenti del disegno industriale che ho avuto la ventura di conoscere negli ultimi cinque anni in quel di Calenzano.

L’opera se n’è stata ferma buona per quasi anni venticinque.

Mi ha seguito per una dozzina di traslochi dentro scatole di cartone, sporte di plastica o zaini da campeggio. L’ho trattata con riguardo come mamma orsa con Yoghi. E non si è mai fatta male. Usavo i guanti di lattice da chirurgo per sfogliare le sue pagine e badavo bene ad usare segnalibro di buona fattura. Ho provato a chiamare le persone a cui ricordavo di averla data in prestito. Mi son letto e riletto il taccuino, che uso dalla sparizione dell’Adolfo e del Mario, dove scrivo titolo del testo e nome del beneficiario.

Ma niente.

Il tomo ha messo la prima e via dallo scaffale. Se rinciampo il fornitore del motore mi scordo di essere obiettore di coscienza.

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