La coppa | 2018
Albertosi, Martiradonna, Zignoli,
Cera,
Niccolai, Tomasini, Domenghini, Nenè,
Gori, Greatti, Riva. All. Manlio
Scopigno
Formazione
US Cagliari, scudetto 69 -70
Il mese di
agosto, quando in maggioranza la gente se ne va fuori di casa, noi ci si resta.
Oramai saranno dieci o dodici anni che balliamo il “ … cha cha cha della segretaria” dopo la cena di ferragosto del
rione Olivacci. Di solito passiamo il pomeriggio del quindici sbarrati in casa
con un piatto di spaghetti alle vongole e una serie di film cult come
“Colazione da Tiffany”, “Harry ti presento Sally” o “Love Actually” anche se
devo dire preferirei di gran lunga i classici della commedia italiana di
Monicelli, Risi, Comencini e simili. Ma, come si dice, tira più lo straniero
nel palinsesto televisivo estivo.
La sera poi ci
scateniamo con rinfreschi e grandi abbuffate e balli di gruppo.
La mattina, per
quanto mi riguarda, la passo a scartabellare tra gli scatoloni del magazzino
agricolo. Il luogo si trova sotto il garage e la cucina della casa di famiglia. È composto da
due grandi stanze interrate: una adibita per oltre trent’anni a luogo di
produzione e conservazione del vino aziendale, l’altra usata come deposito
degli attrezzi e delle macchine. Da quando il babbo, causa acciacchi e dolori
vari, ha abbandonato il suo divertimento preferito: la coltivazione dei campi
limitrofi, i locali sono stati progressivamente abbandonati. Da una decina
d’anni risulto essere l’unico abitatore, ancorché temporaneo, degli ambienti.
Lo sono la
mattina del giorno di mezz’estate dopo le sette.
Di buon mattino
e buonissima lena mi preparo il caffè con la moka e vesto leggero: pantaloni e
maglietta di cotone, scarpine Superga super usate, guanti da lavoro, mascherina
per la polvere e cappello verde bosco uso Cuba. Da alcuni anni ho bisogno anche
di occhiali da vista per correggere una normale miopia arrivata dopo gli
“anta”.
Son pronto.
Vado.
Per non
svegliare il genitore, che abita da solo la grande casa soprastante, passo
dall’accesso esterno. La chiave di riserva è sempre nello stesso posto da oltre
un quarto di secolo. Apro e la ripongo nel medesimo. Accendo l’unica
debole luce a soffitto. Aziono il
pulsante “on” della lampada da cantiere che mi ha accompagnato e illumino
l’angolo più buio del primo locale. Qui sono accatastati diverse decine di
scatoloni di cartone. Non le ho mai contate e mai le conterò comunque a stima
scommetterei non meno di quaranta. Di solito ne esploro due ogni anno. Dentro
ci sono i secondi ricordi della famiglia.
Prima sono
obbligato alla battaglia.
Davanti a me c’è
stimo un mezzo chilo di polvere circa. Sopra di me sul soffitto e sulle pareti
ragnatele e suoi costruttori oltre a insetti ed animaletti vari. Essi sono
padroni del campo per trecentosessantaquattro giorni e notti. Ma stamani è roba
mia. Sono arrivato accompagnato anche da diversi attrezzi atti alla bisogna:
scovolino anti ragnatela, scopa normale e di saggina compreso paletta raccatta
sudicio. E poi la bestia. L’ho ordinata il mese scorso e ieri è arrivata: la
scopa aspirapolvere multifunzione a ciclone. Un mostro che fa paura solo a
guardarlo. Tutto nero e tecnologico con le lucine che lampeggiano e il rumore
della “Moto GP”.
E infatti appena
accesa se ne vanno tutti: animali e insetti e polvere. Comincio.
I primi ricordi:
foto, cartoline, oggetti sacri, pagani e ninnoli sono al piano nobile. Gli
scatoloni in cantina contengono gli scarti dei migliori. Son rigonfi dei nostri
vecchi libri, album, giornalini, quaderni e giocattoli. Oltre al resto del
ciarpame che tutte le famiglie producono durante tre generazioni e cinque
traslochi. Rammento che al tempo le scatole furono contrassegnate da un codice
che rimandava ad una precisa lista di argomenti. Naturalmente con il tempo la
lista si è persa. Comunque oramai mi son fatto un idea dei segni scritti a
pennarello. Dopo dieci anni vestito da esploratore posso scommettere sul
significato della segnatura che leggo.
AG.68-71. Che
significa: “Album e giornalini dal
sessantotto al settantuno”.
Il cutter fa il
suo mestiere e io ho vinto la scommessa. Tralascio i giornalini, che mi gusterò
dopo insieme allo Spritz, e mi fiondo sopra agli album. In special modo quelli
delle figurine Panini. Da alcuni giorni ho in testa una domanda che vorrei fare
direttamente alle pagine della raccolta. Quindi apro l’inserto e cerco la
squadra che vinse il Campionato l’anno dei Mondiali. Ecco le due pagine sui
calciatori del Cagliari con le foto, le info e il resto. Tutte le immagini meno
una. Manca proprio quella che presupponevo. E dire che al tempo l’avevo anche
scambiata con la doppia del veronese portiere Pizzaballa. Di sicuro l’ho poi
persa.
Che sbadato,
leggi “fava lessa”, che sono. Non ho
“Ricciotti Greatti”.
Per consolarmi
porto a memoria la formazione titolare dello scudetto. Arrivo al numero undici
e ricordo l’appellativo “Rombo di tuono”
che a suo tempo gli calzò Brera. Rammento anche che per me, ragazzino dodicenne
dal cuore grondante sangue color viola, è stato: il meglio, il più bravo e
l’esempio anche morale ed etico da copiare se un giorno fossi mai giunto dalle
parti dei professionisti. E poi è quello della coppa.
Il campionato di
calcio del settanta fu giocato in Messico.
Fu il primo che
ho potuto vedere al bar del paese insieme ai grandi. Le partite si giocavano,
secondo l’ora nostrale, tra le otto e le dieci di sera dei mesi di maggio e
giugno. In casa nostra, come in molte ormai, c’era la televisione ma vuoi
mettere spararsi novanta minuti insieme agli amici? Non c’è storia. E poi il
locale contava singolari frequentazioni. C’era Biondo che sparava le bombe più
bombe mai sentite, lo Zoppino che era stato in guerra come bersagliere prima e
partigiano poi e l’aveva a morte coi tedeschi, il Birindella che arrivava
sempre a ridosso dell’orario di chiusura
e ordinava, pretendendo in virtù di una presunta parentela con la cugina del
gestore, Bianco Sarti doppio con ghiaccio, i due Vitelloni con la spider rosso
Abarth e la bandiera dei tre colori spiaggiata sul cofano posteriore.
Un delirio
insomma. Una manna per un adolescente alle prime uscite.
Che fa cose mai
fatte prima. Che si trova in mano la prima birra; una Moretti bionda da 25 cl.,
e la trova amara come non ce né. E anche, profittando dell’intervallo tra primo
e secondo tempo, tira la prima sigaretta: Nazionale esportazione con filtro.
Quella col pacchetto bianco, il timone celeste e la nave nera che mi passa
Biribissi, il grullo del villaggio. Poi la sera della semifinale l’esercente si
ricorda di essere un commerciante e scarta sul bancone un vassoio di paste alla
crema. Saranno state una quarantina e furono spazzolate in un “lampo lampante”.
La semifinale fu
giocata allo stadio Azteca. Caldo afosissimo da noi e da loro.
Le trasmissioni
televisive in diretta erano rese possibili da quello che si diceva essere “collegamento satellitare”. Questa
parola magica era la tecnologia più avanzata che ci potevamo permettere. In
altri luoghi del mondo era già arrivato il colore. Da noi il massimo permesso
era l’immagine sfocata e scomposta della TV in bianco e nero. Lo schermo del bar era un normale 20
pollici rialzato a due metri su un trespolo artigianale. Le seggiole erano
quelle scomodissime in acciaio cromato arrugginito con piano e schienale di
laminato “formica” verdolino spento. Il barista aveva la forfora e il bancone
non si poteva definire specchiato.
C’erano però, e
questo è buono e giusto, gli Amici e Nando Martellini.
Che commentò con
garbo, perizia e profonda umanità “la partita del secolo” di cui ricordo a
mente il tabellino marcatori: “8’
Boninsegna, 90’ Schnellinger, 94’ Muller, 98’ Burgnich, 104’ Riva, 110’ Muller,
111’ Rivera, ITA - DEU 4-3”. Al fischio finale tutto il paese; un paio di
cento di persone compreso gli animali; si trovò per la strada a fare la
sborgata con bandiere e accendini. I più temerari si unirono alla carovana
promossa dai vitelloni fino sulle rive dell’Arno.
Era ormai
passata la mezzanotte. La mattina andavo
a scuola. Andai a casa.
Alla finale di
alcuni giorni dopo, ma questo lo sanno anche i muri, ci toccò in sorte il
Brasile di Pelé che ci asfaltò letteralmente per 4-1. In realtà l’Italia del
calcio credeva nell’impresa anche se le loro erano, obiettivamente, di un altro
pianeta. Io e altri cinquanta milioni di tifosi. Siccome giocavano due
nazionali che già in passato avevano ottenuto due vittorie a testa la partita assegnava
il trofeo in maniera definitiva a chi ne vinceva tre.
La coppa Jules
Rimet volò in Sudamerica e li si trova ancora.
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