PS | 2015
1970.
Di
quell’anno ho ricordo de: l’Apollo 13, l’isola di Wight, l’Uccello dalla piume
di cristallo, i Beatles che si lasciano mentre Hendrix e Janis Joplin ci
lasciano, l’Expo di Osaka, il Sanremo di Celentano e il Tipitipitì
dell’Orietta nazionale, lo scudetto del Cagliari di Gigi Riva e la partita del
secolo Italia Germania 4 a 3. In casa si leggeva La Nazione solo il lunedì per
i commenti sportivi. La classifica dell’informazione stampata vedeva al primo
posto Famiglia Cristiana; cui la famiglia è abbonata da quando ricordo; seguita
da due settimanali di costume come Stop e Novella 2000. Per quanto mi riguarda
leggevo molti fumetti e pochissimi libri. Ne rammento uno particolarmente
violento; al periodo sognavo di fare il pilota di caccia; che rispondeva la
nome di Supereroica, sottotitolo 4 storie inedite di cielo, di terra e di mare.
L’anno
prima avevo iniziato le scuole Medie a Terranuova.
Ci
veniva a prendere un pullman di linea di colore blu Lazzi scuro da 30 posti che
alla fine del giro: Terranuova, Campogialli, Traiana, Cicogna, Tasso,
Ganghereto e Terranuova tracimava una sessantina di ragazzi, sudati fradici,
nel piazzale di fronte alla scuola. Ero taciturno e sognatore con la testa tra
le nuvole. Cominciai a leggere e collezionare le prime storie dei supereroi
della Marvel: l’Uomo ragno, i Fantastici quattro, Capitan America, Iron man,
Hulk; i primi fumetti di grande formato
interamente a colori. A colori come gli album delle figurine Panini. Quelle delle
foto dei calciatori da attaccare. Quelle che ci si scambiava durante i dieci
minuti d’intervallo.
Quelle
che … mimanc … celò … mimanc … mimanc … celò.
Quelle
che ce le giocavamo a Murino ma non
l’allenatore portoghese del triplete.
Il
paese di collina che mi abita conta un paio di cento di persone e non offre
molti svaghi all’adolescente tipo dei primi anni settanta. La televisione è in
bianco e nero e i programmi son concentrati dopo le cinque del pomeriggio. La
musica piuttosto. Dapprima quella della mamma con i quarantacinque ascoltati
nel mangiadischi di plastica verde mela. Alla fine dei sessanta la Dina ha poco
più di trent’anni ed è la più rock delle mamme dei miei compagni. Sul mobile
Grunding di frassino di buon disegno si ascoltano le ultime novità
discografiche acquistate nel negozio del Ferroni; un omone di poco meno di due
metri per centocinquanta chili. Da quelle casse stereo integrate nella credenza
escono le note dei primi gruppi beat e le voci dei ragazzini dello Zecchino
d’Oro; le musiche da film di Morricone, la tromba di Nini Rosso e la Mina di
Studio uno.
La
musica mi garba.
Ne
sono affascinato e provo a suonarla da autodidatta. “E che sarà mai … ci son
tanti manuali … e poi so per certo che molti grandi musicisti hanno imparato da
soli”. La Befana del settantadue mi regala una chitarra da musica classica con
tanto di guida pratica, spartiti semplificati e quattro plettri. Per tutto
quell’inverno e la primavera successiva e anche l’estate seguente mi applico,
diligentemente e per almeno un ora al giorno, allo studio dello strumento e
delle note. Ma non c’è verso. Per quanti sforzi faccia il massimo che ottengo
sono i tre accordi de La canzone del sole ma poi quando provo la voce in casa
ululano “… basta … basta … che fai grandinare”. Ho anche smesso di contare le
corde che ho rotto. E se vado indietro nel tempo a quando ero chierichetto e
servitore di messa rammento che il coro della Parrocchia; normalmente formato
da dodici voci bianche; era stato ridotto di un’unità e la riserva (io) veniva
impiegato a suonare le campane. Evidentemente son stonato e imbranato con le
sette note
Basta con la musica suonata.
L’anno
dopo, con i compagni del borgo, fondiamo un gruppo di ascolto che mutua il nome
dal paese e per questo era conosciuto come “ascolta Cicogna”. Il gruppo si ritrova
la sera dopo cena per sentire e commentare rari vinili e cassette registrate in
aggeggi di fortuna.
Scopriamo
il rock.
Il
mio primo disco scientemente acquistato è dell’anno dopo ancora. Il
settantaquattro esce It’s only rock’n’roll
(but i like it) degli Stones ed è subito mio. La copertina la vedo per
caso durante un viaggio d’esplorazione dentro alcuni vicoli di Arezzo. Il
negozio di cui ho scordato il nome ma non il giallo come colore dominante,
posizionato al 15 di via de’ Cenci era l’alternativa politica a Vieri dischi. E
io quel giorno, è il dieci dell’ultimo mese dell’anno, scelgo la bottega e il vinile del cuore.
Lo
compro, lo ascolto e lo conservo da allora e per sempre.
Da
qualche mese prima ho preso a leggere il settimanale musicale Ciao 2001. La sua
lettura mi introduce alle vicende della musica che si suona in giro per il
mondo. E la scopro e l’ascolto tutta. Al tempo, la rete web era nella mente del
Signore, andavano di moda le recensioni dei dischi in uscita. Ho memoria di una
in particolare. È l’anno dei due sette e da noi ci son il Movimento e gli
Indiani metropolitani. A NY esce Marque
Moon dei Television e il buon Caporale, cito a braccio, commenta estatico: “…
Verlaine poi … è una PS col cazzo duro”.
E
un giorno incontro lei.
Nel
solito magazzino giallo tipo sottomarino giallo alla fine del vicolo che
sfocia nel corso Italia della città
della Giostra vedo la fotografia
quadrata centimetri trentuno e cinque. In copertina uno scatto bianco e
nero di Mapplethorpe. Sul tergo le tracce, i musicisti,
le note, il produttore, l’etichetta e quanto altro serve. Dentro la musica
l’anima e la voce della PS e del suo gruppo.
Ci
perdo il capo.
Prendo
a leggere di tutto su e di lei. Libri, articoli e poesie. E anche interviste.
Soprattutto quelle non ufficiali che cominciano a comparire nelle prime riviste
amatoriali. Una di queste diventa la mia preferita. La scrive, produce ed edita
un certo Ansaloni, emiliano doc. Dal settantotto esce Red Ronnie’s Bazar;
fanzine con disco allegato. I testi e la grafica non sono male. Ma la vera
chicca è il disco di vari diametri, velocità e colori che si trova attaccato
sul retro. Vinili tutti rigorosamente pirata e rigidamente inediti. Le
copertine si rifanno alla cultura alternativa del periodo. Una di queste è
dedicata alla Patti. Se non ricordo male; ho perso tutta la collezione stampata
del periodo; è del settantanove, costa lire millecinquecento ed è sui toni del
rosso ciclostile sbiadito. La cantante è vestita con una semplice tunica corta
e sopra la mano destra, sospesa nell’aere, c’è la colomba di Wave. Il
giornalista tutto fare approfitta delle pagine del magazine e racconta di un
nuovo progetto completamente autoprodotto che ha bisogno, per le prime spese,
del sostegno economico dei lettori. Come se ragionassimo di una cooperativa
sociale o meglio di una catena di Sant’Antonio viene richiesto in anticipo un
contributo del costo di dieci numeri della rivista.
E
indovinate chi è l’unico che conosco che ci casca?
Bravi
avete vinto. Quindicimila lire dentro una busta insieme ad un biglietto
d’incoraggiamento e via. Come concordato
aspetto la risposta con l’arrivo degli auguri di Natale. Ma niente. La rivista
trimestrale arriva a quattro numeri e poi termina la pubblicazione. E ancora
nessuna nuova. E intanto stiamo nel decennio successivo. E allora scrivo.
Incazzato come una iena chiedo le ragioni del ritardo e via e via. La risposta
non tarda. Da Pieve di Cento arriva una busta con lettera di scuse e racconto
della vicenda. E nascosti tra le pieghe quindici biglietti con la faccia del
Verdi.
Nel
cassetto dei ricordi ho tutto ancora.
Intanto
ho implementato il culto della “sacerdotessa del rock”. La Vespa cinquanta
special terza serie è battezzata col nome di battesimo della cantante. Il
giallo sottomarino giallo delle fiancate è sporcato da due opere d’arte del
vostro raccontatore. Due adesivi: la riproduzione, in realtà ricalcata su
lucido, a china della copertina del primo disco dei Velvet quello con la banana
di Warhol e un testo tipo: “la mia vespa si chiama Patti” carattere corsivo
Futura ligth. E anche la figlia del cane Ringo è battezzata Patti. E poi la gattina randagia arrivata
l’inverno dopo è appellata indovinate come?
Innamorato
perso insomma. Siamo intanto arrivati vicino alla fine del decennio e al quarto
ellepì.
Il
settantanove è l’anno del concerto.
Settembre
è il mese. Il nove a Bologna e il dieci al Comunale di Firenze. A questo c’ero e ho ricordo dello stadio pieno
all’inverosimile, del palco minuscolo con una grande bandiera a stelle e
strisce a far da sfondo alla scena e del bis finale con una strepitosa versione
di “My Generation” che stese l’arena.
Da
qualche parte dovrei avere alcune foto a colori, scattate da fondo campo, dove
non si vede niente se non un buio totale con certe macchie di colore in
lontananza. Al concerto ci sono andato con il gruppo di ascolto di Cicogna. Ci
son volute tre macchine e poi una non è neanche tornata. Verso mezzanotte ha
incontrato un guardavia poco dopo l’area di servizio Arno est. Il conducente e
gli occupanti sono usciti illesi a meno di una grande paura. La Golf invece è
andata direttamente dal demolitore e se ne son perse le tracce.
Il
concerto fu l’evento della fine del decennio. Di sicuro fu l’ultima esibizione
dal vivo della Patti che si ritirò dalle scene per una decina d’anni. E anche
io persi interesse per il rock assorbito da altro.
Massimo Gennari | 17VI15
PS
|18VI15 | Chissà perché son qui
stasera? Sono partito per tempo e per tempo ho cercato parcheggio in piazza
dell’Isolotto. E nonostante fossero le sette pm non c’era nessuno. L’ho capito
poco dopo quando davanti alla Passerella pedonale delle Cascine chiusa per
restauri ho inveito contro la malasorte. Mi son dovuto sorbire ottocento più
cento più ottocento metri per aggirare l’ostacolo Arno. Poi davanti
all’Ippodromo del Visarno scopro lo spostamento dell’ultima ora all’Anfiteatro.
Pare che ci siano altri ottocento e spiccioli. Per fortuna han pensato ad
organizzare un servizio di navette. La prima cosa che non va storta. Prendo
l’autobus gratuito e son davanti al cancello. Sono solo e credo di essere tra i
primi cento. Tiro fuori il biglietto e son dentro. Mi posiziono sulle gradinate
a mezza costa lato sinistro. Da li vedo bene il palco senza stare nella bolgia
dei saltatori di pogo che di sicuro più tardi saranno i padroni del sotto
palco. Con il didietro posato sulla pietra forte appena sbozzata del gradone mi
godo il meritato riposo. Sono accompagnato da un capace zaino da viaggio pieno
zeppo di generi di conforto per il corpo e per lo spirito. E come dalle mutande
di Eta Beta esce di tutto dalla mia sacca anche: libro da sbollare di Bukowski,
iPhone per le foto, mezzo litro d’acqua naturale ghiacciata, Pilot zero virgola
cinque nero, astuccio di plastica rosso con l’occorrente per il disegno,
quaderno con copertina nera misure aperto quattordici per diciotto. Dentro ho
ancora molto altro compreso cerata gialla ‘ché
secondo Silvia “ … non si sa mai
dovesse venire una burrasca”. Dentro ho anche sei fette di pane cotto a legna
che compongono i tre panini con la frittata che mi sono preparato la mattina
stessa. Otto ore di forzata convivenza hanno unito i tre strati in un unico amalgama
di gusto superiore. Per le uova sbattute
ognuno ha la sua ricetta. Io uso quella della mamma. Faccio fuori la
cena in un baleno. Ho sempre mangiato veloce quasi ingurgitando. Adesso che ho
smesso di fumare mi pare di essere ancora più svelto. Sulle orme di Beep Beep
finisco tutto briciole comprese che raccatto dall’erba. Termino l’ultimo sorso
mentre i tecnici del suono fanno le prove di rito. Acquisisco alcune immagini
della scena e butto giù alcuni disegni; anzi meglio chiamarli col loro vero nome
sgorbi; e mi metto in attesa. Lascio perdere il libro e mi concentro sulla
gente che intanto affolla la cavea. Son venuto solo per scelta di campo e anche
in casa e con gli amici son stato molto
discreto. Rimango quindi sorpreso quando vedo scendere dalle gradinate mio
frate’ Luca anche lui è venuto per proprio conto. Il telefonino serve in questi
casi. Uno squillo e ci si incontra sotto il palco. Un saluto veloce per via
che, evidentemente, ognuno ha in animo di assistere al concerto in solitaria. Poi lui resta attaccato alle transenne sotto
il podio per: registrare; è munito di tele camerina in alta risoluzione; il
video dell’evento e prendersi alcuni degli sputi che notoriamente la cantante regala ai suoi fan.
Io me ne torno di sopra. Intanto si è fatto buio e i musicisti si approssimano
agli strumenti. Il gruppo entra anzi scende sul palco spoglio e disadorno con
il solo vezzo di un grande telo di seta nera a far da sfondo. Solo strumenti e
altoparlanti e luci sui trespoli in alto. E poi arriva Lei e la musica pole
incominciare. Tutto Horses in fila come quarant’anni fa. Alla fine di Gloria mi
sono alzato dalla gradinata per recuperare una chicca da schedare nel cassetto
dei memorabilia. Appena prima del varco d’ingresso avevo notato, sul banchetto
delle prevendite on line, il manifesto ufficiale, formato settanta per cento,
con la striscia gialla del cambio di programma. E adesso ne chiedo e ottengo
una copia. L’arrotolo stretta e provo ad usarla come la bacchetta del direttore
d’orchestra. Funziona. So di essere poco più che un analfabeta dal punto di
vista musicale ma il bastone improvvisato funziona e comunque mi diverto ad
usarlo. Mi posiziono in alto sulla scalinata di sinistra e così in disparte mi
godo la musica. Il long playing lo so tutto a memoria compreso silenzi e
interruzioni. Fidando del buio e dell’abbigliamento lo canto a voce alta.
Accenno perfino ad alcuni timidi passi di danza scimmiottando i pogatori
anonimi che si muovono come ossessi sotto il palco. E con il manifesto
arrotolato mi piace immaginare di dirigere la banda. I musicisti hanno finito
l’ottava canzone. Un momento di pausa e poi a tutta randa Dancing barefoot,
Because the night, People have the power e via altre fino alla fine. Fino al
bis con My generation e con lo strappo delle corde della chitarra. Ecco il
motivo che mi ha portato qui stasera con il cappellino con la visiera verde
bosco modello Tupamaros e spilla a
bottone comprata nel settantanove, scarpa Superga modello classico colore
marrone terra, jeans macchiati di sangue e maglietta cotone nero con la scritta
Less is more.
PS.
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