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Fermata taxi Venezia, 2000 |
a Venezia | 2006 - 10
a Venezia … Mi è
capitato di andarci diverse volte.
La prima non la
ricordo perché ero piccino. Il babbo e la mamma mi raccontavano delle corse a
scacciar piccioni nella piazza del leone con le ali. Venezia è la città della
gondola. Per anni me l’ha rammentato una barchetta di plastica nera con le
lucine dentro che torreggiava sopra al Grundig in bianconero della cucina. E
ancora una mattonella; anche lei nera; attaccata sul muro delle scale come se
fosse un quadro che riportava un san Marco dorato e una scritta rossa in forma
di filastrocca che raccontava di un viaggio e di un ricordo.
Ci son tornato
da grande e questa volta me lo ricordo bene. Era l’ultimo dei dispari dei
settanta e c’era la biennale dell’arte. Avevo da poco una reflex trentacinque millimetri
e scattavo a tutta randa e poi stampavo in camera i miei ricordi. La macchina
giapponese era la paga, convertita in oggetti, per un agosto passato a
disegnare. Ero stato avvicinato dal professore dell’esame di disegno che mi
aveva ingaggiato per stare disteso prono sopra un tavolone, metri tre per sei,
dentro una grande stanza al piano terra della via battezzata dal Giovanni di ser
Giovanni che aveva imparato l’arte da Masolino da Panicale. Il locale era in
perenne penombra e abbastanza fresco nonostante il caldo di quell’anno. Sul
piano ci stavano delle grandi carte che rappresentavano i territori dei comuni
intorno a Fiorenza. Il mio insegnante gestiva il piano intercomunale di quelle
zone mentre io, munito di pennarelli dai molteplici colori, ripassavo contorni
di città, linee di strade, fiumi e montagne e via e via. Siccome abitavo in
campagna mi alzavo la mattina presto per poter timbrare il cartellino nel tempo
concordato. Il Maestro lo vedevo per alcuni minuti verso le otto e
quarantacinque e poi rimanevo solo fino alla fine del turno. E disegnavo. La
paga, mi pare due o trecento mila al tempo delle lire, servì per acquistare
l’acquisitore di immagini insieme a un par di obiettivi e tre lenti correttive.
Gli oggetti, dentro una borsetta di plastica nera, mi avevano seguito nel
viaggio in laguna.
Ricordo un
campeggio in riva al lido e una tendina canadese da tre dove si dormiva in
cinque. Davanti c’era una piccola spiaggia e poi l’acqua dove si faceva il
bagno la mattina appena svegli. E poi c’era una Renault quattro ti-elle bianca
targata Firenze xxxxxx e il nastro delle “porte del Jim bello e maledetto” a
tutto volume. Ma soprattutto rammento il primo incontro con l’arte da toccare
concettuale e povera che; proprio a quei tempi; muoveva i suoi secondi passi.
L’esposizione era in qualche modo la consacrazione di questo filone artistico.
Ai giardini c’erano una barca di padiglioni per altrettanti paesi che
esponevano le opere dei loro artisti. Era la prima volta che mi capitava di
visionare quelle visioni del mondo. C’era un grande edificio; il più grande di
tutti; denominato padiglione Italia costruito, almeno per me, come se fosse un
labirinto. E infatti ci entro insieme ai compagni di avventura e poi mi ci
perdo da solo. Dentro quelle stanze a doppia altezza mi confondo e mi
smarrisco.
E non ho manco
il filo di Arianna.
Gira gira capito
dentro a un vano tutto bianco; pareti e pavimento e soffitto. Sul fondo ci
stanno, ordinate e sedute per terra, delle schiene. Saranno state; aspetta che
provo a far di conto secondo quanto mi par di avere in memoria … mumble …
mumble … 5 file per otto schiene a fila fa … tabellina del cinque …; quaranta o giù di li. Son solo. Il
controllore della stanza se né andato al bar. Voglio una foto ricordo. Piazzo
la macchina con l’autoscatto inserito. Sostituisco una schiena con il mio
corpo. Mi guardo intorno e guardo verso la parete bianca. Mi piace. Mi alzo da
terra e preparo lo scatto. Son pronto. Pigio il bottone di metallo cromato e
corro veloce al mio posto mentre conto fino a dieci. A sette sono seduto. A
otto mi sistemo il cappellino da pescatore del babbo. A nove sono pronto.
Dieci. Immagine acquisita. Son contento. Adesso posso andare alla ricerca degli
amici che trovo intenti a divorare un panino seduti sopra ad un muretto vicino
al canale. Mica racconto quello che mi è successo. Lo tengo per me in attesa di
poter stampare la foto bianco e nero dieci per quindici senza bordo.
Di quel viaggio
mi resta un’altra immagine stampata 18x24, sempre bianco e nero, di un
ragazzotto con la salopette di jeans, le scarpe da ginnastica verde ramarro e i
calzini in sottocolore. A torso nudo e con un cappellino bianco sul capo. Il
ventenne sta seduto sopra a certe pietre bianche che fanno da bordo alla
laguna. Al polso sinistro si nota un cinturino di pelle nera. Probabilmente si
tratta di un orologio a carica a mano preso a prestito dal genitore. Il
figliolo ha una faccia da ingenuo e socchiude gli occhi al sole invadente. Sul
fondo dei palazzi a pelo d’acqua e un campanile di mattoni denuncia il luogo del
ritratto. Altre volte, negli anni successivi, mi son recato ivi. Ne ricordo
alcune in ordine temporale.
Un anno dopo il
diploma dell’università mi trovo a partecipare, insieme al professore della
tesi ed altri amici, ad uno delle mie prime tenzoni sul progetto. Era stata da
poco istituita la biennale di architettura curata dall’Aldo. Era la prima di
siffatto titolo e al vincitore spettava un leone di sasso. Ce ne erano dieci
per altrettanti luoghi in città e, come si diceva allora, nell’hinterland. Si
trattava di disegnare la piazza centrale di un paesino perso nella campagna
veneta. Il borgo era nato intorno ad un edificio lungo e stretto munito di
porticato a doppia altezza sul fronte. Il fabbricato, se lo leggevi dall’alto,
assomigliava ad una virgola distesa sulla campagna. La villa padronale si
trovava a un par di chilometri dal paese. La virgola si chiamava “barchessa” e
serviva, tempi addietro, per l’ospitalità dei braccianti della fattoria.
Badoere è il paese da riformare. La piazza è tagliata nel mezzo dalla strada
provinciale e accerchiata dagli opifici, sgraziati e postmoderni, della
produttiva Italia dell’est. Fabbriche e capannoni e casette in forma di
villetta. Veramente brutte.
Aiutatemi a dire
brutte. “… Brutte”. Grazie.
Durante un
giorno di maggio si parte, insieme al nostro capitano, per un viaggio. Si va
per sopraluoghi. Si va a leggere il luogo. Foto e misure e disegni e
impressioni e appunti. Prima però è d’obbligo una deviazione di una trentina di
chilometri per andare al cimitero. In quel recinto sacro ci sono le spoglie
mortali di una grande disegnatore. C’è la tomba del Carlo architetto del
negozio Olivetti della piazza del Leone dorato che vola sulla laguna. La città
del titolo mica si vede anche se ne sentono gli umori e gli odori nel mentre si
sosta davanti alla lapide di pietra.
Dopo la visita
il progetto. Ricordo di tutta una serie di giornate (e nottate) spese a
disegnare città che volano sopra alla barchessa. E poi si facevano discussioni
di gruppo. E ancora si disegnava sopra a fogli di carta burro formato azero.
All’ultima riunione del gruppo; quando ancora noi giovinastri si ragionava di
piazze spaziali per le persone che
stavano sopra a strade per le macchine; il nostro capo tira fuori un pezzettino
di carta formato mezzo a4. Sopra c’è un appunto piccino piccino e un disegnino.
E il nostro condottiero se ne esce con: “… si … questa piazza sopra la strada
non è male ... ma che ne dite di questo?”
Improvvisamente
le nostre convinzioni moderniste si sfaldano.
Davanti a quel
tracciato che ragiona, devo dire, veramente di architettura il gruppo, a
malincuore, si ricrede e mette da parte le sue aspirazioni progettuali e dice:
“ … si … questo non è male”. Si continua
allora sulla falsariga dello schizzo. Il progetto è fatto e spedito. Passano
alcuni mesi e poi è il tempo della vendemmia. Ci si reca in laguna il giorno di
apertura della mostra relativa ai concorsi. C’è un lettore, forse il presidente
della biennale, che legge i temi e i rispettivi leoni di pietra assegnati. E
quanto arriva alla piazza del paese da riformare racconta che: “… nonostante la
grande qualità dei progetti presentati … eccetera … la giuria ha ritenuto di …
non assegnare l’animale di sasso … eccetera …”. Dentro i padiglioni e
all’interno del catalogo il progetto nostro si posiziona al primo posto ma il
leone è volato.
Un'altra volta
sono passato sopra ai canali. In occasione di un carnevale verso la fine degli
ottanta. Si parte in quattro con una ritmo nera e 105 cavalli dalle rive
dell’Arno fino a piazzale Roma. Siamo tre somari e un brigante, due coppie di
sposi e quattro amici. Prima si vanno ad incontrare una barca di amici li
vicino. Anzi in verità siamo loro ospiti. E per onor del vero si dorme dalla
Maria; sorella di Carlo; che ci è amico per il tramite della Rosanna che, al
tempo, è la morosa del Giorgio dottore dei denti. Ci si trucca in faccia e ci
si veste pesanti che stasera è particolarmente freddo. L’automobile è
parcheggiata lungo una stradina buia. Un posto consigliato dai veneti che
conosco i luoghi e assicurano che i vigili, a quest’ora della notte, non
passano di certo a lasciare bigliettini
rosa. Erano i tempi del Gianni politico socialista. I giornali lo definivano
“il doge” e lui se la godeva alle feste nei palazzi affacciati sul canale. Noi invece
si andava alla pedona per calli e ponti e campi. Non ero mai stato in laguna di
notte.
La città è
magica. Il buio gli conferisce un sapore tutto nuovo. C’è la gente che vuol
ballare e divertire. Accantona i pensieri di tutti i giorni. Il lavoro, la casa,
i figli, la società, la politica e va “per ombre”. E anche noi. Dalla piazza
dove riposano le macchino si va a piedi per stradine e vicoli fino alla piazza
con le logge davanti all’acqua. Ho memoria di almeno sette osterie. In ognuna
di queste ci si ferma a bere e mangiare stuzzichini. Bianco o rosso non fa
differenza. Tutta la notte a giro. Bellissimo.
La vera sorpresa
arriva all’alba. Si torna verso la carrozza a motore posteggiata nella stradina
buia. Adesso la via è illuminata dal sole del mattino. E la macchina pare
strana. Pare che ci si possa veder dentro. Come se, dalla parte del passeggero
davanti, qualcuno avesse tirato giù il finestrino. Anzi. Avvicinandosi si pole
notare che il vetro manca proprio. Perdindirindina. Ci sono in terra dei pezzi
che luccicano. Sono i mille pezzi della lastra trasparente. E la radio che
troneggiava nel mezzo della plancia è andata a suonare da un’altra parte. Tra
mille maledizioni al malandrino si riparte; mestamente; per la vicina
terraferma.
L’ultimo viaggio
che qui preme riportare ragiona di un vaporetto che corre lungo il canale
grande e passa sotto al ponte con le botteghe sopra. Siamo in tre. Tre amici
per la pelle che adesso lo sono meno. Due si occupano di muri e oggetti mentre
il terzo; che per campare fa punture sulle gengive; viaggia per incontrare la
fidanzata che invece insegna ai ragazzi piccini e poi il pomeriggio discorre
con il cervello degli adulti. Ci si reca alla visita dell’ennesima biennale.
Non ho memoria se fosse di cinema, di arte o di architettura. Anzi non ricordo
per niente la visita ai giardini affacciati sull’acqua salata.
Millenovecentonovanta o giù di li. Pensa
che ti ripensa mi sovviene solo un giro dentro la libreria di legno e vetro
appena costruita su disegno di “Jim il grasso” che ho studiato e amato al tempo
dell’università. I volumi erano troppo costosi per le finanze del tempo e
allora mi porto a casa solo quattro o cinque cartoline con le immagini dei
progetti del disegnatore di musei e biblioteche che per colazione si pappa; ci
giurerei; quattro o cinque piatti di pancetta con le uova. Se fossi meno
disordinato forse troverei le foto colorate, diapositive in verità, che di
sicuro a quei tempi facevo stampare dalla bottega sotto le logge del paese dove
lavoravo. Ma tant’è.
Invece ricordo
benissimo la visita alla città e soprattutto al mercatino accanto al ponte di pietra
bianca che varca il canale monumentale. Si è fatta sera e le luci dei
baracchini sono accese. I commercianti, ognuno a modo suo, magnificano la merce
esposta. Tutta roba di artigianato locale o presunto tale. Fatto in Cina c’è
scritto sotto a caratteri mignon. Ci son ignobili soprammobili di vetro e legno,
piattini i ceramica e via di seguito. E ancora cavallini e leoni alati, pesci
di diverse forme e misure e altra paccottiglia del genere. Rammento che la Silvia era rimasta a casa
per via di una certa consegna di documenti. E ho in mente che aveva fatto le
faccine alla comunicazione della gita in laguna. E allora magari se gli porto
un pensierino riesco a rabbonirla. Sarà difficile ma ci provo.
Mi metto a
frugare sotto quel ciarpame.
Esploro alla
ricerca di un souvenir all’altezza delle mie possibilità economiche ma anche e
soprattutto per il sorriso dell’amata. Ma quello che cerco non lo trovo. Allora
son costretto a domandare al gestore della bancarella. La signora è anziana e
gentile. Alla mia richiesta si mette a pensare. Pare che gli fumi la testa da
quanto è concentrata. Poi si alza dallo sgabello e fruga in certe buste di
plastica sotto il banchetto. E mentre ne esamina il contenuto mormora alcune
frasi in dialetto stretto che non saprei riportare se non con l’aiuto della
Rosa. Provo a tradurre quello che mi sovviene: “… eppure c’era … stamani l’ho
vista … era sotto alla barchetta con le lucine … vedrà, caro signore, che la
trovo … mi lasci un poco di tempo …”. E Poi all’improvviso: “ … eccola … ha
visto che c’era? … è l’ultima che ho … e non se ne trovano più … è una roba dei
primi del sessanta … e l’artigiano che le produceva è andato in pensione … è un
pezzo unico … guardi come è bella e lucida … è questa?”. E io, mentre la piglio
in mano per rimirarla: “ … si … è proprio questa … è veramente quello che
volevo … quanto viene?”. “Cinquemila…”. “La prendo … mi ci fa un pacchettino
con il fiocco rosso … grazie”. Mi pare un acquisto adeguato all’occasione.
Ammiro il regalo estasiato e penso: “ … se è vero quello che dice la vecchia il
costo merita la spesa … e poi è pezzo unico … quasi un opera d’arte … uguale a
quella che avevo da piccino”. Si tratta di una mattonella di ceramica nera con
dietro il gancino per appenderla al muro. Misura quindici per quindici spessore
millimetri cinque. Sopra al nero c’è un leone di san Marco dorato con le ali e
tutto l’ambaradan. Sotto all’animale c’è una scritta rossa in forma di filastrocca
che racconta di un viaggio e di un ricordo: “a Venezia andai … a te pensai … questo ricordo ti portai”. Pago
e afferro il pacchetto.
O meglio cerco
di agguantarlo perché in realtà sbaglio il tempo della presa. L’involto finisce
in terra e uno strano rumore; come di ceramica che si rompe in mille pezzi;
accompagna la caduta. Non mi scompongo per niente e, con flemma inglese, chiedo biglietto e busta alla
venditrice. Tiro fuori di tasca la stilografica nera e scrivo: “a Venezia sono
stato … a te ho pensato … questo pensiero ti ho portato”.
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