Lettori fissi

30/07/20

Vorrei


Vorrei | 2003

 

Vorrei mangiare più sano e naturale.

 

Vorrei nutrirmi con i prodotti che usavano le nonne. Vorrei assaporare i prodotti naturali. Vorrei … ma la sera torno tardi; apro il frigo; accendo il forno e mi pappo la porzione precotta davanti alla televisione.

Vorrei vivere senza dover pensare alla guerra del petrolio. Vorrei vivere in pace. Vorrei essere un po’ americano e un po’ arabo. Vorrei… ma guido l’automobile e sono pieno di contraddizioni. Vorrei costruire un edificio per i bambini. Vorrei costruire una scuola. Vorrei costruirla senza cemento.

 

Vorrei … e allora ci provo.

 

Tutto sommato sono (siamo) affezionati alle cose normali; al pollo del contadino e all’offerta imperdibile del supermercato; un po’ di tecnologia e un pizzico di natura. Viviamo una normale vita e proviamo a pensare da architettori. Edilizia e architettura. L’architettura per i figlioli e per le maestre. L’architettura per lo studio e per il gioco. Civica e urbana a un tempo. Adatta allo studio ma pensata anche per il gioco. Che inizia in una piazzetta asfaltata contornata da un gruppo di case sgranate lungo un antico percorso a mezza costa tra Firenze e il Valdarno.

 

Il posto dell’architettura è un campo un tempo coltivato ad olivi di forma rettangolare irregolare. Un muretto in pietra alberese lo divide da una piccola strada a piedi. Un canale di scolo lo confina sull’altro dirimpetto. Il bordo a contatto con la piazzolina è caratterizzato da una scarpata alberata . Il terreno è in pendenza verso il baso e si apre verso una; ancora abbastanza interessante; tipica campagna toscana.

 

Questo è il luogo.  Vediamo il progetto.

 

L’ingresso si intravede percorrendo la via del San Donato. Le auto accedono da passaggi separati e si posizionano in file ordinate sopra ad un prato. I pulmini dei bambini in età prescolare continuano verso la parte bassa del lotto e lasciano gli scolari vicino all’ingresso della materna. I ragazzi delle elementari e le insegnanti percorrono un piccolo ponte/viadotto e trovano l’edificio. Un fronte orientato verso nord e verso la piazza. Una loggia di ingresso.

 

Accediamo insieme ai figlioli.

 

I custodi ci accolgono nella loro stanzetta e ci guidano lungo un emiciclo che, ogni tanto, affaccia nel piano sottostante. Verso destra il corridoio da acceso alle varie classi ordinarie, a quelle speciali, ai locali per l’igiene e alla biblioteca. A sinistra possiamo entrare nella palestra/auditorium  mentre se apriamo la porta di fronte siamo dentro alla stanza delle maestre. Ma noi continuiamo il nostro giro e scendiamo la scala.

Adesso camminiamo al piano terreno che si sviluppa in maniera simile al di sopra. Se fosse mezzogiorno potremmo entrare nella mensa e mangiare. Ma sono le otto e allora bisogna entrare in aula. La maestra ci accoglie. La forma del locale è strana; assomiglia ad un pezzo di torta come quelle del compleanno. Il soffitto è di legno dipinto, le pareti gialline sono finite con un normale intonaco a calce. Sul lato opposto alla porta di ingresso tante porte vetrate conducono lo sguardo verso l’esterno.

 

Forse possiamo uscire?

 

No perché adesso è ora di lezione. Sistemiamo le nostre cose e ci sediamo. Il tempo scorre in fretta. Sono le dieci e quindici. È ora di merenda. Ai nostri tempi (noi che raccontiamo) si chiamava colazione ma tant’è. La maestra giovane e carina. Simpatica e gentile. Bambini potete uscire all’aperto ma mi raccomando non andate per le scale. Io e la mia amica del cuore usciamo. Siamo dentro a una specie di cortile semicircolare contornato da un portico con ballatoio al piano di sopra.

 

Forse sono dentro all’architettura?

 

E’ una bella giornata di settembre e tutti i ragazzi sono fuori. Faccio amicizia con un sacco di gente e ritrovo anche alcuni amici con cui ho frequentato la materna l’anno passato. Sono curiosa; lascio il gruppo delle ragazze mi avvicino al fondo della piazzetta pavimentata con una pietra bigia con ricorsi bianchi. C’è un muretto e un cancello. Da una parte una piccola cascata attira la mia attenzione. L’acqua scorre sopra a un muro in pietra e accompagna una rampa a piedi.

 

Guardo giù.

 

C’è una vasca piena di un liquido trasparente tipo (come mi ha insegnato babbo) acca due O . Appena finisce la vasca inizia una parete vetrata e vedo Guido, il fratello piccino che proprio oggi inizia la materna. Mi vede anche lui. Lo saluto e decido di scendere di sotto. Piano piano che tanto nessuno mi vede apro il cancello e vado. Lui corre all’ingresso e ci incontriamo.

 

Mi racconta un sacco di cose.

 

Mi racconta delle maestre e della scuola, del pulmino che lo ha portato fino a dentro e dell’autista. Mi dice  che le sue stanze si aprono verso un campo di olivi. Il soffitto della sua aula è “… una specie di triangolo in legno …” e fuori l’aula è schermata dal sole per mezzo di un pergolato in legno. E’ felice perché ha ritrovato tanti amici del nido. Le insegnati lo hanno guidato alla scoperta della scuola e delle aule speciali. Si è molto divertito soprattutto quando hanno fatto i salti e le capriole nell’aula delle attività motorie. Continua nel racconto e mi confida che dopo mangiato le maestre hanno promesso di condurre la sua classe dagli animali. Ci sono i polli e le anatre. C’è anche un cane che si chiama Campione. Vorrebbe continuare ma la sua maestra lo chiama.

 

Io fuggo di sopra e mi intruppo con gli altri.

 

Si torna in classe. Si torna a lezione. Che palle. Per fortuna tra un ora ho ginnastica. Per fortuna l’ora passa veloce. Su bambini prendete lo zaino delle scarpette che si va in palestra. Siamo dentro una grande stanza molto alta. Delle strane strutture a triangolo reggono la copertura. Ci cambiamo nello spogliatoio per le femmine.

 

Devo fare pipi..

 

Vado in bagno e dopo mi metto la tenuta da ginnica. Mi piace la ginnastica e domani, in paese, inizio il corso di quella artistica. Esco dal locale e una fitta fila di colonne mi accoglie. Su in alto vedo passare una maestra che ci saluta. Ci divertiamo a fare gli esercizi fino alla mezza.

 

Adesso è ora di mangiare.

 

E’ una delle cose che più mi piacciono. Speriamo però che non ci sia il pesce con l’insalata perché allora salto il pranzo. Ho fortuna che il menù propone: spaghetti al pomodoro, fettina ai ferri e patatine fritte. La frutta la mangio a merenda. Il dopo mangiato scorre lento. Non vedo l’ora di uscire per raccontare alla mamma tutto quello che ho fatto nel mio primo giorno di scuola.

 

Mi sono scordata di parlare del Lucignolo in bronzo che mi ha accolta all’ingresso ritto sopra un basamento circolare in pietra. Speriamo che i soldi per costruirlo siano sufficienti altrimenti mi tocca chiedere al babbo di rinunciare all’arte


23/07/20

Uno zero quattro



Uno zero quattro | 2020

Centotre è un numero primo.

Centoquattro no; nel caso in questione è la somma di cinquantadue sommato a se stesso. Uno zero quattro è un numero composto come tanti e come tale non particolarmente significativo per la ricerca matematica o per il destino dell’umanità.  Per esempio non è neanche sfiorato della serie aurea o di Fibonacci per via che sta lontano sia da quello precedente 89 che dal successivo 144. Se viceversa si fanno ricerche nel campo delle proprietà matematiche si trovano diverse informazioni e curiosità.

In tal caso gli interessati se le vadano a vedere.

Per quanto mi riguarda due anni di novelle settimanali fanno per l’appunto questa cifra. Con questo numero mi ero proposto di chiudere i secondi trecentosessantacinque giorni di racconti e prendere una pausa.

Poi ho contato i racconti avanzati

Tra finiti, corretti, battezzati abbozzati e avviati sono (quasi) arrivato a coprire la prossima stagione.

Ergo: pronti … al tre … uno due tre … via.

Buone letture.

16/07/20

Interviste improbabili: 3 domande a Carlo Scarpa



Interviste improbabili: 3 domande a Carlo Scarpa | 2020

Per darmi un po’ … così … di coraggio ho voluto consultare il vecchio Vocabolario della Crusca per vedere alla parola arredamento cosa si diceva. E  … anche il Dizionario etimologico del Battisti. Per la parola arredo - arredamento … La Crusca dice alla parola arredamento: “Provvedere del necessario” …
Carlo Scarpa, Arredare, Iuav, Venezia 18.03.1964

Lo vedo appena svoltato l'angolo. Preciso dove aveva detto si sarebbe trovato; seduto al tavolino appena fuori il locale con vista sul canale. Il minuscolo piano circolare di formica verdina è occupato da tre piattini di cicchetti, due ombre e un taccuino cartonato colore rosso sormontato da una stilografica nera. Il pomeriggio del primo giorno di primavera vira verso il tramonto e pennella il cielo con spruzzi giallo - rossi sfumati all’arancione. La scena è quella giusta. Saluto. Sorrido. Siedo. Tre domande. Tre città. Tre storie.
D Firenze.
R C’ho lavorato in più riprese per almeno una ventina d’anni. Quasi sempre in coppia con un carissimo amico che non ha poi avuto al fortuna critica che si meritava. Stiamo finendo la sistemazione dell’atrio di un albergo tra le vie San Gallo e delle Mantellate. La cena, come al solito, è consumata alla trattoria Tito. Durante il pasto finiamo a parlare di fegatelli e del modo di cuocerli. Secondo me, che son foresto, la morte sua è arrosto girato con framezzo di pane raffermo e foglia d’alloro. Per “Ed”, casentinese di nascita, il vero fegatello di maiale è cotto sulla brace a fuoco vivo. Mentre ci stiamo accapigliando sulle sottigliezze della rete avvolta su uno o due giri un’improvvisa folata di vento accompagna l’ingresso di cinque loschi figuri. In realtà, scoprirò poi, son ragazzi di trent’anni e cercano me. Son vestiti e si qualificano come architetti che hanno elaborato alcune teorie in gran voga sulle riviste di quel periodo. Uno di loro, quello con gli occhiali di tartaruga e il basco, racconta che hanno appena ricevuto invito a partecipare a una grande esposizione al MoMA di NYC dal titolo “Nuovi paesaggi domestici”. L’altro che lo fiancheggia, con i baffi e la macchina fotografica a tracolla, senza proferir parola appoggia sul tavolo un fiasco di Nipozzano e sette bicchieri. Brindiamo all’architettura.
D Verona.
R È un posto che ha del magico per almeno tre o quattro ragioni. L’Arena, Romeo e Giulietta anche se sono inventati, piazza delle Erbe, Cangrande della Scala e buon ultimo Castelvecchio. Questo pezzo di città l’ho percorso e disegnato in lungo e in largo per oltre un ventennio: edifici,  mura storiche, ponte, cortili e giardino. Se n’è uscito uno spazio espositivo che ancora oggi; almeno questo taluni affermano; risulta moderno, contemporaneo e felicemente easy. Una volta, intorno alla fine dei novanta, mi son visto “… sfrecciare una piccola sagoma gialla ... (che in) … folle corsa scansa, per miracolo, tutte quelle testine sorrette da eleganti strutture di acciaio che stanno su per miracolo”. Fino al condottiero che in gioventù scorrazzava per le vie della città e adesso riposa in alto sotto la loggia. Bianco lui e bianco il destriero. Tutti e due “ … sospesi nell’aere. Pronti a spiccare il volo verso la gloria”.
D Venezia.
R Facile. È la città che amo. Dove ho studiato,  insegnato e lavorato. Il luogo del cuore è un piccolo negozio di macchine da scrivere sotto i portici di piazza San Marco. Adriano, l’illuminato committente, mi lasciò carta bianca e briglia sciolta. I lavori terminarono nel cinquantotto e d’allora lo spazio ha subito svariati attacchi dal tempo e dagli uomini. Comunque se ci passi è ancora aperto.
D Mi prendo la licenza per una quarta: San Vito …
R … Alt. Per questo solo una battuta: c’ho progettato una grande tomba di famiglia che recinge il piccolo cimitero locale. È stato il mio ultimo lavoro e mi ha impegnato fino alla morte. E oltre.


Venezia: ombre, cicchetti e chiacchiere.
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09/07/20

Pezzo di legno





Pezzo di legno | 2011

Storia di un burattino
“Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.”
Carlo Lorenzini, cap. 1°, 1877


La conoscenza è il contrario dell’ignoranza.

E per un pischello dei primi anni sessanta la bottega del nonno è il sapere dell’antico mestiere. Li ci passa le lunghe giornate estive in compagnia del fratello. Nel laboratorio del legno ci va a giocare e a scartare i regoli delle persiane e anche e soprattutto a far confondere il parente. L’officina è la sua prima scuola e il banco è il suo primo tavolo da disegno.

Il manufatto è vecchio e malandato come il suo padrone.

Il piano da lavoro è assai pesante e robusto. È lungo due metri e mezzo, largo sessantacinque e spesso una decina di centimetri. È fatto tutto di legno massiccio con quattro grandi gambe inclinate collegate da traversi in guisa di tiranti di collegamento. Per lavorar sul piano il ragazzo deve salire sopra allo sgabello.

Li sopra si diverte a girare il vitone di una delle due morse.

Quando il titolare dell’attività s’inalbera di brutto il figliolo si sposta dall’altra parte e traffica con gli attrezzi riposti nella scanalatura di sinistra. Quando poi il Bruno anziano va a montare le persiane quello giovane prende le consegne della bottega. Diventa “padron del baccellaio” e sale sopra al ripiano a baloccarsi con la raspa o a infilar perni di legno dentro a uno dei quattro fori quadrati che forano la lastra di quercia. Il bancone e la bottega si trovano nel “Colcitrone”; il quartiere più popolare, povero e antico della città.

Da quel pezzo di legno comincia l’esperienza del nostro disegnatore di mobili e case e cose. Sopra a quel panchetto  impara i vari sistemi di fissaggio e di finitura e anche i molteplici tipi di legname. Quest’insegnamenti li travasa nella professione quando comincia il mestiere d’architetto.

Il funzionamento dei giunti, l’unione dei materiali e la fissa del dettaglio l’ha di sicuro imparata allora. L’altro giorno ho avuto la ventura di visitare alcune case disegnate dal ragazzo con la barba. Son passati una quarantina e passa d’anni ma la voglia di esperimentare è rimasta la stessa.

Della prima; una costruzione di sana pianta contemporanea; mi è rimasto in mente il porticato a tutto volume del fronte. E di questo il soffitto. Sarà lungo una ventina di metri per duecentocinquanta centimetri. La struttura è di cemento armato a vista. Il rivestimento è di legno intarsiato secondo un motivo geometrico che discende dalla geometria del triangolo. Dal basso apprezzo l’eleganza del connubio tra le due essenze: frassino per il fondo e olmo sbiancato per le seghettature che si rincorrono senza soluzione di continuità a formare il decoro. Del dentro ricordo un paio di muri ornati dall’amico Roberto; artista di poche parole e molti fatti; e tre tavoli proporzionati sul rettangolo aureo. Trattatasi di pezzi replicati da un unico modello che ha il suo punto di forza negli intarsi del piano. Faggio per le strutture portanti e almeno cinque essenze di legno per le tarsie.

Le altre due abitazioni son piuttosto dei palazzi storici dove il progetto dell’architettura si è concentrato sul restauro e su alcune invenzioni sugli spazi, sull’uso dei materiali di finitura e sulla scelta ragionata di mobili e oggetti di buon disegno. Anche qui rammento alcune pareti ingentilite dalle opere dell’artista. E poi diversa mobilia, soprattutto contenitori e tavoli, costruita appositamente. E di quest’ultimi provo a raccontarne un paio. Quelli; a modesto parere; venuti meglio.

Il primo sta dentro una stanza quadrata voltata da una crociera.  Il piano è di cristallo circolare del diametro di centosessanta o giù di li. Le tre zampe che lo sorreggono son la trovata del designer di razza. Tre morali di noce nazionale sono connessi tra loro secondo una forma spaziale che ricorda un “cavallo di Frisia”. In realtà ogni travicello è composto nove listelli incollati e giuntati con perni incastrati.

Il secondo è al centro della cucina che è congegnata sul modello della casa colonica. Il locale è molto semplice. Una grande parete vetrata occupa un lato. A destra il blocco per cucinare in laminato e acciaio, a sinistra l’interpretazione contemporanea della madia in frassino scuro e nel mezzo il tavolo rettangolare. Anche questo, come molte realizzazioni, discende dalla geometria del quadrato. Anzi del cubo. Ne sono occorsi sedici per i quattro sostegni più novantasei per il piano. Tutto legno massello di acero montato a disegnare una specie di grande scacchiera.

Qui i riferimenti si fanno ancora più sottili, colti e contemporanei.

Non so a voi ma a me ricorda l’immagine di un campo di olivi con tanto di buoi e contadino a badarli. Al centro della fotografia ci sono diversi ragazzi che giocano sopra a certi mobili di laminato disposti alla rinfusa sopra all’erba.

Son sicuro che l’anno dello scatto è il settanta.

Non ricordo invece il disegnatore e neanche il nome o l’azienda produttrice. Sono altrettanto sicuro che il Benci lo saprebbe.



Omaggio ad un amico e al Professore.
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02/07/20

Un segno, esplorazioni



Un segno, esplorazioni | 2004

SCENA 1 | Esterno, piazza dei Priori.

Mattia
“Mamma … mamma … non ne posso più; fermiamoci ti prego”.

Il piccolo Mattia è stanco. Da stamattina in giro. Prima in visita alle aziende agricole biologiche e poi nella città dell’alabastro a visitare il museo. Adesso finalmente ci fermiamo. Ci fermiamo in piazza dei Priori al bar di fronte al comune.

Irene
“Uffa … finalmente una sosta. Sono stanca”.

Tardo pomeriggio di un giorno di fine inverno. La famiglia in vacanza è riunita ai tavolini del bar. Giovanni e Mara sorseggiano due aperitivi poco alcolici mentre i due ragazzi si sono presi due giganteschi bicchieri di cola con la cannuccia corta. Tutti sgranocchiano noccioline salate. Stanno discutendo sull’opportunità di recarsi alla festa del babbo oppure cenare all’agriturismo consigliato. Improvvisamente Irene si alza e si infila dentro un vicolo. La mamma, preoccupata,  la chiama:

Mamma
“Irene … Irene … Irene … dove vai”?

Irene
“Vengo subito mamma … arrivo subito. Vado a riprendere la guida del Touring che ho lasciato sul muretto in fondo al vicolo”

SCENA 2 | Esterno, In fondo al vicolo

La bambina corre veloce fino al muretto e recupera la guida. La apre al segno che aveva lasciato a pagina trentadue e legge:

Irene
“Da qualunque lato vi si giunga il profilo di Volterra domina sulle colline circostanti e rivela l’importanza goduta dalla città: importanza in gran parte legata alla configurazione del colle posto alla confluenza della val di Cecina e della val d’Era”.
E’ affascinata dalla storia e soprattutto dall’età medioevale che sta studiando in quei giorni. Studia poi la pianta della città e si accorge che non vi è menzione della piazza dei Fornelli dove il babbo ha appena concluso la sua ultima opera. Memorizza la planimetria del luogo e si incammina, incurante dei consigli della mamma che tutti i giorni la esorta a non girare da sola in posti sconosciuti, nel dedalo di viuzze della città vecchia. Si avvia in esplorazione.

SCENA 3 | Esterno, piazza dei Priori.

La mamma è preoccupata per la figlia. Si agita nella sedia. Prende la borsetta di coccodrillo di Prada ed estrae il telefonino. Rivolta a Giovanni:

Mara
“Adesso la chiamo e mi sente. Tutti i giorni le ricordo di non andare da sola nei posti che non conosce. Ma lei non mi dà mai retta. Assomiglia a te”.

Giovanni
“Assomiglia a me? Dimmi piuttosto che gli ha insistito così tanto per regalarle il telefonino per il suo compleanno. Lo sai e a me tutta questa tecnologia in mano ai ragazzi non piace neanche un po’. Anzi non mi piace affatto. Lo sai che anche nel lavoro mi sono convertito alla roba elettronica solo anno scorso. E raccontami ancora chi gli ha fatto trovare il pacchetto sul tavolo della colazione invece che domani alla festa.  Raccontami chi …”!

Mara (spazientita)
“Ma finiscila. Sei sempre il solito bastian-contrario. Tutto quello che faccio non va mai bene”.
Il tasto verde della chiamata è intanto inserito … parte la musica … e poi la voce sintetica dell’operatrice racconta:

Operatrice
“Messaggio gratuito da Tim … la persona che sta chiamando per ora non è raggiungibile … vuoi richiamare più tardi”?
 La signora Mara, sempre più su di giri, rivolta al marito:

Mara
“Ecco. Lo sapevo. Ha il telefono spento. Allora ho ragione. Imbranata come te in tutto e per tutto”.
Il piccolo Mattia si lancia intanto nell’ennesima battaglia contro il male insieme al suo fido Superman.

Mattia
“Schiunn … fischh … spackk ... dlengg ... “.
Il piccolo uomo di plastica con la tuta e il mantello blu finisce sopra al bicchiere della mamma che si rovescia e spande il contenuto sulla gonna di Gucci.
La mamma ringhia e si alza alla ricerca di un fazzoletto.
Giovanni annuisce soddisfatto sorridendo contento sotto i baffi per aver vinto il primo round.

SCENA 4 | Esterno, esplorando la città.

Intanto la nostra eroina, ignara del battibecco dei genitori e presa dalla sua personale esplorazione, ci porta a spasso per il labirinto di strade e vicoli della città vecchia. Scopre la Rocca e la Fortezza sede della prigione. Ne ammira le possenti muraglie e saggia la resistenza delle pietre scalfendole con il coltellino svizzero regalatole a Natale. Scende lungo il vicolo dei Ponti e arriva al Duomo. Si sofferma al Battistero a strisce bianche e verdi. Ci gira intorno. Si rende conto della perfetta figura geometrica dell’edificio e si racconta a voce alta:

Irene
“Accidenti … è quasi un tondo. Però fatto da otto lati. Mi pare che si chiami ottolati.  No. Ora mi ricordo la lezione della maestra di matematica. Ottagono. Si chiama ottagono. Ganzo”.

Intanto si sta facendo buio e si accendono le prime luci. I negozi cominciano a chiudere i bandoni e noi ci inoltriamo insieme alla bambina sotto al portico della banca che si siede a pensare alla forma del paese. Cerca di visualizzare la planimetria e si ricorda che il babbo le ha raccontato di aver lavorato al progetto di una piazzetta circolare. Sente di essere vicina. Si alza e si incammina. In un cantone legge la targa della strada “… via Ortorotondo” e pensa:

Irene
“Ecco. Sono vicino. Sono arrivata”.

SCENA 5 | Esterno, verso la caserma

I genitori preoccupati strattonano il figlio e si avviano alla vicina caserma dei carabinieri a denunciare la scomparsa della figlia.

SCENA 6 | via Ortorotondo

La bambina cammina sul selciato nuovo di zecca con lo scolo delle acque al centro della via. Giunge in un piccolo slargo tra due edifici e si ferma sotto ad uno strano volume di legno e vetro. Sul fondo c’è una scaletta e poi un cancello semiaperto. A destra una porta abbattuta la invita a entrare. Adesso si trova dentro. Una scala in legno la invita alla salita. Lei accetta la sfida e si lancia nella penombra. Si lancia per le otto rampe fino in cima. Ora è sopra una strana passerella fatta di assi di quercia scura. Da qui può intravedere il fondo buio del pozzo da cui è entrata. A destra il muro di legno. A sinistra una vetrata. Non ci sono porte. A voce alta riflette:

Irene
“Che roba strana. Chissà a cosa serve una scala che porta nel nulla. Che ci viene a fare quassù”?

Improvvisamente si fa giorno. Si accendono le luci automatiche e allora capisce. A destra, sul muro di legno, si riconosce il battente di una porta chiusa a chiave. A sinistra una porta a vetri socchiusa conduce ad un terrazzino. Apre l’infisso e si trova fuori. Il terrazzino è un osservatorio e lei si trova nel punto di osservazione. La stanza con la scala è una specie di faro. Una grande lampada che sparge luce intorno.

Dall’aggetto si mette a fare il suo mestiere di bambina curiosa. Osserva.
Sotto di lei un prato con un muricciolo. Quattro cipressi. Altrettanti piccoli cilindri di metallo scuro mandano una luce radente su uno spiazzo in pietra giallognola. Sullo sfondo il naturale finale della via dell’Ortorotondo. Un prato rotondo. Una piccola vasca con luci dentro l’acqua. Una panca rotonda di pietra bianca. Un uomo di pietra sopra ad un basamento osserva la campagna in lontananza. Sui gradini di un piccolo anfiteatro un gruppo di ragazzi discute animatamente.

La bambina ha osservato.
Scende la scala e si accorge che alcune nicchie sul muro di legno accolgono altrettanti piccoli oggetti di una pietra bianca ma trasparente. Strani oggetti per un posto strano. In fondo alla scala l’aspetta il cancello socchiuso. Un brusio dietro l’angolo la invita a sospingere l’inferriata.

Si affaccia appena sul cortile. Vari gruppi di persone vestite a festa discutono amabilmente calpestando uno spiazzo erboso. I camerieri sfilano tra la folla con vassoi ripieni di tartine e bicchieri. Le signore sono ingioiellate e i signori vestono in smoking.
Tutta sudata per l’esplorazione si sente un po’ come la Sabrina di quel film in bianco e nero che ha visto in televisione la settimana scorsa. Allora si ricorda della festa di cui parlava il babbo. Allora si ricorda che è tardi e forse i genitori sono preoccupati della sua assenza. Adesso comincia a rendersi conto di essere stata assente per troppo tempo e si decide per incamminarsi verso la piazza.

Però prima deve lasciare un segno.
Lei lascia sempre i suoi segni quando va in esplorazione. In un angolo c’è un leggio e sopra un libro di pagine bianche.

Irene; scrive
“Domani è il primo giorno di primavera e io compio otto anni”.


La sceneggiatura per un corto mai cominciato.
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