Lettori fissi

29/05/21

Stortignaccolo

Stortignaccolo | 2021 . I. Il lotto, un rettangolo che misura 85x427, è stretto tra terreni incolti e vetuste opere di urbanizzazione che magari si gioverebbero di un accurato restauro. Comunque sia il verde, apparentemente in forma di generica erbaccia in realtà una sapiente mescolanza di Gramigna e parenti suoi vari, la fa da padrone. Il terreno non ha nessun riferimento con intorni, luoghi o punti cardinali. E naturalmente non dialoga, anzi meglio si rifiuta di conversare, con il contesto compreso le costruzioni vernacolari che, sempre più prepotentemente, stanno spuntando nelle campagne limitrofe. Paperopoli o Villetttopoli che sia. Il paese che ci meritiamo. . II. Si sente diverso lui. E magari lo è. Fatto ne sia che l’appezzamento diventa, per cosi dire, una forma viva e senziente sulle tracce di racconti e storie del fantastico sin da quando si è cominciato a incidere l’argilla con lo stilo. Per cui comincia a pensare e studiare la strategia per migliorare la sua posizione nel mondo. Pensa e cogita fino a convincersi che la meglio è diventare architetto per se stesso. Ergo progetta la struttura che lo farà conoscere al resto dei suoi simili. Disegna lo scheletro di una capanna lineare. Dalle ragguardevoli misure di 387x41 alta centosessanta e due. Cinque pilastri inclinati di quindici gradi si specchiano verso altrettanti omologhi incrociandosi al centro. Cinque travate longitudinali uniscono le colonne dal basso fino in sommità stabilizzando e controventando la struttura. La fabbrica, in barba a tutte le regole urbanistiche incluse quelle di prossimità del lotto, buon vicinato e compagnia bella, è disassata di quindici gradi rispetto all’asse di simmetria longitudinale orientandosi lungo la dorsale est ovest e assumendo così un bel carattere modernista e contemporaneo. Una copertura trasparente alla bisogna e “il gioco sapiente dei volumi sotto la luce” è fatto. Semplice, efficace e di sicuro effetto: “easy”. . III. Ma la realtà a volte supera la fantasia. Lo sterro. la palificazione e il resto compreso gli elementi di raccordo e i giunti furono eseguiti, me ne scuseranno gli animali portati in causa, da cani e anche peggio. Orizzontamenti e copertura, anche se pagati nell’appalto a corpo, non sono mai stati eseguiti. Tanto che l’intera costruzione, mai terminata, risulta totalmente inagibile. Lo scheletro è un inno a spreco e non finito o meglio all’interrotto e il costruttore è stato invitato a rispondere per danni. Gli avvocati sono già al lavoro. Intanto per dare una sistemata ed un minimo di decoro sono stati piantumati 10 “Solanum lycopersicum” che a maturazione produrranno dei dolci e succosi frutti rossi. Rammento che all’epoca alcuni “soloni” erano talmente presi dal progetto che spesero parole impostanti come “Tarapia tapioco come se fosse antani con la supercazzola prematurata, con lo scappellamento a destra”. Son gli stessi che adesso scrivono i peggio articoli sulle patinate riviste del settore con frasi graffianti e cattive che non par cosa qui riportar. Da parte mia vorrei essere più prosaico e lasciar perdere i superlativi dei primordi e i dispregiati dell’odierna era e chiudere con una parola. . IV. Stortignaccolo.

23/05/21

Ai Mori

Ai Mori | 2020 In quel posto ci son nato. Si … eccome … lo rammento bene nonostante la demenza senile degli ultimi anni abbia offuscato alcuni vecchi ricordi. Adesso sono ospite dello splendido e da poco rinnovato ricovero di via dei Boschi dotato di tutti i confort e tecnologia previsti dalle leggi e anche di più. Pensate che oltre alla ritirata dotata di specchio e acqua corrente calda ha pure: radiatori sotto pavimento, luce sopra al letto, collegamento internet senza cavi e aria fresca in ogni stanza, ascensore e finestre con i vetri. Quando non prendo troppe pasticche a volte torno a prima della guerra. Salgo sulla macchina del tempo e via. Quando ci vivevo nella casa costruita da Leopoldo un paio di secoli addietro. Almeno così raccontava il capoccia quand’era in vena di chiacchierare delle vicende famigliari. Il babbo del mi’ babbo raccontava che la nostra famiglia ci viveva sin dalla costruzione. Anzi meglio l’aveva proprio inaugurata con tanto di grande desinare e balli e canti da mane a notte. Ad un certo punto si era presentato pure il fattore con la famiglia a bagnar lo stipite di pietra della porta d’ingresso. Pare che i due figli maschi rimasero fino a tardi anzi forse anche per la notte. Siccome non c’avevano ancora i letti dormirono tutti per terra e dopo nove mesi nacque un bel “cittino” di tre chili e settecentocinquanta. La mamma Assunta non rivelò mai il nome del padre e per questo la creatura fu chiamato Moro per via dei capelli corvini e occhi altrettanto. E a quel punto il vegliardo sparava sempre il numero 1793. Lo stesso che poi, quando mi hanno sollevato dall’incombenza del “badar maiali” e costretto a rispondere a scuola su lettere e numeri, ho imparato a riconoscere impresso sul mattone chiave di volta della crociera sotto il portico. La nostra era una bella casa. La maestra ne aveva anche parlato in classe durante l’ora di storia. La nostra apparteneva, con almeno trecento altre, alle così dette “Leopoldine”; coloniche e relativo podere sgranate lungo la valle in vicinanza della Chiana. A distanze pressoché uguali le une le altre quasi fossero tanti soldatini piazzati, nelle loro garitte, a difesa del fossato che taglia in due il fondovalle e la rende fertile come non mai. Comunque che fosse nostra o che la usassimo soltanto era maestosa. “Due piani; 18x18, altezza quasi 8 che con la colombaia al centro toccava i 15; con 9 stanze a piano di cui una occupata dalla scala avvitata al forno e recinta dal ballatoio con gli archi ogivali”. A terra c’erano stalle, magazzini, cantine e un grande porticato che si raddoppiava e diventava loggia al primo. Qui ci stavano, fitte e strette, tre famiglie per diciassette cristiani compreso i bambini anche se la nonna raccontava che allo scoppio della Spagnola ne aveva contati ventiquattro. Intorno, quasi come un recinto di protezione, una serie di capanne, di uno o due piani coperte alla selvatica, necessarie ai lavori agricoli. Poco distante la pozza delle nane attaccata all’orto e seguita dal pollaio a sua volta appiccicato alla concimaia di lato al porcile. E poi sette ettari di podere, tutto in piano bagnato dalla rete dei fossi e fertile assai, adatto per cereali e legumi, ortaggi e frutta e l’erba per le bestie. In verità la casa non era nostra. Anzi con precisione apparteneva, fin da quando c’era il nonno e il nonno del nonno, alla famiglia Berlinghieri padroni dei muri, dei campi e del podere tutto compresi altri ventuno disseminati lungo il “Canale maestro”. Noi eravamo, da sempre, a quanto mi dicevano da piccino, solo dei modesti mezzadri. E come tale la nostra famiglia lavorava come bestie e insieme a loro, dalla mattina alla sera da un anno all’altro, il terreno del signor Alfredo e dei suoi antenati secondo doveri e oneri del contratto temuto e rispettato quasi che fosse l’undicesimo comandamento. In effetti noi eravamo discendenti di “colui che divide a metà”. Un sottoprodotto che vien dal “quattrocento … quasi millecinque”. La vita era magra; sia prima che dopo la liberazione quando cominciai a lavorar alla fabbrica dell’oro; la prima e più importante della città; e a suonar nella banda del paese. Apprendista al lavoro ma primo sassofonista nel gruppo. Com’è come non è la musica mi veniva facile. Non la sapevo leggere, per via che nessuno me l’aveva insegnata, ma ad orecchio suonavo marce e marcette oltre che gli inni religiosi durante le processioni. Una bella soddisfazione per un ragazzino di dodici anni che a malapena aveva letto in quinta il libro di Pinocchio. L’anno della dichiarazione di guerra avevo imparato a salire sugli alberi. E d’allora ero diventato così bravo che gli amici mi canzonarono in “scoia”, diminutivo di scoiattolo, per la destrezza e velocità con cui saltavo sulle chiome anche di quelli alti. Fu sul più alto e maestoso dei gelsi vicino a casa che feci la mia prima arrampicata. E da allora diventai, per la famiglia, il fornitore ufficiale dei suoi frutti. Dalla fine di luglio e per il mese successivo saccheggiavo quei filari lungo la strada vicinale alla ricerca delle bacche nere buone da succhiare e ancora meglio quando la mamma ci faceva la marmellata. Poi un giorno babbo prese la scala lunga e si arrampicò fino in vetta. Non cercava more, ormai tutte nei vasetti, ma era invece armato di taglienti per potare e con queste armi diradò ben bene la chioma lasciando sul tronco i rami più vecchi mentre i giovani finirono in terra insieme alle foglie fresche. Quelle belle e soffici; verde chiaro quasi come erba di campo. Buone per i bombi. Le donne di casa le staccarono una ad una e ci riempirono alcune ceste di vimini. Con garbo e delicatezza, quasi dovessero maneggiare un finissimo tessuto proveniente da mondi lontani, Si caricarono i pesi sulle spalle e, con l’aiuto di noi bambini, salirono le scale fin sopra la torretta centrale. Qui aprirono i bassi usci per accedere al palco morto; soffitto non praticabile delle stanze sottostanti; e governarono i produttori della seta. I quali fecero il loro mestiere in pochi giorni. Dopodiché si guadagnarono un bel bagno bollente nel pentolone attaccato alla catena nel canto del fuoco. I bozzoli furono gelosamente serbati mentre il resto finì ad ingrassare l’orto. Poi a tempo debito la preziosa merce ci accompagnò sul carro per il lungo viaggio alla filanda lungo il fiume. Sonanti monete ballanti in cambio di matasse di filo. Ottimo affare. Ma adesso il pensiero ai soldi mi ricorda che proprio stamani son salito sul pullman senza pagare il biglietto. Sono una persona d’altri tempi e non ho mai; dico mai; lasciato debiti. Quindi quando questa storia sarà finita mi devo ricordare di cercare l’autista, pagare e scusarmi. Sarà il caso mi faccia un nodo al fazzoletto? Fatto. Stamani mi son alzato presto. Saranno state le cinque e dormivano tutti. Anche la sorvegliante con le fattezze dell’infermiera M. Ratched; quell’aguzzina dagli occhi azzurri del “… nido del cuculo …”. Se ne stava lì bella bella con il suo cappello bianco appoggiato, come il capo, al bancone della ricezione. L’avevo lungamente spiata e sapevo che quella era l’ora giusta. Mi son vestito con la tuta blu da operaio dell’ultimo giorno di lavoro. Son trent’anni che la conservo nascosta tra le camicie della domenica e il paltò che mi ha regalato Gina. Mi ha accompagnato anche qui dopo che Lei se n’è andata. E ora l’indosso come quella volta. Mi son fracassato i coglioni di abitar nel casone a due piani con questa compagnia; una quarantina di esseri compreso alcuni animali che ci lasciano tenere; non voluta e non cercata ma casomai imposta dai figli. Abitano fuori regione e nessuno dei tre, in questi ultimi sette anni, si è offerto di ospitarmi. “Dai babbo … e che mai sarà., questa RSA è all’avanguardia. E poi è vicino casa”. E infatti stamani ho contato fino a sette e son scappato. Mi son riposto fino alle sedici nel recinto della piscina abbandonata. Ho fatto colazione con un culaccino di pane e lo stracchino serbato dalla sera prima. il coltellino a serramanico, con la lama consumata da troppe affilature e il manico d’osso annerito dall’uso, è un regalo del babbo. L’uso da oltre mezzo secolo e ancora fa il suo dovere. Ci spalmo il formaggio e lo pulisco bene con l’erba bagnata. Son pronto. Prendo la corriera alla fermata poco distante e in pochi minuti scendo all’incrocio. La via si chiama ancora come un tempo. Sopra all’indicatore di lamiera smaltata c’è scritto “Strada vicinale dei Mori”. Ci sono. Tiro fuori il bastone da passeggio e indosso il cappello per proteggere la nuca dal sole che comincia a picchiare. E caracollando m’incammino sul nastro d’asfalto. Provo ad immaginarmi i commenti dei passanti alla vista di un vecchio, di quasi novant’anni con tuta blu consumata dall’uso, cappello da pescatore e bastone autoprodotto in legno d’ulivo. O forse è meglio pensare a risate e sfottò? La seconda direi. Come sia vado per la mia strada fino a quando la vedo. La mia casa anzi quella del padrone. È stata l’abitazione di famiglia per quasi duecento anni. Poi gli Stones lanciarono sul mercato “Jumping Jack Flash”. Era il sessantasette e lo stesso mese anche l’ultimo dei Berlinghieri ci si lanciò. Era sommerso da debiti e cambiali e assalito dagli strozzini. Mise sul piatto il vinile appena sbollato e saltò dal piano nobile del palazzo sul Corso proprio il giorno del mercato. Lo vedo il rudere della Leopoldina. Sapevo che era disabitata da molti anni ma non immaginavo che il tempo e l’incuria degli uomini l’avessero potuta ridurre così come la vedo. E per di più inaccessibile recintata com’è con rete a rombi e filo spinato in sommità.. Questo mi rovina il sopraluogo lungamente progettato. L’unica mossa che posso fare è salire sopra il non lontano terrapieno della ferrovia Direttissima che se potessi percorrere mi porterebbe da Roma a Milano e forse anche più in avanti. Prendo a destra per la stradina di campo fino alla base del bastione. È dura. Mi tocca cedere all’appoggio del l bastone e aiutarmi con un paio di imprecazioni. Ma alla fine ci sono. Qui sopra. Alla stessa quota del tetto della casa. Posso veder dentro. Prima però lo sguardo mi cade su due aggeggi che non c’erano durante all’ultima visita. In destra una giunta alla fabbrica del recupero e dell’energia. Si tratta di una specie di palazzo urbano suddiviso in tre porzioni di altezze diverse. Lo vedo da lontano ma pare aver pareti di terra con filari di mattoni e tetti piani coperti a erba medica. La porzione più bassa porta in sommità , come sentinelle, due giovani Gelsi. Quella più alta e massiccia presenta di lato un’intera parete, appena staccata dalla facciata, di glicine rampicante. E quasi a fare il paio con la colonica che non c’è più in sinistra mi colpisce la vista di una replicante. Posso intuirne le medesime misure e proporzioni. Solo l’altezza è diversa. A questa manca un piano e la copertura calpestabile è totalmente infiorita. Tutto intorno una cintura di orti con bassi recinti e capanni di legno. Dietro intravedo pollai e recinti per animali mentre davanti un piccolo frutteto e un maestoso Moro invitano ad entrare in fattoria. Lo farei anche volentieri ma il sole comincia a salutare e io con lui. Scendo dalla montagnola e controllo il contenuto del vecchio e capiente sacca pane dei tempi del servizio di leva. Ci rimesto dentro alla ricerca della custodia in pelle che finalmente scopro, dopo diversi e infruttuosi tentativi, nascosta in fondo alla sacca dal costume lavato e stirato. Soddisfatto allaccio quindi la corda e mi stringo bene le cinghie sulle spalle. Devo proprio andare. Mi avvio verso il paese. Mi son promesso di fare quello che sogno tutte le notti da oltre trent’anni. Da quando mi han ritirato dal lavoro e dalla banda. Non ci fu niente da fare. Appena sei fuori dal lavoro sei fuori dalla musica. Vecchiaia? Raggiunti limiti? Malattia? Tumore? Cancro alla pelle? Polmonite? Ciao e basta. Ma io mi son tenuto in allenamento. Tutti i giorni che Dio, o chicchessia, mette in terra mi faccio la mia suonata prima di cena. Suono, sempre ad orecchio, oramai qualunque genere compreso bossa nova, jazz e liscio. In tutto questo tempo ho tenuto lo strumento in perfetta forma e adesso mi sento veramente pronto. Le prime luci dei lampioni salutano il mio arrivo. San Leonardo è laggiù. Illuminata a fiaccole. Son cominciati i preparativi della sacra rappresentazione. Ma non sono interessato a tutto questo. Devo riunire la banda. Come quell’attore vestito di nero, con anche neri cappello e occhiali, di una pellicola del secolo scorso mi son fissato con la riunione dei musici. Ricordo che poco dopo che fui allontanato anche il resto dell’orchestra si sciolse. Ufficialmente per raggiunti limiti d’età dei componenti. In realtà perché avevamo un repertorio più vecchio di noi stessi e non passava esibizione, ricorrenza, processione o funerale che non s’incorresse in un paio o più stecche. Con risate sguaiate degli astanti. Ma da allora; era l’ottantanove l’anno della cascata del muro; ci eravamo tenuti in contatto, in allenamento e segretamente progettato la “grand rentrée”. Stasera. Venerdì Santo a suonar per la processione in costume.

14/05/21

Un campo

Un campo | 2020 C’era da vedere poco. Il sopraluogo risultò assolutamente inutile. Per arrivarci avevo percorso una stradina con due filari di gelsi che si fronteggiavano sul bordo quasi a salutar i passanti. Il navigatore mi ci condusse con precisione. Ad un certo punto una voce gentile fece “Alt … siete arrivati … volgete lo sguardo a sinistra … ciao”. Toccava scendere. Appena dopo la banchina erbosa c’era un fosso profondo e subito dopo un campo di foraggio, da poco falciato, raccolto in rotoballe. Quelle a forma di grosso cilindro schiacciato lasciate nei campi fino alla fine dell’estate. Allineate o sciolte come tante ruote giganti in attesa di un veicolo che le faccia muovere. Bellissime. Soprattutto verso il tramonto quando il sole di settembre ci gioca a nascondino. E poco altro. In sinistra un caseggiato in forma di tenuta di campagna circondato anzi meglio assediato d strane tende che vagamente richiamavano quelle arabe usate dai beduini. In destra i resti semi distrutti di un’antica casa leopoldina. Quelle tipiche con la torretta, le logge e il resto. In fronte, ma in lontananza. le colline della valle dell’Arno e, poco lontano; a stima cinque – seicento metri; il bordo alberato del Canale maestro. E chissà come o perché mi tornò in mente un trattato, lungamente sfogliato al tempo degli studi e anche dopo, che nel titolo aveva la frase “Delle case de’ contadini”. Mi accoccolai e piegai in avanti il corpo con la faccia quasi rasoterra. Come a vedere il mondo dalla parte delle formiche. “Ecco …” pensai “… visto da quest’angolazione mi pare un poco meglio.” “Ci farò una fattoria”.

10/05/21

Ubicazione

Ubicazione | 2020 -I- Rammento bene la prima volta. Verso la fine di luglio alle dieci del mattino per sopraluogo ai luoghi del progetto. Era la mia prima visita all’impianto e non mi colpì la massiccia mole della fabbrica del recupero rifiuti e produzione energetica e neanche la vista della ciminiera, del resto ben svettante, con i suoi quasi quaranta metri e le strisce bianco rosse, nel piatto panorama del fondovalle. Tutt’altro. Piuttosto la strada di accesso alquanto stretta che m’indusse a sbottare ad alta voce “… a malapena si scambiano due auto … figurarsi quell’autoarticolato che ci viene incontro”. Come sia la manovra andò in porto anche perché il nostro mezzo, decisamente più piccolo dell’altro, trovò rifugio lungo la generosa panchina inerbita e intervallata da un singolare filare di alberi di medio fusto di forma globosa e chioma di un bel verde brillante. Che a tutta prima classificai come alieni cioè non autoctoni. La seconda occhiata, questa volta verso terra, mi disvelò il modello arboreo. Abbassai lo sguardo a terra sull’asfalto macchiato di sangue scuro ed esclamai “Mori … son filari di mori … come quelli dove si saliva d’estate a raccoglier bacche”. Queste erano invece cadute e lasciate a marcire per terra. Con evidenza quei frutti non erano d’agio a nessuno. Con questi pensieri mi accinsi alla visita guidata e all’impegno del successivo progetto. -II- Il lotto; un quadrato di trentacinque metri; comprende la palazzina degli uffici e l’immediato intorno adibito a viabilità e parcheggio. Verso nord ed ovest si stagliano i volumi produttivi dell’azienda: capannoni prefabbricati, di varie altezze e dimensioni, con i prescritti piazzali di manovra. il recinto al confine delimita e separa l’attività dai campi agricoli e dal vicino Canale delle Chiana. In lontananza colline boscate e in vicinanza la strada vicinale dei Mori. Insomma un luogo senza particolari caratteristiche morfologiche che sono ampiamente compensate dall’attività insediata che si occupa di temi a noi molto cari come recupero, rifiuti, energia, ambiente e quanto altro possa esserci collegato. Un posto da progettare.

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...