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Sen Gioann in Arno vallei | 2016 - 17
“… Sen Gioann in
Arno vallei”.
Con queste
indicazioni geografiche Luca il farmacista termina la conversazione e intanto
racconta la provenienza della comitiva all’albergatore della rinomata località
sciistica austriaca. Tra tre settimane andiamo a sciare.
Andiamo a
Kitzbühel per la fine dell’anno.
Con Silvia siamo
da poco sposati e solo da alcuni anni ci siamo convinti a calcare i legni che
scivolano sulla neve. Per quanto mi riguarda ho visto per anni lo sport
invernale come una roba da ricchi cittadini o poveri montanari. E siccome io
son nato in collina e sempre qui ho abitato l’ho sempre considerato come una
roba snob o tutt’al più radical chic. Veduto e considerato che sono; è ormai
risaputo; semmai un “porc demi sauvage”
questo passatempo non poteva assolutamente ricevere nessun mio interesse. Mai.
Poi però era
arrivato “Tomba la bomba” che aveva
cambiato tutto.
Da sport dorato
ed esclusivo dei circoli culturali e delle baite celebrate nei film del buon
Ugo “ragionier Fantozzi” lo sci era
diventato per tutti. Dalle sue prime vittorie mi erano cambiate le priorità e
al numero uno, con un balzo di undici posizioni, era passato “Imparare a sciare … bene” con tutta la
rumba collegata. Abbigliamento e scarponi e attrezzatura. Magari con acquisti oculati e non da ultima
moda ma tutto quello che occorreva era adesso in mio possesso.
Ora si trattava
di cominciare.
Il battesimo
della neve porta in nome dell’Abetone e il cognome Val di Luce con le sue piste
facili e anche di più per via che anche un fanciullo riesce a scendere in
sicurezza. Rammento il primo giorno quando riuscii a percorrerle tutte. E alla
fine ero tutto un livido visto che le avevo scese in gran parte strisciando sul
sedere. E qui vi evito la cronaca dei capitomboli nel cercare di agganciarsi
allo ski lift o peggio quando provai a salire/scendere dalla seggiovia a due
posti: al momento di scendere mi stampai sulla neve “a pelle di leone”.
E dopo tre mesi
fu il momento della settimana bianca.
La nostra prima
fu a Piancavallo con una gita aziendale in un albergo lontano dalle piste.
Eravamo un bel gruppo di amici; c’era anche un giapponese, che andava giù come
una scheggia e che l’animatore continuava a storpiare in “Akai” invece del vero “Masaki”.
Noi tutti, escluso quindi il compagno orientale che sciava fin da piccino,
eravamo al livello zero e anche sotto. Il nostro gruppo, diviso in tre coppie;
aveva preso sul serio il passatempo. Da ottobre, per cinque mesi, palestra due
volte la settimana, stretching tutte le mattine e corsetta la domenica prima
della messa. I fumatori, io lo ero, avevano ridotto della metà il consumo.
Nessuno beveva a parte qualche bicchiere durante i giorni di festa.
Eravamo quindi
in perfetta forma quando il pullman ci scese davanti alla pensione Miramare.
Ci cambiammo in
fretta e furia. Per parte mia scordai perfino la calzamaglia da mettere sotto
la salopette imbottita. Insomma in un baleno riuscimmo a prenotare il maestro e
acquistare l’abbonamento valido per tutte le piste; anche le nere che mai
avremo sceso. Dopo un pranzo leggero ci avviammo all’appuntamento con il nostro
l’insegnate per i prossimi sette giorni.
Insomma come è e come non è in quel periodo riuscimmo a: vincere la
paura, stare sugli sci e scendere le piste blu secondo la tecnica dello
spazzaneve. Sulle piste eravamo doppiati da ragazzini scatenati che scendevano
a tutta o giovanotti palestrati che scivolavano sulle onde. Ma ci divertimmo
una cifra. Io poi mi tolsi la soddisfazione di farle tutte. Le piste intendo.
Sia rosse che nere. Con gli sci o senza.
E adesso era
l’ora dell’uscita all’estero.
Avevo preso
informazioni. La stazione sciistica nostra meta era conosciuta soprattutto per
la pista di discesa libera “Streif”
definita da molti come “la più
spettacolare pista di discesa libera del mondo”. E io, pivello patentato ma
cuore impavido, nascondendo il proposito a Silvia la volevo proprio scendere. I
nostri compagni erano tutti sciatori medi alcuni anche provetti. Una di loro
aveva anche fatto i campionati nazionali al tempo del liceo. Se facciamo cento
per un maestro di sci noi invece eravamo piazzati nelle ultime file con tre. Il
nostro spazzaneve era migliorato. Adesso scendevamo a sci uniti ma la tecnica
era un optional che non provavamo neanche a sfiorare.
Comunque sia
come sia partimmo.
Il viaggio fu
allucinante. La notte tra il ventinove e il trenta del dicembre
dell’ottantanove fu un incubo. Imboccammo l’autostrada, diretti a nord, verso
le dieci di sera per arrivare alle prime luci dell’alba. Guidammo per nove ore
senza soste apprezzabili se non due pisciate al volo. Sei di queste furono
allietate dal nebbione più fitto e lattiginoso che, a memoria d’uomo, abbia
bagnato la padana. Rammento che a un certo punto ci siamo sistemati; eravamo
cinque vetture; in fila indiana con due di noi che a piedi facevano da
apripista. Un delirio.
Quando
arrivarono le montagne la nebbia si prese paura e se ne andò.
Le ultime tre
ore furono una pacchia e sul fare del mattino arrivammo in luogo. Finalmente.
Il locandiere ci accolse con calore come anche la sua calda colazione. Poi una
doccia e via a vedere le piste. Eravamo adulti intorno ai trenta ma ci
comportammo come bambini intorno ai tre alla vista della prima nevicata: chi
fittò uno slittino e chi un camera d’aria da camion lanciandosi a palla, chi
organizzò una battaglia di palle di neve e chi, semplicemente, capitombolò in
basso con un paio di bicchieri di “schnaps”
nello stomaco. Così passammo la mattina.
Quel pomeriggio
lo ricorderò finché campo.
Dopo la prima
pista, scesa tutti insieme tanto per scaldare le gambe, si fecero i gruppi in
base alla bravura. Se ne formarono tre: gli esperti, i mezzani e gli imbranati.
Io e alcuni altri; in realtà quasi tutte le femmine; diventammo esponenti del
terzo. Cominciammo a scendere le piste vicine al campo scuola. Gli altri due
plotoni ne se andarono verso l’alto dove regnavano le rosse e le nere. Il mio
gruppo scendeva in fila indiana e senza velocità apprezzabile. Non mi divertivo
neanche un po’. Poi incrociammo il plotone di mezzo. Una di loro; Rosanna di
Mestre; mi invitò a scendere con loro e io accettai di buon grado. Salutai una
Silvia imbufalita e via.
La brigata dei “so sciare ma non vado forte” mi accompagnò
in cima dove cominciava la rossa da slalom. Il pomeriggio intanto andava
virando verso la fine e il freddo si faceva sentire. Il gruppo si infilò dentro
il rifugio con l’intenzione di scendere con l’ultimo giro della funivia. Ma io
no e neanche Rosanna. Avevamo tutti e due voglia di scendere almeno un’ultima
volta. E lo facemmo.
Io, che
evidentemente ero più incosciente che esperto, cascai malamente tre volte.
L’appuntamento
con gli altri era all’ingresso della funivia. Ma quando arrivammo in alto di
loro nemmeno l’ombra. Intanto gli ultimi ritardatari e diversi turisti senza
sci si apprestavano verso quello che pareva essere l’ultima corsa. Ci dirigemmo
verso il piccolo rifugio ma anche dentro dei nostri eroi non c’era traccia. A
gesti più che a parole riuscimmo a chiedere info sui nostri compagni e
soprattutto sull’orario dei mezzi di ritorno. Le risposte furono tre. In
ordine: il gruppo era partito oramai da una ventina di minuti e di sicuro era a
fondo pista, la funivia era appena partita per l’ultima corsa del giorno e
adesso sono cavoli amari. Si era intanto fatto bruzzico e la nebbia; fredda
pesante e lattiginosa come non mai; era salita fino a noi. La condizione giusta
per perdersi. E in effetti non avevamo
idea in che direzione dirigersi per scendere. Appena fuori della baita il
destino ci lanciò un’ancora. O almeno così ci sembrò in quel momento.
Una comitiva di
sciatori austriaci, visibilmente alticci, si apprestava a scendere.
Parevano sicuri
della direzione mentre si stringevano gli scarponi e si agganciavano gli sci.
Scherzavano, come solo fa chi ha troppo alcol
nello stomaco, e si davano gomitate prendendoci in giro e schernendoci
apertamente. Evidentemente, ubriachi o no, eravamo ai loro occhi visibilmente
disperati e in sovra più non capivamo una parola che sia una. “E col
piffero - pensai tra me - che quelli
ci danno una mano”. Comunque sia si misero in pista.
Come un sol uomo
si lanciarono lungo il ripido pendio che si apriva appena sotto di noi.
E noi come loro.
Senza troppo pensarci sopra. Via a tutta randa. Rosanna, devo dire, con un
certo stile mentre il mio era assolutamente inadeguato. Gli occasionali
compagni scendevano scomposti ma sicuri verso una meta conosciuta. Noi invece
arrancavamo dietro a delle sagome che pian piano si persero nella nebbia. La
pista era ripida e stretta e io caddi malamente altre tre volte. Da ultimo si sganciarono anche gli sci che
dovetti recuperare trenta metri più sotto. I crucchi erano oramai andati. Così
come la luce che lasciò il posto alle prime avvisaglie notturne.
Improvvisamente
ci rendemmo conto di essere soli.
Il silenzio
diventò assordante. Il freddo invece si fece ancora più pungente. E allora
prendemmo l’unica decisione saggia dell’ultima ora: scendere con calma verso il
basso. Con circospezione e lunghe virate. In formazione accoppiata e cantando “O bella ciao”. Scendemmo per un tempo
indefinito che a me parve durare almeno due ore anche se poi scoprimmo essere
una quindicina di minuti. A un certo punto sentimmo, o credemmo di sentire,
strani movimenti e rumori a bordo pista. Il buio oramai la faceva da padrone
quando arrivammo a tagliare il traguardo della più spettacolare pista di
discesa libera del mondo. Davanti a noi c’era una locanda con l’insegna gialla
del telefono. Ci aspettavano per certo chissà quanti insulti o anche peggio da
parte dei nostri amati. Ma insomma ci sentivamo in salvo.
E chi se ne
fregava se avevamo sceso la “Streif”.
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