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Sen Gioann in Arno vallei

My phone, 2018



Sen Gioann in Arno vallei | 2016 - 17

“… Sen Gioann in Arno vallei”.

Con queste indicazioni geografiche Luca il farmacista termina la conversazione e intanto racconta la provenienza della comitiva all’albergatore della rinomata località sciistica austriaca. Tra tre settimane andiamo a sciare.

Andiamo a Kitzbühel per la fine dell’anno.

Con Silvia siamo da poco sposati e solo da alcuni anni ci siamo convinti a calcare i legni che scivolano sulla neve. Per quanto mi riguarda ho visto per anni lo sport invernale come una roba da ricchi cittadini o poveri montanari. E siccome io son nato in collina e sempre qui ho abitato l’ho sempre considerato come una roba snob o tutt’al più radical chic. Veduto e considerato che sono; è ormai risaputo; semmai un “porc demi sauvage” questo passatempo non poteva assolutamente ricevere nessun mio interesse. Mai.

Poi però era arrivato “Tomba la bomba” che aveva cambiato tutto.

Da sport dorato ed esclusivo dei circoli culturali e delle baite celebrate nei film del buon Ugo “ragionier Fantozzi” lo sci era diventato per tutti. Dalle sue prime vittorie mi erano cambiate le priorità e al numero uno, con un balzo di undici posizioni, era passato “Imparare a sciare … bene” con tutta la rumba collegata. Abbigliamento e scarponi e attrezzatura.  Magari con acquisti oculati e non da ultima moda ma tutto quello che occorreva era adesso in mio possesso.

Ora si trattava di cominciare.

Il battesimo della neve porta in nome dell’Abetone e il cognome Val di Luce con le sue piste facili e anche di più per via che anche un fanciullo riesce a scendere in sicurezza. Rammento il primo giorno quando riuscii a percorrerle tutte. E alla fine ero tutto un livido visto che le avevo scese in gran parte strisciando sul sedere. E qui vi evito la cronaca dei capitomboli nel cercare di agganciarsi allo ski lift o peggio quando provai a salire/scendere dalla seggiovia a due posti: al momento di scendere mi stampai sulla neve “a pelle di leone”.

E dopo tre mesi fu il momento della settimana bianca.

La nostra prima fu a Piancavallo con una gita aziendale in un albergo lontano dalle piste. Eravamo un bel gruppo di amici; c’era anche un giapponese, che andava giù come una scheggia e che l’animatore continuava a storpiare in “Akai” invece del vero “Masaki”. Noi tutti, escluso quindi il compagno orientale che sciava fin da piccino, eravamo al livello zero e anche sotto. Il nostro gruppo, diviso in tre coppie; aveva preso sul serio il passatempo. Da ottobre, per cinque mesi, palestra due volte la settimana, stretching tutte le mattine e corsetta la domenica prima della messa. I fumatori, io lo ero, avevano ridotto della metà il consumo. Nessuno beveva a parte qualche bicchiere durante i giorni di festa.

Eravamo quindi in perfetta forma quando il pullman ci scese davanti alla pensione Miramare.

Ci cambiammo in fretta e furia. Per parte mia scordai perfino la calzamaglia da mettere sotto la salopette imbottita. Insomma in un baleno riuscimmo a prenotare il maestro e acquistare l’abbonamento valido per tutte le piste; anche le nere che mai avremo sceso. Dopo un pranzo leggero ci avviammo all’appuntamento con il nostro l’insegnate per i prossimi sette giorni.  Insomma come è e come non è in quel periodo riuscimmo a: vincere la paura, stare sugli sci e scendere le piste blu secondo la tecnica dello spazzaneve. Sulle piste eravamo doppiati da ragazzini scatenati che scendevano a tutta o giovanotti palestrati che scivolavano sulle onde. Ma ci divertimmo una cifra. Io poi mi tolsi la soddisfazione di farle tutte. Le piste intendo. Sia rosse che nere. Con gli sci o senza.

E adesso era l’ora dell’uscita all’estero.

Avevo preso informazioni. La stazione sciistica nostra meta era conosciuta soprattutto per la pista di discesa libera “Streif” definita da molti come “la più spettacolare pista di discesa libera del mondo”. E io, pivello patentato ma cuore impavido, nascondendo il proposito a Silvia la volevo proprio scendere. I nostri compagni erano tutti sciatori medi alcuni anche provetti. Una di loro aveva anche fatto i campionati nazionali al tempo del liceo. Se facciamo cento per un maestro di sci noi invece eravamo piazzati nelle ultime file con tre. Il nostro spazzaneve era migliorato. Adesso scendevamo a sci uniti ma la tecnica era un optional che non provavamo neanche a sfiorare.

Comunque sia come sia partimmo.

Il viaggio fu allucinante. La notte tra il ventinove e il trenta del dicembre dell’ottantanove fu un incubo. Imboccammo l’autostrada, diretti a nord, verso le dieci di sera per arrivare alle prime luci dell’alba. Guidammo per nove ore senza soste apprezzabili se non due pisciate al volo. Sei di queste furono allietate dal nebbione più fitto e lattiginoso che, a memoria d’uomo, abbia bagnato la padana. Rammento che a un certo punto ci siamo sistemati; eravamo cinque vetture; in fila indiana con due di noi che a piedi facevano da apripista. Un delirio.

Quando arrivarono le montagne la nebbia si prese paura e  se ne andò.

Le ultime tre ore furono una pacchia e sul fare del mattino arrivammo in luogo. Finalmente. Il locandiere ci accolse con calore come anche la sua calda colazione. Poi una doccia e via a vedere le piste. Eravamo adulti intorno ai trenta ma ci comportammo come bambini intorno ai tre alla vista della prima nevicata: chi fittò uno slittino e chi un camera d’aria da camion lanciandosi a palla, chi organizzò una battaglia di palle di neve e chi, semplicemente, capitombolò in basso con un paio di bicchieri di schnapsnello stomaco. Così passammo la mattina.

Quel pomeriggio lo ricorderò finché campo.

Dopo la prima pista, scesa tutti insieme tanto per scaldare le gambe, si fecero i gruppi in base alla bravura. Se ne formarono tre: gli esperti, i mezzani e gli imbranati. Io e alcuni altri; in realtà quasi tutte le femmine; diventammo esponenti del terzo. Cominciammo a scendere le piste vicine al campo scuola. Gli altri due plotoni ne se andarono verso l’alto dove regnavano le rosse e le nere. Il mio gruppo scendeva in fila indiana e senza velocità apprezzabile. Non mi divertivo neanche un po’. Poi incrociammo il plotone di mezzo. Una di loro; Rosanna di Mestre; mi invitò a scendere con loro e io accettai di buon grado. Salutai una Silvia imbufalita e via.

La brigata dei “so sciare ma non vado forte” mi accompagnò in cima dove cominciava la rossa da slalom. Il pomeriggio intanto andava virando verso la fine e il freddo si faceva sentire. Il gruppo si infilò dentro il rifugio con l’intenzione di scendere con l’ultimo giro della funivia. Ma io no e neanche Rosanna. Avevamo tutti e due voglia di scendere almeno un’ultima volta. E lo facemmo.

Io, che evidentemente ero più incosciente che esperto, cascai malamente tre volte.

L’appuntamento con gli altri era all’ingresso della funivia. Ma quando arrivammo in alto di loro nemmeno l’ombra. Intanto gli ultimi ritardatari e diversi turisti senza sci si apprestavano verso quello che pareva essere l’ultima corsa. Ci dirigemmo verso il piccolo rifugio ma anche dentro dei nostri eroi non c’era traccia. A gesti più che a parole riuscimmo a chiedere info sui nostri compagni e soprattutto sull’orario dei mezzi di ritorno. Le risposte furono tre. In ordine: il gruppo era partito oramai da una ventina di minuti e di sicuro era a fondo pista, la funivia era appena partita per l’ultima corsa del giorno e adesso sono cavoli amari. Si era intanto fatto bruzzico e la nebbia; fredda pesante e lattiginosa come non mai; era salita fino a noi. La condizione giusta per perdersi.  E in effetti non avevamo idea in che direzione dirigersi per scendere. Appena fuori della baita il destino ci lanciò un’ancora. O almeno così ci sembrò in quel momento.

Una comitiva di sciatori austriaci, visibilmente alticci, si apprestava a scendere.

Parevano sicuri della direzione mentre si stringevano gli scarponi e si agganciavano gli sci. Scherzavano, come solo fa chi ha troppo alcol  nello stomaco, e si davano gomitate prendendoci in giro e schernendoci apertamente. Evidentemente, ubriachi o no, eravamo ai loro occhi visibilmente disperati e in sovra più non capivamo una parola che sia una.  “E col piffero - pensai tra me - che quelli ci danno una mano”. Comunque sia si misero in pista.

Come un sol uomo si lanciarono lungo il ripido pendio che si apriva appena sotto di noi.

E noi come loro. Senza troppo pensarci sopra. Via a tutta randa. Rosanna, devo dire, con un certo stile mentre il mio era assolutamente inadeguato. Gli occasionali compagni scendevano scomposti ma sicuri verso una meta conosciuta. Noi invece arrancavamo dietro a delle sagome che pian piano si persero nella nebbia. La pista era ripida e stretta e io caddi malamente altre tre volte.  Da ultimo si sganciarono anche gli sci che dovetti recuperare trenta metri più sotto. I crucchi erano oramai andati. Così come la luce che lasciò il posto alle prime avvisaglie notturne.

Improvvisamente ci rendemmo conto di essere soli.

Il silenzio diventò assordante. Il freddo invece si fece ancora più pungente. E allora prendemmo l’unica decisione saggia dell’ultima ora: scendere con calma verso il basso. Con circospezione e lunghe virate. In formazione accoppiata e cantando “O bella ciao”. Scendemmo per un tempo indefinito che a me parve durare almeno due ore anche se poi scoprimmo essere una quindicina di minuti. A un certo punto sentimmo, o credemmo di sentire, strani movimenti e rumori a bordo pista. Il buio oramai la faceva da padrone quando arrivammo a tagliare il traguardo della più spettacolare pista di discesa libera del mondo. Davanti a noi c’era una locanda con l’insegna gialla del telefono. Ci aspettavano per certo chissà quanti insulti o anche peggio da parte dei nostri amati. Ma insomma ci sentivamo in salvo.

E chi se ne fregava se avevamo sceso la “Streif”.

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