Lettori fissi

Alla ruffa

Red, 2018


Alla ruffa | 2009 -13

Ieri mi son imbarcato in uno dei miei soliti sbaraccamenti.

Devo ricevere un importante cliente che magari mi propone un importante commessa. Ho la brutta abitudine di ordinare i documenti di lavoro secondo lo schema che definisco “a ricordo”. Nel senso che ogni pratica non è schedata, neanche per sbaglio, secondo le regole imposte dalla normativa vigente in fatto di qualità del lavoro di studio. Secondo quello che si dice sia la certificazione Iso9000 e spiccioli. Anche se ricordo che un tempo ci ho fatto un pensiero appena accennato e subito accantonato per le difficoltà imposte da ‘sta sigla. E come mi regolo con gli incartamenti lo stesso faccio con le cartelle elettroniche. Le caccio dentro la memoria virtuale del computer secondo il mio solito sistema. Anche gli oggetti e i materiali necessari allo svolgimento della professione ricevono siffatto trattamento. Così che spesso mi tocca lanciarmi alla disperata ricerca della rotella metrica da otto perché devo prendere delle misure nell’appartamento da riformare. Oppure mi vesto da tenente Sheridan (quello dell’Ubaldo della brillantina … ndr) con l’impermeabile bianco e la Linetti sui capelli e rovisto nei posti più nascosti alla ricerca del timbro per bollare un progetto da consegnare al protocollo.

Ieri mi è toccato inventarmi un nuovo travestimento.

Mi son messo i panni del rimettitore d’ordine. Pantaloncino di cotone corto colore viola melanzana, maglietta bianca con davanti la scritta 365 e scarpa sformata Superga colore arancio scolorito da troppi lavaggi.

Sono pronto.

Mi munisco di tanti pezzi di carta e dello spruzzino pulisci tutto e inizio l’opera. Comincio dalle librerie e continuo sulle mensole. Poi tocca alle scrivanie e al mobile degli oggetti per disegnare a mano. Lo scaffale si trova accanto alla porta di accesso al locale. Lo posso toccare quando pigio il bottone che accende la sospensione di rame che penzola al centro della stanza. il contenitore proviene dal magazzino di un venditore di mattonelle. È stato trovato al tempo dei lavori della casa in collina. Quella che la parente flippata per i cavalli ha disegnato in una sua composizione  giovanile. Quella appesa nella camera da letto padronale prima degli untimi (ed ennesimi … ndr) lavori di riattamento del locale.

Adesso il quadro è accatastato in un angolo della stanza delle meraviglie.

Quella dove ripongo da anni gli oggetti trovati in giro. E anche quelli che mi ostino a pensare di riparare da me. Io che sono notoriamente negato al lavoro di fino. L’immagine rappresenta una serie di colline. Con il cipresso a mezza costa, la stradina sterrata con i tornanti e tutto l’ambaradan che di solito fa tanto paesaggio toscano. In cima ad ogni poggio c’è la replica della casa a torre intonacata e tinteggiata di rosso mattone avvinazzato. Quella con l’altana per vedere le stelle. Ogn’una di ‘ste costruzioni ha le ali. Come se fosse un volatile o meglio un angelo. E alcune di queste volano per davvero. Si librano nell’aere per andare ad occupare altri luoghi elevati che si intravedono in lontananza. E mentre descrivo il disegno decido che stamani lo piglio e lo appendo accanto al mobile dove son riposte le matite. La scansia; che stava nell’angolo buio del deposito di pavimenti; adesso abita la prima stanza a sinistra in cima alle scale dello studio.

Da espositore di impiantiti in terracotta si è trasformata.

Son bastate alcune ore di lavoro di alta falegnameria e adesso contiene blocchi di carta e scatole di acquerelli, compassi e squadre, lapis e matite a cera, pezzi di cartone e taglierini, l’aerografo e le stecche di legno. E altro. Sposto con cura tutto quanto e poi uso i materiali per la pulizia. Adesso mi rimane solo lo stanzino con l’arco.

Il pertugio sopra alle scale.

Misure centoventi per duecento o giù di lì. Altezza tre virgola venti. Pavimento in graniglia e finestrina che affaccia sul Corso. Nell’angolo a sinistra per chi entra c’è una grande nicchia che accoglie tutte le pratiche terminate e schedate a sentimento. Il ripostiglio contiene un tavolo in laminato con un visore di vetro incastrato in mezzo e alcune mensole a parete.

Qui dentro il caos è totale.

Alla faccia del detto “Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa”. Fogli e inserti sono accatastati in ordine sparso su ogni superficie. A anche per terra. Durante le prime operazioni di spostamento per la pulizia decido che il vano, da adesso in poi, sarà adoprato solo per disegnare a mano e per costruire modelli. Lo attrezzo di conseguenza travasando i materiali per la grafica dallo scaffale della stanza al nuovo spazio. E mentre rimetto in ordine trovo un piccolo vasetto di vetro stampato. Il recipiente è di colore verde scuro e ha la forma di un giglio appena sbocciato.

Dentro c’è un involto di carta grezza.

Un pezzettino di carta simile a quella usata un tempo nei negozi di alimentari per involtare gli affettati. Il pacchetto è reso solidale alla ciotola per mezzo di un filo di raffia legato a fiocco. Sulle prime borbotto: “ … chissà chi è quella testina di quiz che mi ha lasciato ‘sta puttanata”. Poi realizzo che la testina sono io. Rammento che trattasi dell’ultimo esemplare di una serie di cinquantuno pezzi di alto artigianato realizzati in occasione di una festa.

L’evento era stato organizzato per l’abbandono dello studio vicino al fiume.

Al festino erano stati invitati diversi amici e colleghi. E ad ognuno era toccato in sorte il vasino impacchettato. E dentro c’era un confetto rosso. Di quelli con il cuore di mandorla. Sciolgo il nodo e controllo il dentro del pacchetto. Il contenuto è lo stesso di sette anni or sono. Il confetto è però diventato di un rosa sbiadito come se il tempo avesse mangiato il colore. E per pura curiosità mangio anche io. Il sapore è lo stesso dei ricordi.

Dei ricordi di altri confetti.

Quelli che rammento per primi sono bianchi e si trovano per terra. Lungo la strada asfaltata del paese. Ho sette anni e rotti. È l’estate del sessantacinque e si sposa la Maria con il Giuseppe. Son due giovani del borgo di anni ventuno lui e diciassette lei che, si mormora sottovoce, sia in stato molto interessante.

È interessante da circa sette mesi.

Pare che sia femmina visto che, come dice la nonna: “ … pancia ritta … ‘un và alla guerra”. E in effetti il vestito da sposa, cucito per l’occasione da Rina la sartina, riesce a malapena a mascherare la rotondità della dolce attesa. Ho appena smesso i panni del chierichetto e adesso sono in borghese con la divisa d’ordinanza della festa. Scarpino da ginnastica e calzino bianco corto; pantalone blu gabardine al ginocchio ultima moda e maglietta di cotone a manica corta di colore carta zucchero con la scritta “007” ricamata sul cuore. Della t-shirt vado particolarmente fiero visto che la mamma magliettaia me l’ha fatta apposta con la sigla del mio eroe. L’agente segreto che beve martini “ … agitato … non mescolato …” e che si presenta sempre con il tormentone: “Mi chiamo Bond … James Bond”.

Mi trovo per la strada in attesa della macchina degli sposi e del loro regalo.

E’ infatti usanza che l’auto dei novelli coniugi percorra strombettando le vie del paese. Prima le foto in chiesa. Con i genitori e il prete; con le zie e le nonne e anche da soli. Poi il rito dell’uscita in piazza tra i chicchi di riso. La salita sulla millecento blu notte tutta infiocchettata con nastri white e fiori. E via con il clacson. Vista la mia ormai annuale esperienza di chierichetto queste scene me le posso immaginare. Al momento non le vedo visto che sono in posizione lungo la strada.

Cento metri dopo la piazza.

Davanti al chiesino di San Rocco in cima alla salita dopo il ponte. Sono in fiduciosa aspettativa dell’evento insieme agli amici di sempre. I compagni di gioco e di merenda e di scuola. Finito il pendio la strada spiana e di solito quello è il posto del primo lancio. Gli sposi sono già in macchina. Accomodati sui sedili di dietro. A finestrini aperti. Ci son gli ultimi saluti e baci e poi via. L’autista ingrana la prima e l’auto si muove.

Adesso tocca a loro.

Sono appena passati sotto le forche caudine del lancio del riso. Ora lanciano loro. La scatola di cartone marroncino, piazzata tra i due, è aperta. Le mani pescano generose manciate. Le mani sono chiuse a pugno. I pugni sono pieni. Il giochino pole cominciare. Le regole sono semplici. I novelli lanciano manciate di confetti fuori dal finestrino. I confetti finiscono sull’asfalto. I ragazzi si lanciano alla raccolta dei sassi bianchi ripieni di mandorla.

Dopo si farà la conta.

Adesso è il momento de buttarsi per terra a raccattare gli oggetti del desiderio. Saremo una decina di mocciosi. Tutti vestiti a festa per l’evento religioso. Ma che ci frega a noi dei pantaloni buoni e dei ginocchi sbucciati. Ora ci si deve spintonare e strattonare. Urtare e pressare. Pigiare e schiacciare. Pare di essere dentro una mischia di foot ball americano. Ci mancano solo i caschi e le divise imbottite. Per il resto siamo giocatori di rugby. Uno sopra all’altro per far bottino.

Alla ruffa … alla ruffa.

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