Lettori fissi

27/03/20

Global(e)



Global(e) | 2003

Le avanguardie storiche dei  primi del secolo scorso si sono immaginate città ariose e libere da vincoli spaziali e temporali.

Senza storia alle spalle ma con un grande futuro davanti.

Questo pensiero si è rapidamente diffuso per mezzo dei nuovi mezzi di comunicazione. Il risultato sono le nostre periferie: Firenze come Milano, Roma come Napoli. Oppure le grandi megalopoli dei “paesi altri”: Città del Messico o Nuova Delhi non fa differenza.
Tutte uguali; tutte non ci comunicano emozioni.

Tutte brutte.

Ben prima i popoli e i movimenti antichi ci hanno regalato la città storica che conosciamo. I Romani con le strade e gli acquedotti. Il Gotico con le chiese mirabili. Il Rinascimento con i palazzi e le piazze. Questa sorta di linguaggio universale ha trovato man mano riscontro  e adesione da parte della società del periodo.

L’architettura come arte totale o, come si dice oggi, globale.

Oggi le nuove tecnologie e le comunicazioni in tempo reale ci consentono di sapere in diretta quello che avviene dall’altra parte del mondo. Tutti ci ricordiamo dell’undici settembre.  Quindi tutti conosciamo l’ultima opera dell’ultimo “maestro”.

Ma l’architettura non è più capace di regalare emozioni.

Forse ci stupisce l’arditezza delle forme o l’uso di nuove tecnologie e materiali ma non colpisce i sensi interni dell’utente finale.

Questo non mi pare buono.

Senza scadere nel vernacolo credo che l’adesione allo spirito dei luoghi (al contesto come si diceva una volta) interpretata e attualizzata dalla conoscenza di un mondo globale sia la strada da percorrere.

Forse

26/03/20


Salute a chi legge (secondo calcoli più ottimistici … sarei contento più di tre). Considerato l’anticipo della scorsa settimana posticipo a domattina il racconto che ragiona, per stare sull’attualità, di Global(e).
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17/03/20

Facce



Facce | 2009

Salve.

Permettete che mi presenti. Sono Mina. Una matita arancione con la punta grassa e affilata. Di mestiere faccio disegni a mano libera e ultimamente mi è capitato di rappresentare i volti di certe persone che il Vasari avrebbe definito architettori. Con queste facce ho costruito un segnalibro; che è anche un biglietto di buon augurio per l’anno che verrà e anche un calendario e poi, se volete stare al gioco, un modesto “chi sa chi lo sa”. L’oggetto misura centimetri dieciezerodue per ventiezerodue stampato davanti e didietro. Potete piegarlo nel mezzo per il verso lungo oppure tagliarlo in due a piacimento. Di sicuro conoscete le opere dei personaggi riprodotti e come aiuto ve ne propongo una per ciascuno con tanto di nome e cognome.

Eccole di seguito in ordine caotico come il periodo che stiamo vivendo.

Padiglione tedesco a Barcellona. Scuola a Dessau. Negozio di abbigliamento a Los Angeles. Chiesa san Paolo a Foligno. Asilo infantile a Como. Azienda vinicola a Yountville. Casa dello studente a Cambrige. Libreria a New York. Museo civico a Verona. Casa rotonda a Mendrisio. Sede del governo a Dacca. Padiglione delle arti a Ibaraki. Casa sua a Vienna. Istituto del mondo arabo a Parigi. Centrale elettrica a Milano. Teatrino sperimentale a Brema. Ponte della costituzione a Venezia. Teatrino del mondo a Venezia. Quartiere decentrato a Firenze. Casa sua a Santa Monica. Caserma dei pompieri a Weil am Rhein. Grattacielo alto un miglio a Chicago. Ricostruzione del centro a Groningen. Cappella di nostra signora dall’alto a Ronchamp.

E allora la domanda: sapete dare un nome ai ventiquattro?

Se avete voglia, pazienza e tempo, il giochino pole cominciare. I libri e le riviste sono ordinatamente disposti negli scaffali. L’infernale aggeggio elettronico è connesso alla rete virtuale.

Pronti … attenti … conto fino a trecentosessantacinque … VIA.


Son 14 o 15 gg. che ‘sto piffero di corvi19 ci rompe le palle anticipando tutte le nostre strategie e allora oggi gioco d’anticipo anch’io. Ci caccio sopra 12 + 12 facce. Prima di un paio di gg.
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12/03/20

La rete

Dentro la rete,Venezia 2007 (mi pare)

La rete | 2007

“Saranno passati quasi ottomila giorni da quando ci siamo visti l’ultima volta tutti noi tre da soli”. Questo è il pensiero che mi si gira nella testa mentre pigio il bottone dell’accensione. Il motore inizia il suo lavoro e io mi trastullo con i numeri fino all’imbocco della strada del sole.
”A1 Valdarno” recita il cartello blu con la scritta bianca all’ingresso della porta. L’orologio digitale dell’auto mi ricorda che sono le seietrenta precise. Ho ancora una mezzora di balocco fino alla Certosa. Voglio provare a contare i giorni esatti e allora recito la filastrocca imparata dal nonno da piccino: “trenta dì conta novembre con april giugno e settembre di ventotto ce né uno tutti gli altri ne han trentuno”. Dunque … dunque … gennaio trentuno più febbraio ventotto più marzo trentuno più sedici. Fino al 16 aprile dell’ottantaquattro sono centosei. Trecentosessantacinque meno centosei viene duecentocinquantanove. Primo anno. Poi trecentosessantacinque per ventuno se ne esce settemilaseicentosessantacinque. Poi tre giorni oggi compreso.

Faccio il conto a mente.

Il cervello visualizza settemilanovecentoventisette. Se non ho sbagliato sono questi. Ma un momento. Ogni quattro anni ricordo che un qualche Papa ha introdotto una compensazione per via di certe ore spicciole che avanzano nel conto dei trecentosessantacinque giorni ogni anno. Vado indietro negli anni e mi par di ricordare che al tempo delle due torri che son venute giù si ragionava di un anno che bisesta. E notoriamente gli anni che bisestano portano sculo. Almeno mi pare. Se ho ragione vuol dire che l’anno prossimo febbraio conta ventinove. Allora conto gli anni quattro a quattro. Duemilaotto che non mi interessa se non per la partenza. Poi duemilacinque che conta per uno. E ancora duemilauno. Il cervello si interrompe di colpo e la memoria se ne va per conto suo. Corre alla fine dei sessanta e alla scimmia che lancia in aria un osso che poi si trasforma in astronave.

E che diavolo!

Il duemilauno è quello dell’odissea nello spazio. Ma il tempo scorre e la strada con lui. Passo or ora davanti all’area di servizio dove c’è la sosta preferita dai ragazzi: spizzico. E’ ora di finire la conta dei bisesti. Novantotto … novantacinque … novantadue … ottantanove e ottantasei. Basta. Se il cervello; atrofizzato dall’uso delle calcolatrici elettroniche che ci assillano da quanto avevamo anni quindici o giù di li; non ha fatto tilt dovrebbero essere sette gli anni che mi interessano. Settemilanovecentoventisette più sette viene settemilanoventotrentaquattro. Un numero uguale ad un altro se non fosse che mi fa uscire l’esclamazione imparata dallo spasimante della bionda (finto) svampita che suona l’uculele e canta anche: “capperi”. Allora ci avevo dato. Con buona approssimazione ma ci avevo proprio colpito.

Ottomila quasi.

Ma adesso basta con i numeri che la freccia a destra mi ricorda l’uscita. L’appuntamento è per le sette precise al parcheggio di Bottai. E io, minuto più minuto meno, ci sono. Manca però l’altro che arriva in perenne ritardo. I soliti accademici quindici minuti del tempo degli studi. Ricordo che una volta si doveva andare a Milano per una Triennale. Il treno mi pare che partiva alle seietrenta da Firenze Santa Maria Novella. E io, che vengo dal contado, dovevo puntare la sveglia alle quattro e rotti per prendere il locale delle cinque meno due ed essere alle seietre nella stazione del Michelucci. E io c’ero. Ma lui manco per il cavolo. Se ne arriva tranquillo e riposato verso le sette e si scusa con la frase classica: “Sai … la sveglia non mi ha suonato”

Quindi, come dire, conosco i miei polli e mi metto in stand-by.


Mi piglio il secondo caffè nel bar di fronte e uccido la seconda bionda del giorno. L’alba arriva a piccoli passi e lui anche. Ha parcheggiato la macchina mentre ero occupato con i tasti del telefonino e cercavo di inviare il messaggio: “Dove sei?”. Visto la mia notoria imbranataggine con la tecnologia contemporanea mi sono fatto preparare delle frasi tipo che mi servono per guadagnar tempo. Non ce niente da fare il T9 non riesco ad impararlo proprio. Se provo per esempio a scrivere OK lui mi scrive NON. E allora mi imbizzarrisco come un cavallo selvaggio e soffio come un drago. Ho risolto chiamando in aiuto la Giulia e Guido; anni quindici e undici rispettivamente; che vanno come le schegge sopra i tasti del Siemens.   Come stai?” – attacco appena il socio è a portata di voce – e lui: “Non male …  grazie”. Ci si saluta velocemente e ci si accorda per la macchina. Si va con la mia e si parte.

Si parte per la Bassa e per l’incontro con il terzo.

L’appuntamento con l’altro socio è fissato per le ottoetrentuno precise all’uscita del paese dei magliari: Carpi. Per fortuna la strada; notoriamente intasata, per lavori, nel tratto urbano della città del giglio; è libera e il viaggio procede senza intoppi. Il tempo lo si occupa a raccontarci cose dei tempi passati e fatti degli ultimi giorni. Problemi di famiglia e problemi di testa. Depressioni e insonnie. Preoccupazioni per i figlioli e incomprensioni con le compagne. Aspettative e delusioni del lavoro. Insomma i discorsi comuni della nostra generazione: “classe di ferro millenocentocinquantotto”.
Nonostante il ritardo di partenza si riesce ad essere puntuali e precisi nell’ora fissata e nel luogo previsto. E poi non mi son perso in tutti quegli svincoli che ci trovano vicino alla città dei portici. E già questa è una novità. Mica è la prima volta che per uscire a Sesto - Calenzano mi sono trovato a dover arrivare fino a Barberino e tornare indietro. Ma adesso ci siamo.

Il Kangoo dell’uomo con la barba è arrivato puntuale e noi con lui.

Luppi Gennari Meniconi in ordine alfabetico. Si riunisce il gruppo della laurea. E chissà perché la prima frase che mi esce è una filastrocca ascoltata al tempo della televisione in bianco e nero. Mi pare che il programma fosse: “La nonna del corsaro nero” e si era verso la metà dei sessanta. Attacco quindi con: “… siamo rimasti in tre … tre somari e tre briganti … solo in tre” e strappo un sorriso agli altri due.
Il sole splende felice e l’aria è secca e piacevolmente fredda in questo luogo di nebbie umide e appiccicose. E questo ci pare di buon auspicio per la giornata che ci attende. Ci si sente quasi come quei cinque amici che andavano per zingarate nell’Italia dei settanta. Millenovecentosettantacinque per essere esatti.
Saliamo sulle rispettive auto per il paese della cintura dove abita il nostro ospite. A casa sua si sale in punta di piedi che la famiglia dorme. La mamma e i tre figlioli in questi giorni di vacanza si alzano alle nove e passa e allora meglio non svegliarli. Ci si prende il terzo caffè ma questa volta ce lo offre la macchinetta d’alluminio dell’omino con i baffi.

E si parte.

Si lascia la mia macchina nel piazzale di viale Varsavia al numero trentanovebarrab e si va con il clone della mitica “errequattro”. Si parte per la città del prosciutto. Si va nel luogo natale del Giuseppe nazionale; quello con la barba e il ciuffo fluente. Il tipo che ha composto l’Aida ma di cui non mi sovviene il colore. Il viaggio è occupato dalla continuazione dei discorsi che si facevano prima. La famiglia. Il lavoro. I figlioli. Le compagne. E non necessariamente in questo ordine. E poi la solita rumba della macchina che funge da confessionale dei ricordi. “Vi ricordate … ragazzi … di quella volta a Milano in cinque con la macchina bianca cambio al volante? … Si andava per mostre di architettura e si percorrevano i viali vicino al palazzo dell’arte. Mi pare che si fosse verso la fine dei settanta e le” bierre” avevano appena sequestrato non so quale politico. E una volante ci ha fermato perché la targa dell’auto riportava la sigla FI e noi si era vestiti con l’uniforme d’ordinanza degli studenti del periodo: jeans stinti e golfino stropicciato; giubbotto a rombi e scarpe superga bianco sporco. E capelli lunghi e spettinati. Agli occhi dei ragazzi delle forze dell’ordine si appariva come dei possibili terroristi e per lo più di Firenze; notorio covo di rivoluzionari. E ci hanno bloccato con la paletta. Ci hanno fatto scendere uno ad uno. E piazzato mani sul cofano e a gambe larghe. Mitra puntato e  facce truci. Controllo documenti e perquisizione estesa e completa. E … come si chiamava il compagno di Ancona? … Mauro mi pare … e chissà che fine ha fatto. E il Tarsetti che si mette a far battute cretine per il solletico che prova. E loro che si incavolano e sbottano con un: “… poco chiasso ragazzi che questa è una cosa seria”. E noi allora “silenzio di tomba”. Vi ricordate? … ”. E il Luppi con l’accento della bassa che interrompe il fiume dei ricordi con un: “… Ma io non c’ero mica”.

Insomma tutto quanto mi aspettavo nel dejà vu del sonno della notte passata.

Si va per Parma. E si arriva finalmente. Parcheggio sui viali e giro per il centro. Commenti alle vetrine che aspettano i saldi di fine stagione e poi si capita alla Pilotta. Il palazzo è una roba strana. Pare un edificio non finito. O forse e di sicuro è stato bombardato al tempo “della seconda”. Il nostro anfitrione ci illustra la storia palazzo e ci racconta delle bellezze del luogo. Ci racconta di un teatro tutto di legno costruito nel cinquecento da certi signori della città e disegnato da un grande architetto. E poi nel palazzo c’è anche un bel museo dell’arte che vale di sicuro la visita. Prima il teatro che è un vecchio pallino del gruppo da quando si facevano gli studi e si ragionava di labirinti e memoria e si pensava; in maniera alquanto confusa e molto ingenuamente; che l’architettura serviva a rifare un mondo migliore.

Per teatro dunque.

Biglietto al botteghino e dentro. Il luogo è più o meno come te lo aspetti che lo hai già visto innumerevoli volte con disegni e foto e piante e sezioni e prospettive e lo hai percorso con la fantasia cercando di immaginarti una delle tante tauromachie che si rappresentavano al tempo. E’ un affare tutto di legno e tu ci entri, come dire, dal sotto. Passi sotto le strutture che sorreggono la scalinata dove stanno gli spettatori. Tutto di legno ma rifatto dopo il passaggio di un bombardiere alleato. Una foto del tempo illustra la scena di dolore e rassegnazione delle travi del tetto cascate sulla cavea. Si entra dal “culo” si diceva. Lo sculo è però che non puoi passeggiare sulle scalinate e manco nei palchi. Non puoi toccare le balaustre e neanche le figure mitologiche che coronano la composizione. Puoi andare solo sul palco perché un grande artista contemporaneo di cui non ricordo il nome ha provveduto a infilarci una sua opera. E’ una roba tutta fatta a lastre di vetro messe per ritto e incrociate secondo uno schema “a labirinto”. Il labirinto sta esattamente dove un tempo ci stavano gli attori che facevano finta di essere guerrieri e sollazzavano il principe con rappresentazioni di battaglie dell’antichità. E magari quel luogo era allagato e ci stavano sopra le barche. Almeno mi pare. Le lastre sono tutte rotte e le schegge stanno per terra come vanno vanno. L’istallazione è stata promossa dal locale ordine degli architetti e racconta non so quale sega mentale dell’artista. Il pensiero che a tutta prima mi sovviene non è un bel pensiero e allora è meglio se lo prendo pari pari dal primo film del buon Fantozzi quando lo costringono a vedere quella opera immortale che racconta della presa del palazzo d’Inverno da parte dei rivoluzionari del diciassette: “… a me mi pare una cagata pazzesca”.

Dal palco una freccia ci invita all’ingresso del museo e noi si raccoglie l’invito.

La galleria è composta da una serie di sale grandi e piccole unite da percorsi e passerelle aeree. Tutta scura quasi nera. Il ferro antracite e la pietra la fanno da padroni. Le pareti sono in gran parte trattate a encausto anche lui nero. Per la strada si legge che l’allestimento è stato curato da un grande architetto di nome Guido come il figliolo che ho casa. E dentro si possono vedere opere che valgono il biglietto pagato. Bello.
Ma lo stomaco comincia a brontolare. Saranno le dodici o giù di li. Si decide che la visita è finita e le ultime sale dell’ottocento si fanno alquanto di corsa. Si esce in piazza. Si passa prima dal negozio del pane e dei beveraggi e poi ci si accomoda al sole.

La piazza è in realtà un prato.

Ma grande grande. Un pratone davanti al palazzo. Ricordo di un concorso bandito al tempo degli studi che fece misurare i meglio architetti del periodo e anche che qualcuno; mi pare un tipo dal nome simile al giochino dell’idraulico al tempo del game-boy e dal cognome che ricorda come quando si prende un colpo in testa e ci spunta il bernoccolo; si classifico numero uno. Mi pare però che non se ne fece di niente. Almeno questo è il mio ricordo. Il pratone, si diceva, è tagliato da percorsi ortogonali incrociati ed alberati che conducono al palazzo. Da una parte, a destra guardando il fronte del nostro accesso, c’è una grande vasca coronata, sul perimetro, da grandi panche in pietra. La vasca ha una forma strana. A tutta prima pare la planimetria di una chiesa con il transetto e l’abside e tutto l’ambaradan che ti aspetti se ti immagini in pianta un edificio di culto cattolico.
La capacità di entrare nelle stanze e di immaginarle rappresentate in testa come se fossero disegnate con le viste del disegno geometrico: pianta, fronte e lato secondo la rappresentazione cartesiana degli assi “ics”, “ipsilon” e “zeta” è una roba affinata nel tempo. Ricordo che da piccino andavo per cantieri con il babbo a giocare sul mucchio della sabbia. E poi entravo nelle stanze e mi pareva di volare a toccare il soffitto e le vedevo disegnate sul foglio di carta. E poi cercavo di rappresentarle a scuola nei primi scarabocchi che regolarmente la maestra mi segnava di rosso quando si faceva disegno. “Ovvia ragazzi … oggi disegnate la vostra casa … con i colori … le finestre …. il fumaiolo e tutto” – faceva l’insegnante mentre si accingeva all’ennesimo lavoro di maglia per Rino il barboncino. E io che provavo il disegno tecnico senza sapere che cosa fosse. Disegnavo improbabili piante e altrettante sezioni che la maestra; alquanto irritata devo dire; mi “icsava” con il lapis. Quello blu e rosso. E il secondo colore è quello che  toccava in sorte alla gran parte dei miei componimenti artistici.

Ma adesso la vasca.

La vasca è riempita di acqua per dieci centimetri o giù di li e sotto l’acqua ci stanno i sassi del fiume che taglia in due la città. Nella vasca ci sono pure certi alberi che immagino; a questo punto; vogliano segnare le colonne della navata. I pioppi cipressini si ergono diritti come fusi. Paiono fatti con lo stampo. O forse sono semplicemente potati da esperti giardinieri. Me la immagino di notte con le luci che scappano dall’acqua e illuminano, da sotto, le panche. Non male. Veramente.
Vicino all’ingresso della chiesa che non c'è più si trova un muro di pietra con sopra appiccicata una grande lapide di bronzo che magari racconta la storia dell’edificio e del palazzo. Il muro è circondato da una panca a forma di ellisse. Ci si siede li. A sedere sulle panche di pietra si riprendono i discorsi da confessionale e … “ … ma sono robe nostre … che vi frega a voi?”. La campana batte un tocco. Sospetto che sia l’ora di andare a riempir la pancia.
Ci si accorda per la trattoria dei Corrieri che ci pare un bel nome attinente al viaggio. Dentro mi pare che si sia cercato di mantenere il carattere familiare dell’osteria  “dopo guerra ”. Tavolini apparecchiati con tovaglie a quadretti bianco e rossi. Camerieri con i grembiuli  fino alle scarpe. E poi c’è la stanza degli affettati e dei formaggi. Evidentemente un pezzo forte della casa. Bancone a muro su due lati ricolmo di insaccati e parmigiano e grande vetrata che accede al cortile dove si mangia durante la buona stagione.

Nel mezzo troneggiano due affettatrici a mano.

Quelle tutte rosse e cromo che cerano un tempo nelle botteghe di paese e che si trovano adesso nei banchini delle fiere dell’antiquariato. Queste hanno anche la base cilindrica che parte da terra e occupano un bel pezzo della stanza.
La pancia è stata mezzo riempita dalle focacce e dalla la birra ingurgitati seduti sulle panche della vasca e allora giusto un assaggio del piatto forte del luogo: tortelli con ripieni vari. Alle erbette, alla carne e alla zucca gialla innaffiati dal lambrusco spumeggiante di queste parti. I sapori si mischiano bene e la pancia è soddisfatta. A tavola si ricorda della prima volta che due di noi hanno gustato i tortelli di zucca.
Correvano i primi dell’ottanta e la nostra amicizia si era cementata nel costruire insieme esami e progetti. Il nostro anfitrione; Luppi Antonio da Correggio, Reggio Emilia; ci invita per un fine settimana nella bassa. E c’era anche la Silvia. E la domenica a pranzo ci toccò il piatto forte di quelle parti: il tortello. Ma ripieno di un impasto di zucca gialla e trito di amaretti (quelli di Saronno). Roba (finto) leggera da condir col burro e parmigiano. Ma strana. Strana per i palati di noi toscani avvezzi al sale e al pepe e non assolutamente preparati a quello inconsueto incontro di dolce ripieno con il salato della sfoglia. La mamma del nostro ospite ci riempì una scodella piena fino all’orlo. E noi si gustarono di controvoglia. Per parte mia ricordo di essermi servito più volte dal piattino del formaggio grattato. E poi chiesi il pepe, il sale e anche il peperoncino. L’idea era quella di mascherare il dolce della zucca e granelli dell’amaretto. Ma devo dire che il dolciastro non spariva mica. Anzi, se possibile, la mistura di spezie amplificava l’odioso sapore. Un occhiata agli altri piatti dei fiorentini mi comunicava il loro disagio. E il Lambrusco del luogo non aiutava per niente con tutta quella spuma e quel gusto di dolce fermentato. Uno di noi: il Simone si decise per l’attacco frontale e la velocità di esecuzione. Ingurgitò il contenuto del piatto in pochissimo tempo. Un lampo ed la ceramica bianca Richard Ginori dei giorni di festa era vuota. E la mamma del nostro eroe: “ … ’O Simone che fame che avevi … ne vuoi ancora …(?)”. La domanda non era una domanda ma piuttosto un affermazione. Tanto è che tra lo stupefatto e lo sconcertato il Meniconi di contropiede provò ad abbozzare una debole rinuncia iniziando la frase: “… Non importa …. grazie … veramente …” Ma il ramaiolo era ormai partito e il piatto di nuovo riempito. E allora io; che sono a tavola sono notoriamente un fulmine; presi a gustare con calma. Molta calma. Leggevo il sudore interiore negli sguardi del Meniconi e ridevo, di gusto, sotto i baffi che non avevo. Da allora orni volta che mi capita l’assaggio del tortello mi ritorna in mente la scena.

Mitica.

Ma le tre incalzano ed è giunta l’ora di partire per il paese del prete versus il sindaco. Il paese vicino al grande fiume teatro di innumerevoli storie raccontate dalla penna mirabile dello scrittore di “Mondo piccolo”. Il Luciano con i baffoni che assomigliava tanto al baffone descritto nei racconti. Ricordo come fosse ora tutti i film bianco/nero visti per la prima, da piccino, nella sala parrocchiale del paese battezzato dall’uccello con le zampe lunghe che porta i bambini. E le battute le so tutte. E poi da grande ho letto il libro. Un’edizione originale del tempo che fu del babbo del mio amore. Carattere Bodoni corpo quattordici su carta grezza con cinquantotto disegni dell’autore. Finito di stampare il 18-IX-1952 nelle Officine Rizzoli n.c. Anonima per l’arte della stampa, Piazza Carlo Erba, Milano.
Il paese è come lo ricordo dalle pellicole e come me lo immagino dal libro a parte i necessari aggiornamenti temporali e tecnologici del nostro tempo. La piazza è occupata da due bronzi a scala umana dei due personaggi che si fronteggiano da lontano. Uno vicino alla chiesa e l’altro di fronte al municipio. In piazza ci sono due bar che prendono il nome dei due. La vecchia scuola elementare è diventata museo e intitolata allo scrittore. La piazzetta davanti all’edificio sopporta il peso ingombrante del carro armato verde militare servito per certe scene di un film. La foto ricordo davanti all’attrezzo bellico la facciamo scattare da una ragazzina seduta sul muretto a lanciare messaggi con il telefonino. Il museo è a: “ingresso libero con offerta” e racconta; per immagini e oggetti; le storie narrate dallo scrittore. I cadget al bancone d’ingresso non sono però assolutamente all’altezza dello spessore dell’ambiente. E allora non si lascia manco una lira di offerta. Si va all’argine del fiume che taglia la bassa e divide i piemontelombardoveneti dagli emilioromagnoli.
Ci si arriva che comincia a bruzzicare e il freddo si fa pungente. Un bel the al limone è quello che ci merita. E indecisi tra il bar del parroco e quello dell’amministratore si sceglie allora quello anonimo del “corso”. L’atmosfera del locale ricorda gli anni cinquanta. Pare che il tempo si sia fermato. Il bancone di legno e gli omini intenti al gioco delle carte: briscola, scopa e tresette. La coppia che vince canzona i perdenti mentre sorseggia il quartino di vino in palio. La bevanda è fumante e densa. L’ambiente inviterebbe ad altri ricordi. Ma il buio incombe e al Gennari quando scurisce gli prendono le paturnie e comincia a dire che: “ … Ragazzi … che ne dite? … Un sarebbe mica l’ora di andare … la strada per tornare è lunga … e guido poco volentieri di notte … “.
E allora si prendono i paltò e ci si avvia verso la Kangoo parcheggiata di fianco alla macchina da guerra con il cannone e i cingoli e tutto. Il motore si avvia al primo colpo. Il riscaldamento è al massimo e la nebbia scende.

La giornata è finita.

In fretta si percorrono strade di campagna strette e dritte come fusi. Poche curve e grandi fossi dalle parti. La nebbia scende ancora e la velocità si abbassa fino al passo d’uomo. Poi dal muro bianco una luce. E’ l’insegna del posto dei tortelli. Un chilo per uno divisi a metà tra quelli all’erbette e quelli di zucca che adesso, per i foresti dell’auto, sono diventati una bontà. Anzi meglio una roba irrinunciabile ogni volta che si passa dalle parti della bassa.
La macchina giunge infine alla casa del Luppi. Adesso è il momento dei saluti. Un abbraccio e un bacio e via. Ci si ripromettono altri incontri che magari saranno onorati tra altri ventitre anni. Ma, come dicevano Aldo Giovanni e Giacomo: così è la vita.

Si torna a casa.

All’imbocco del casello la nebbia se ne va e noi con lei. Si fa come il Baglioni che si leva da tre passi a dai marroni.
Il viaggio di ritorno è silenzioso. Ognuno di noi due ha pensieri diversi e magari ha voglia di assaporare ricordi e sensazioni della giornata appena passata. Non saprò mai quello che passa nel capo del Meniconi che si appisola nel sedile di lato.
Per parte mia un pensiero mi attanaglia feroce durante tutto il viaggio di ritorno.“Chissà chi mai avrà disegnato la piazza?”. Il pensiero mi riflulla in testa. Batte e ribatte tra il destro e il sinistro dei padiglioni auricolari. Sono sicuro che stanotte non mi farà dormire. Navigherò nei meandri della mente alla ricerca del nome.

E allora decido.

“Appena torno a casa …  cascasse il mondo … mi attacco alla rete”.


#parma #brescello #bassapadana #www
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05/03/20

Ampelmann, 2



Ampelmann, 2 | 2014

… Continua

110714
Caro Diario stamani tradisco la poltroncina celeste elettrico e il suo contorno. Le sono infedele per opportunità e soprattutto per pigrizia. Questa mattina scrivo in camera disteso prono sul letto davanti alla finestra. C’è il sole almeno in apparenza. Ho aperto gli occhi un paio di minuti prima della cinque e fino ad ora, sei e trentadue, ho ciabattato per la stanza leggendo delle ultime vicende della KS anatomopatologa 12 e un po’ dormicchiando. Poi ho acceso la radio sul canale 28; radio jazz; e aperto il quaderno blu navy. Il grande Louis Armstrong; il trombettista dalle guance enormi e dal sorriso che conquista; mi convince ad abbrancare il telecomando e alzare il livello del volume da 18 a ventotto. In culo ai vicini di stanza e fidando della mitica tecnologia teutonica per l’isolamento acustico degli edifici.
Il pezzo lo conosco bene; parla di un mondo meraviglioso 13. Alzo il volume fino a 38. Godimento totale. L’isolamento funziona alla grande. Mi manca solo l’espresso del bar sotto casa o meglio quello della moka da uno. Forse se ci fosse una bionda da uccidere … ma tant’è. Chi si contenta gode.
Scrivo veloce con la grafia a zampa di gallina che mi contraddistingue. Che sia in corsivo o in stampatello so per certo che dopo, quando passerò in bella, avrò le solite difficoltà di comprensione di sempre. Per fortuna ho a disposizione un vocabolario limitato a 999 termini, o poco più, e spesso improvviso.
Per dar conto della visita al parco di Tempelhof resta da dire che quel luogo ex militare è diventato un mito. Ha funzionato fino a pochi anni fa e poi è stato abbandonato. La stazione terminale con tutti i servizi sono stati destinati a sede di spazi espositivi e ci vengono organizzati eventi e mostre importanti come quello che si svolge in questi giorni. L’esibizione di questi giorni è il Fashion design Berlin week o più volgarmente la settimana della moda. Il resto è molto libero. Sull’asfalto della pista principale, lunga 2250 metri, sono state stampate icone grafiche; figure, lettere e numeri; di un bel rosa shocking. Sulle laterali ci son persone in bike, skate, roller e oggi c’è persino un pazzo con dei pattini a vela. L’effetto, visto a raso, è quanto mento singolare: pare scivolare sull’erba per via di un qualche trucco di magia. In realtà tutto il posto è assolutamente non strutturato. L’architetto del paesaggio si è limitato a lasciare tutto come l’ha trovato. Solo in alcune pennellate di organizzazione, soprattutto grafica, necessarie all’orientamento in questo posto enorme si riconosce la mano del tecnico. Lui è stato abile e i Berlinesi son felici.
Alla fine della pista degli aeroplani ci incontriamo con la sorella di DK che in realtà risponde al nome di Cristiane Turman e noi ci ostiniamo a chiamare come l’eroina del movie Kill Bill. La signora, direi una sessantina portati di lusso, è gioiosa e solare e soprattutto è il nostro architetto referente per le uscite prettamente tecniche. Insieme con lei c’è un giovanotto della metà dei di lei anni. È vestito sui toni del nero compreso la giacca fresco di lana. Ha la pelle pallida delle persone che passano molto tempo in spazi chiusi e ricorda certi cantanti di gruppi dark anni ottanta. In una parola potrebbe essere un emo. Ci viene presentato in realtà come il direttore di una qualche associazione di architetti che si occupa del recupero e riuso dei pannelli prefabbricati in c.a. con cui venivano costruiti gli alveari popolari della Germania orientale. In quei quartieri la gente non ci vuole più abitare e d’altra parte il loro spostamento genererebbe grandi problemi. Quindi la ricerca dell’associazione Plattevereinigung si è concentrata sullo studio dello smontaggio e assemblaggio dei pannelli costruendoci delle specie di scatole a due piani variamente sagomate. Come se fossero certi mobili che si trasportano inscatolati e si montano a casa. 
Infatti, uno dei partner principali del progetto è per l’appunto Ikea. La prima impressione, a quanto ricordo, è perplessità e anche la seconda.
Il pomeriggio ce lo siamo giocato a spasso per un quartiere della Berlino est; per la precisione nei dintorni della Warschauer Strasse; fra isolati cortili e tatuati spacciatori che la fanno da padroni. Kerima Bouali è la nostra guida del momento che crede molto nella sua missione socio- cultural – ambientalista. I suoi dati, e la sua fisionomia, tradiscono le sue origini di sicuro non ariane. Se la dovessi definire con sole tre parole, direi che è una Bella Ricercatrice Universitaria.
La cena della sera è stata servita sulle rive della Spree. Ricordo che il posto era molto bello, elegante e caro assaettato. Della serata salvo due cose: il merluzzo dell’atlantico, leggermente sciocco, e le finestre sul fiume con i parapetti tanto bassi da poter toccare l’acqua e le anatre che ci nuotano sopra. Ho anche fatto un disegno che rivisto stamani è proprio brutto.

120714
Aeroporto. La sveglia col riff di MW che ho nel telefono ha schitarrato alle 3e15 per esser prontamente pronti e preparati alla partenza delle 4. A quell’ora è ancora buio pesto e per le strade ci son poche auto e altrettante poche persone. La giornata di ieri è scivolata via lenta e uggiosa tra la visita di un laboratorio che produce gessi e statue in pietra e una sosta in birreria. Poi nel pomeriggio ho saltato la visita a certi vetusti palazzi che ospitano altrettante antiche opere d’arte. Ma ho trovato un amico in carne ed ossa e un altro virtuale a colori. E con queste poche note avrei finito gli appunti presi nella sala d’attesa delle partenze dell’aeroporto in attesa del volo di rientro per l’Italia EZY4583 delle 06.00 con arrivo a Pisa alle ore 07.55.
Ma mi pare sconveniente finire con un corsivo copiato dal programma di viaggio. Quindi aggiungo, adesso in bella, dettagli del giorno avanti.
Verso le 11 abbiamo appuntamento presso la Fabbrica del castello di Spandau a curiosare dentro i laboratori che producono le sculture da attaccare alle nuove facciate del ricostruito Castello degli imperatori. L’enorme impianto; la nostra guida l’ha definito il cantiere più grande d’Europa, affaccerà sulla Schloßplatz e sarà caratterizzato dall’assoluta fedeltà dell’apparato decorativo su tre delle quattro facciate. Con costanza teutonica tutto il pacchetto, di cui si è cominciato a discutere nel 2003, sarà finito e agibile entro il 2019. E se lo scrivono loro possiamo crederci.
Il pranzo lo consumiamo nel giardino di una birreria artigianale che sta nelle vicinanze. Alla fine del desinare arriva un signore che a dire la verità ho già visto girarci intorno almeno un paio di altre volte. È un personaggio alto con la pancetta del bevitore di birra che nelle altre occasioni è sempre stato zitto limitandosi a sorridere o parlottare con i nostri ospiti. Adesso saluta con calore DK alias A(U)T e ordina uno stivale di scura. Ne beve una lunga sorsata e attacca. È un racconto in lingua madre che s’interrompe ogni tanto per consentire a MM una traduzione sintetica e comprensibile a noi Mediterranei. Di tutto il discorso; durata diciotto minuti e rotti cronometrati; ricordo alcuni fatti che riporto fedelmente a seguire. Il signore è un ingegnere direttore di lavori e non progettista. Ha cominciato come operario semplice e poi si è evoluto in ghiselle studiando presso la scuola edile di cui è adesso Presidente onorario. Dopo è stato in giro per il mondo a costruire di tutto: dai tunnel alle dighe, dalle casette ai palazzi e finanche ai grattacieli. Una vita professionale intensa con alti e bassi e molte soddisfazioni che compensano gli insuccessi. E per dirla come l’ho scritta e fatta tradurre: “Se nasco un’altra volta, voglio fare lo stesso” che significa “Wenn ich nochnall auf die welt kommen, dann will ich nochmal bauinggnieur  werden”, firmato RB 14.
Il pomeriggio libero l’ho passato insieme a un nuovo amico, nome in codice CDC, in giro a cercare sandali per i suoi piedi martoriati da enormi vesciche e da diversi calli. Li ha costretti per alcuni giorni entro scomode scarpe da ufficio mentre loro (ndr. i piedi) erano impegnati in prove di circa dieci chilometri al dì e oltre. E le due estremità si son vendicate. A un certo punto del pomeriggio; quando gran parte del gruppo si stava organizzando per la visita all’Isola dei musei con le sue meraviglie del passato; il DC se n’esce in stretto dialetto con:
“Ehi uagliune fermatèv ppe piacerè. Nun ce a' facciò cchiu' cu cheste scarpè. Teng e' vescìch e e' callì. Aggia cercàr nu' paiò e' sandalì. Chi me accompagnà?”.15 C’erano venti piedi sopra al marciapiede della stazione di Zoologischer Garten e quattro si son allontanati in cerca di calzari. Due sono di misura quarantasei e certe volte fanno colazione col babà. Vi risparmio l’indovinello delle altre.
Mentre ci allontaniamo dal gruppo degli altri, il solito simpatico dice: “Allora ci si vede dalla Nefertiti. Ciao a dopo”. La ricerca delle calzature ci porta dentro un centro commerciale enorme. Una specie di galleria di tre piani, di cui uno sottoterra, lunga quanto l’isolato e altrettanto larga con i negozi che affacciano a pettine sulla strada coperta e le salite all’incrocio con gli ingressi. Brutta, frenetica e soprattutto caotica. Se poi a tutto aggiungiamo una buona dose di assoluta mancanza di orientamento del vostro eroe, il gioco è fatto. Dopo un peregrinare in diverse botteghe di scarpe riusciamo infine a trovare il numero che serve al compratore. Ma non piace il modello. Allora saliamo al superiore e finalmente si trova un posto che vende solo sandali e infradito. Qui di sicuro saremo accontentati. Mentre C si prova i modelli scelti sugli scaffali a me viene un bisogno impellente dovuto ai diuretici che prendo la mattina in quantità industriale. Il bisogno aumenta di urgenza e mi porta a scappare nel sotterraneo alla ricerca dei vespasiani. “Tu intanto scegli … – attacco mentre esco - … tanto faccio in un lampo e torno subito. Aspettami qui”. Il sotterraneo è ancora più labirintico e i pittogrammi che indicano i servizi igienici sono nascosti dalle insegne commerciali. La ricerca porta via diversi minuti e cambi di direzione.
Poi alla fine di un pertugio fatto a gomito lo vedo. L’agognato stanzino: uomo, donna, disabile e perfino cambio neonato. C’è però un problema. Ci sono due tornelli. E tutto funziona solo con moneta da 50 centesimi in entrata e biglietto in uscita. Non ho monete della misura richiesta e non ci sono macchinette cambia soldi e manco la signora delle pulizie. Rimango un pochino in attesa mentre cammino a saltelli per limitare i danni. E poi vedo una ragazza uscire passando sotto il girevole. Mi si accende la lampadina di Archimede e aspetto con impazienza l’assenza di avventori. Appena lo stanzino è vuoto entro e faccio quanto dovevo. All’uscita ci saranno almeno sette persone tra quelle dentro e quelle fuori dai tornelli. E mi pare che tutti stiano aspettando me che non ho of course il biglietto. Anzi mi pare che la signora col cappellino stia facendo dei cenni alla sorvegliante dei bagni pubblici che nel frattempo è tornata. Allora, pur con la faccia giallorossa di vergogna, mi abbasso di scatto e, come una biscia di stagno, scivolo sotto al tornello e via. Non senza avvertire una serie di frasi ingiuriose, che non sto qui a riportare ma che in sostanza inveiscono contro i soliti mangia spaghetti del piffero.
L’uscita in galleria mi confonde ancora di più. Giro in tondo a casaccio fino a che non mi convinco di essermi perso. Pare impossibile ma mi son smarrito, certo solo per pochi minuti, in un centro commerciale della Germania riunificata e fin’ora non lo sapeva nessuno. Mi son perduto come uno di DES 16. La scena, depurata dalla frase mi son smarrito, la racconto poco dopo al Carmine che incontro dietro l’angolo vicino al negozio delle scarpe. Per festeggiare i suoi nuovi sandali e la mia pisciata si cerca un chiosco. La ragazzina ungherese del primo che troviamo non ha espresso e manco spremute. Ha però una miriade di bottiglie colorate che usa per correggere acqua naturale e allunga con tanti cubetti di ghiaccio. La gente intorno fa la ressa per essere servita e questo ci convince. Come le trattorie di un tempo lungo le strade trafficate della penisola. Quelle che nascevano come funghi per servire gli autisti e adesso son tutte pizzerie, sale giochi o bar lap dance. Il detto delle famiglie italiane in quegli anni era: dove ci sono tanti camion si mangia bene. E noi con loro. Al nostro turno ci facciamo portare due colossali caraffe di un beverone dove l’ingrediente principale è uno sciroppo di marca sconosciuta. E sconosciuto è il sapore ingurgitato. Per riparare progettiamo un grande aperitivo per la sera con tanto di salt peanuts e beveraggi altamente alcolici. Poi si paga e si va in strada verso l’Isola della Musa.
Ma sono passati almeno settantacinque minuti da quando ci siamo lasciato con gli altri. La lancetta dell’orologio sfiora le 5 e 20 pm e i musei chiudono alle sei. E allora ci sorge spontanea una battuta in simultanea: “Sai che c’è … se la Nefertiti ci vuole vedere …. Viene lei” –inizio io. “Noi si va a trovare JN, Giovanni Novello per gli amici, e il suo palazzo tutto di vetro” –termina lui. Al primo semaforo ritrovo l’omino rosso (fermo) e verde (cammina) che mi perseguita da quando sono in città. All’inizio mi sembrava brutto e sgraziato. Poi la nostra mentore ci ha raccontato la sua vita, le sue vicissitudini, la sua età: cinquant’anni o poco di più, e d’improvviso la sua simpatia mi ha conquistato. MM lo chiama l’omino del semaforino 17 e anch’io lo ricordo ormai con quest’appellativo.
Al secondo semaforo non trovo l’omino rosso ma incontro direttamente uno dei tanti store Ampelmann. Questi negozi son qualcosa di più di spazi commerciali. Piuttosto raccontano un mito. Il nostro è d’angolo tra due strade commerciali molto trafficate. L’interno è pieno zeppo di omini, verdi o rossi, riprodotti sopra a innumerevoli oggetti eccentrici, bizzarri, stravaganti, insoliti, astrusi, bislacchi e via. C’è anche, nel mezzo della stanza, un piccolo bar che offre caffè, latte e dolcetti.
La barista è uno spasso. Bionda e statuaria come la Venere di Milo di Botero. Camicetta bianca di pizzo e gonna rosso fuoco. Con due poppe come due meloni. Una vera sex bomb. E mentre porge la tazzina di carta ride sempre. Il mio compagno, fidando che la ragazza parli solo la lingua di Goethe e al più biascichi un italiano maccheronico, se n’esce in casertano stretto con una frase che non saprei replicare. E che sul momento manco comprendo per niente. Comunque l’allocuzione ha che fare con la quantità di latte che potrebbe fuoriuscire dalle mammelle della nostra Ostessa. Anzi a voler essere esatti la stessa veniva proprio definita come la figura animale da cui si munge il succo. La prossima volta che incontro CDC gli domando l’esatta battuta in dialetto con traduzione a fianco.
Ma adesso è l’ora di andare a visitare il palazzo di vetro per il quale eravamo capitati in Friedrichstadt Passagen, Galleries La Fayette, Quartier 207. Prima però, seguendo l’antica tradizione del turista italico, svaligiamo lo store di ninnoli e nannoli marcati omino del semaforino che per uno strano scherzo del destino battezza il titolo di questa mia.


PS Mi piace ricordare i compagni di viaggio e gli ospiti in loco (ndr. Compreso quelli che non ho potuto incontrare perché non sono andato a trovare) che, per omissione affatto non intenzionale, non ho riportato nel testo. Li scrivo in fila, in ordine assolutamente non alfabetico, secondo la sorte e con le sole iniziali. BM VA GB RH MR CF HJ BP KB ED TS SH KJP KR BR TA MR LMVR BL GM MM BC KR AF DCC GW IA SJ BJ BA FN LC CM AKM CC UOM.

Le note
1          Valentina, Olivetti, Ivrea 1968. Macchina da scrivere trasportabile. Disegnata da Ettore Sottsass junior.
2          Il 3/4 di pollice in più rispetto ai normali televisori in dotazione al resto del mondo ci ricorda che qui stiamo in Bundesrepublik Deutschland dove tutto è più …
3          Arco, Flos, Milano 1962. Lampada da terra a luce diretta. Disegnata da Achille e Pier Giacomo Castiglioni.
4          Altes Museum (1823-28), Neue Wache (1816-18). Berlino. Disegnati da Karl Friedrich Schinkel.
5          La musica è finita, Ornella Vanoni, Sanremo 1967. Testo Franco Califano  e Nicola Salerno, Musica Umberto Bindi.
6          (NdR). Si chiama ristorante … Gennari. Smetti con questi panegirici. Il posto dove si mangia è il ristorante.
7          Domotica. Dall’unione del latino domus (casa) con robotica. Per approfondimenti e acquisti contattare AV, Colle Val d’Elsa.
8          Tettonica. Termine usato in architettura per significare la struttura di un edificio cioè il complesso degli elementi e degli aspetti costruttivi, strutturali, statici. 
9          Debis-Haus, Berlino. Disegnata da Renzo Piano, 1992-2000. Su Potsdamer Platz sono stati costruiti nella stessa epoca edifici di: Hans Kollhoff e Helmut Jahn.
10        Passo umano. Ognuno ha la sua falcata. La mia è 58|60 cm. Su questa misura si basa il calcolo. Il racconto CdC, cimitero di campagna 2011, ne parla diffusamente.
11        MVDR, novella 1998. Accompagna il progetto della Fondazione Mies Van Der Rohe a Barcellona disegnata con Sandro Gallucci.
12        Kay Scarpetta, personaggio creato dalla scrittrice di thriller Patricia Cornwell nel  1990. Il volume citato è Nebbia rossa, 2012
13        What a Wonderful World | Che mondo meraviglioso.  Louis Armstrong, 1967. (trad.) Vedo alberi verdi, anche rose rosse, le vedo sbocciare per me e per te. E dico a me stesso, "che mondo meraviglioso". Vedo cieli blu e bianche nuvole. Il luminoso giorno benedetto, la scura notte sacra. E dico a me stesso, "che mondo meraviglioso". I colori dell'arcobaleno, così belli nel cielo, sono anche nelle facce della gente che passa. Vedo amici stringersi la mano chiedendo "come va?" Stanno davvero dicendo: "Ti amo" Sento bambini che piangono, li vedo crescere. Impareranno molto più di quanto io saprò mai. E dico a me stesso, "che mondo meraviglioso". Sì, dico a me stesso, "che mondo meraviglioso". Sì, dico a me stesso, "che mondo meraviglioso".
14        (NdR). Rainer Boche. Un grande.
15        (trad). " Ehi ragazzi fermatevi per piacere. Non ce la faccio più con queste scarpe. Ho le vesciche e i calli. Devo cercare un paio di sandali. Chi mi accompagna? ".
16        Disperato erotico stomp, Lucio Dalla, 1996. (Estr.) Girando ancora un poco ho incontrato uno che si era perduto. Gli ho detto che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino. Mi guarda con la faccia un po’ stravolta e mi dice "sono di Berlino". Berlino, ci son stato con Bonetti, era un po’ triste e molto grande però mi sono rotto, torno a casa e mi rimetterò in mutande. 
17        Ampelmann. Omino del semaforo. Disegnato da Karl Peglau, 1961. Rielaborato da Markus Heckhausen, 1996.


… soprattutto se passate col rosso.
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